Autore Stefano Mancuso
CoautoreGrisha Fischer [illustrazioni]
Titolo L'incredibile viaggio delle piante
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2018, i Robinson Letture , pag. 144, ill., cop.rig., dim. 16x23x1,5 cm , Isbn 978-88-581-3332-3
LettoreAngela Razzini, 2019
Classe natura , botanica , viaggi












 

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Indice


     Prologo p.8


01 _ Pionieri, reduci e combattenti P. 14

     a. I pionieri dell'isola di Surtsey p. 17
     b. I combattenti di Černobyl' p. 21
     c. Gli Hibakujumoku ovvero i reduci della bomba atomica p. 25


02 _ Fuggitive e conquistatrici p.36

     a. Da isola a isola p. 39
     b. Bell'abissina p. 46
     c. Ippopotami in Louisiana p. 5ó


03 _ Capitani coraggiosi p. 60

     a. Cocco, frutto divino p.67
     b. La palma callipigia p. 74


04 _ Viaggiatori del tempo p. 82

     a. I semi di Jan Teerlink p. 86
     b. La palma di Masada p. 91
     c. Il seme venuto dal freddo p. 97


05 _ Alberi solitari p.102

     a.L'abete di Campbell Island p. 105
     b. L'acacia del Ténéré p. 113
     c. L'albero della vita del Bahrein p.119


06 _ Anacronistici come un'enciclopedia p.124

     a. Mi manca tanto un mastodonte p. 131
     b. Il dodo e il tambalacoque p. 137


 

 

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Pagina 8

Prologo


Ricordate il capolavoro di Frank Capra La vita è meravigliosa con James Stewart nell'indimenticabile parte di George Bailey? Spero davvero che lo conosciate tutti. La trama del film è molto semplice ed è incentrata sulle rinunce a sogni e aspirazioni che il protagonista, George Bailey, sopporta per tuttà la sua vita pur di aiutare il prossimo.

Da bambino salva il fratello Harry caduto in uno stagno e ne ricava un'otite che lo renderà sordo da un orecchio. Adulto, mette da parte le proprie aspirazioni per gestire la piccola cooperativa di risparmio fondata dal padre. Rinuncia a prendere la laurea, e usa i soldi risparmiati per permettere al fratello di andare all'università. Si sposa nel 1929, l'anno del crollo di Wall Street, e con i soldi destinati al viaggio di nozze rimborsa i soci della cooperativa, evitandone il fallimento. Rinuncia dopo rinuncia, la vita di George scorre inosservata fino a quando, per una serie di eventi che non vi racconterò, la notte di Natale il nostro non decide di suicidarsi. Sta per gettarsi nel fiume quando Clarence, angelo di seconda classe, lo salva e, trasportandolo in un mondo parallelo, mostra a George come sarebbe stato il mondo se lui non fosse mai nato.

Lo so, raccontato così ci vuole davvero un cuore di pietra per non ridere, ma Capra è in grado di prendere una edificante storia natalizia e farne una pietra miliare nella storia del cinema. Anzi, ora che ve ne ho parlato, non vedo l'ora che sia Natale per guardarlo ancora una volta.

Bene, le piante sono i George Bailey di questo pianeta. Nessuno le considera, non vengono studiate, non sappiamo neanche lontanamente quante ne esistano, come funzionino, quali siano le loro caratteristiche. Eppure, senza di loro la vita di ognuno di noi animali non sarebbe possibile. Sarebbe istruttivo se un maestro del calibro di Frank Capra potesse un giorno mostrarci come sarebbe il nostro mondo se le piante non fossero mai nate.

Ciò che conosciamo delle piante è molto poco e, spesso, questo poco è sbagliato. Siamo convinti che le piante non siano in grado di percepire l'ambiente che le circonda mentre la realtà è che, al contrario, sono più sensibili degli animali. Siamo sicuri che si tratti di un mondo silenzioso, privo della capacità di comunicare e, invece, le piante sono grandi comunicatrici. Siamo certi che non intrattengano nessun tipo di relazione sociale e, viceversa, sono organismi prettamente sociali. Siamo, soprattutto, certissimi che le piante siano immobili. Su questo siamo irremovibili. Le piante non si muovono, dopotutto basta guardarle. La grande differenza fra gli organismi animali (ossia animati, dotati di movimento) e i vegetali non sta proprio in questo?

Ebbene, anche in questo caso sbagliamo: le piante non sono affatto immobili. Si muovono molto, ma con tempi più lunghi. Quello che le piante non possono fare non è muoversi, ma spostarsi, almeno nel corso della loro vita. L'aggettivo che le definisce, infatti, non dovrebbe essere immobili, ma sessili o, se preferite, radicate. Un organismo sessile non può spostarsi dal luogo in cui è nato, ma può muoversi come e quanto più gli aggrada. È quel che fanno le piante e ciascuno di noi può rendersene conto dando un'occhiata alle migliaia di filmati accelerati che si trovano ormai dappertutto in rete.

Nonostante le piante non possano spostarsi nel corso della loro vita individuale, di generazione in generazione sono in grado di conquistare le terre più lontane, le aree più impervie e le regioni meno ospitali per la vita, con una caparbietà e capacità di adattamento che tante volte mi sono trovato ad invidiare.

Come ho raccontato altrove, le piante sono incredibilmente diverse dagli animali. Il loro corpo, la loro architettura, le loro strategie sono spesso diametralmente opposti a quelli animali. Gli animali hanno un centro di comando, le piante sono multicentriche. Gli animali hanno organi singoli o doppi, le piante hanno organi diffusi. Gli animali sono individui (nel senso di indivisibili), le piante non lo sono affatto, essendo più simili a colonie. Insomma, sembrerebbe che negli animali l'enfasi sia più sul singolare, mentre nelle piante è sul plurale. Negli animali conta più l'individuo, nelle piante il gruppo. Organismi così differenti da noi devono essere osservati attraverso le lenti della comprensione, non della similitudine. Non potremo mai capire le piante se le guardiamo come se fossero degli animali menomati. Sono una forma di vita diversa, né più semplice né meno sviluppata di quella animale.

Se le si guarda con occhi privi del filtro animale, le loro caratteristiche straordinarie emergono chiarissime e indubitabili, dappertutto, anche in ambiti in cui sembrerebbe improbabile, come nella loro capacità di spostarsi. Quando si parla di migranti, bisognerebbe studiare le piante per capire che si tratta di fenomeni inarrestabili. Generazione dopo generazione, utilizzando le spore, i semi, o qualsiasi altro mezzo, i vegetali si spostano e avanzano nel mondo alla conquista di nuovi spazi, Le felci rilasciano quantità astronomiche di spore che possono essere trasportate dal vento per migliaia di chilometri, per anni e anni. Il numero e la varietà degli strumenti con i quali i semi si diffondono nell'ambiente sono stupefacenti. Nel corso dell'evoluzione è come se ogni singola possibilità fosse stata presa in considerazione e, di volta in volta, ognuna delle soluzioni sperimentate avesse trovato qualche specie pronta ad adottarla.

Così abbiamo semi dispersi dal vento, o dal rotolamento sul suolo, dispersi dagli animali in generale o da specifici gruppi come formiche, uccelli, mammiferi, dispersi dagli animali per ingestione o attraverso appigli alla pelliccia, dispersi dall'acqua o per semplice caduta dalla pianta, dispersi per azione dell'ondeggiamento della pianta madre o grazie a meccanismi propulsivi, per disseccamento del frutto o all'opposto per idratazione, e chissà quanti altri ne ho dimenticati. Ogni anno si scoprono strategie diverse e raffinate sviluppate dalle piante per aumentare le possibilità di germinazione dei semi. Nella varietà di modi, procedure e mezzi, si intravede l'azione incessante di questa spinta alla diffusione della vita, che ha portato le piante a colonizzare ogni possibile ambiente della terra.

La storia di questa espansione inarrestabile è ignota ai più. Come le piante convincano gli animali a trasportarle in giro per il mondo, come alcune abbiano bisogno di particolari animali per diffondersi, come siano state in grado di crescere in luoghi così inaccessibili e inospitali da rimanere alla fine isolate, come abbiano resistito alla bomba atomica, al disastro di Černobyl', come siano in grado di portare la vita su isole sterili, come riescano a viaggiare attraverso le epoche, come navighino intorno al mondo, sono soltanto alcune delle storie raccontate nelle pagine che seguono. Storie di pionieri, fuggitivi, reduci, combattenti, eremiti, signori del tempo, ci attendono. Non mi dilungherei oltre.

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Pagina 60

03 Capitani coraggiosi


• specie tipo Cocco

• dominio Eukaryota

• regno Plantae

• divisione Magnoliophyta

• classe Liliopsida

• ordine Arecales

• famiglia Arecaceae

• sottofamiglia Arecoideae

• tribù Cocoseae

• sottotribù Butiinae

• genere Cocos

• specie Cocos nucifera

• origine India meridionale (presunta)

• diffusione Aree tropicali di tutto il mondo

• prima apparizione in Europa XVI secolo

Oggi più o meno tutti sanno che le piante sono in grado di diffondersi, anche in luoghi molto lontani dal loro paese d'origine, grazie ai loro semi. Ma non è sempre stato così. Basta andare di poco indietro nel tempo, alla metà del XIX secolo, per arrivare in un'epoca in cui nessuno aveva idea di come le piante fossero potute arrivare nei posti dove le si trovava. Come spiegare le centinaia di specie diverse che gli esploratori scoprivano su isole disabitate e mai esplorate prima? Forse che Dio aveva creato specie diverse in funzione dei diversi luoghi della terra? O magari vi erano stati eventi creativi multipli, uno per ogni singolo luogo della terra? Erano queste le teorie sostenute dalla maggioranza degli scienziati. Teniamo presente che, prima di Darwin, l'idea prevalente per spiegare la moltitudine di specie viventi era appunto che fossero state create una per una. Ognuna differente dalle altre.

Oppure, come sostenevano alcuni, un tempo erano esistiti dei collegamenti che univano le terre emerse, attraverso i quali le piante si erano potute diffondere? Si sarebbe potuto spiegare così come mai la flora di un'isola come l'Inghilterra non fosse poi così diversa da quella delle regioni a lei vicine, al di là della Manica. Ricordiamo ancora che teorie come quella della tettonica a zolle o quella della deriva dei continenti furono per la prima volta esposte da Alfred Wegener nel 1912, ma che si dovette attendere la seconda metà del XX secolo perché una serie lunga e inoppugnabile di prove convincesse della loro validità una comunità scientifica molto scettica.

In ogni caso, sia la teoria creazionista sia quella dei collegamenti fra le terre non convincevano Charles Darwin. Non era del tutto contrario alla seconda - nella sua corrispondenza si trovano riferimenti a come egli stesso fosse consapevole che cambiamenti importanti nella linea delle coste fossero avvenuti in passato - ma la sua personale visione del problema era diversa. Era convinto che le piante fossero capaci di disperdere i propri semi anche a grandissime distanze, utilizzando vettori come aria, animali e acqua. Soprattutto l'acqua. Darwin non vedeva altra possibilità per spiegare la colonizzazione di isole molto distanti da ogni altra terra. Come l'uomo era arrivato ad esplorare ogni angolo del globo solcando i mari, così anche le piante dovevano diffondersi per il mondo grazie all'acqua.

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La scala dei tempi geologici è un sistema utilizzato dalla comunità scientifica internazionale per dividere il tempo trascorso dalla nascita della terra. Molti avranno sentito nominare alcuni di questi periodi: Giurassico o Cretaceo si sentono comunemente menzionare anche al di fuori degli ambiti strettamente scientifici, mentre altri periodi come l'Ordoviciano o il Siluriano sono molto più oscuri e noti solo agli addetti ai lavori. In ogni caso, dalla nascita della terra ad oggi ciascun momento della sua vita è descritto da precise unità geocronologiche: eoni (miliardi di anni), ere (centinaia di milioni di anni), periodi (decine di milioni di anni), epoche (milioni di anni), età (migliaia di anni). Così oggi, per capirci, viviamo nell'eone Fanerozoico, era Cenozoica, periodo Quaternario, epoca Olocene. È una specie di indirizzo di casa, che permette di ordinare con precisione la vita del nostro pianeta, in funzione di momenti particolarmente significativi. Un po' come facciamo tutti noi quando tendiamo a classificare le nostre vite in base a particolari avvenimenti (prima del matrimonio, dopo la pensione, alla fine del liceo ecc.). Ora il problema nasce proprio dal capire 1) se un particolare evento ha avuto o meno un impatto talmente importante sulla storia della terra da meritare di segnarne il confine di demarcazione di un periodo, epoca ecc.; 2) se ha lasciato una traccia fisica rilevabile sull'intero pianeta.

Alcuni passaggi della scala temporale sono determinati da grandi eventi come le estinzioni di massa e non ammettono discussioni. Prendiamo, ad esempio, la transizione tra il periodo Cretaceo e il periodo Paleogene. Nel 1980 Luis e Walter Alvarez, padre e figlio, fisico e premio Nobel il primo, planetologo il secondo, pubblicarono la loro teoria sulla estinzione dei dinosauri dovuta all'impatto di un asteroide. L'idea poggiava sulla scoperta, fatta l'anno prima da Walter Alvarez, di un sottile strato d'argilla nella Gola del Bottaccione nei pressi di Gubbio, databile alla fine del periodo Cretaceo, molto ricco di iridio, un elemento raro sulla terra ma abbastanza comune nelle rocce di origine spaziale. Dopo quell'iniziale scoperta questo strato fu ritrovato dappertutto sul pianeta. L'asteroide che colpì la terra, 66 milioni di anni fa, lasciò dunque un segno indelebile nella stratigrafia terrestre, rappresentando un caso da manuale di transizione fra periodi geologici. In altri casi, la linea di demarcazione fra un periodo e un altro è più flebile e non riconducibile ad un singolo evento, ma ad un certo numero di concause. In queste circostanze la questione della demarcazione esatta non è affatto semplice. Comunque, perché una transizione di epoca geologica sia accettata dalla comunità scientifica bisogna che sia prima formalizzata da un organismo internazionale appositamente delegato: la Commissione internazionale di stratigrafia. Bene, ci siamo quasi, qualche parola ancora su cosa è 1'Antropocene e poi possiamo tornare al nostro albero solitario.

Il termine Antropocene (da anthropos, uomo), coniato originariamente dal biologo statunitense Eugene Stoermer, deve la sua notorietà all'olandese Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica. Secondo la definizione di Crutzen, l'epoca geologica attuale è caratterizzata dall'attività dell'essere umano che ne sta modificando molto velocemente ogni caratteristica ambientale, dai suoli al clima, alla diffusione e presenza delle altre forme di vita. In realtà, l'idea che l'uomo stia attivamente contribuendo alla modifica dell'ambiente nel quale viviamo è molto precedente a Stoermer e Crutzen. Il primo a parlarne fu nel 1873 Antonio Stoppani, un sacerdote e patriota italiano considerato il padre della geologia italiana, che identificando nelle attività umane una vera e propria forza tellurica propose l'idea di chiamare era antropozoica la nostra epoca. Successivamente, la stessa idea fu ripresa ed ampliata dal geochimico russo Vladimir Ivanovič Vernadskij e successivamente da Pierre Teilhard de Chardin , gesuita e paleontologo francese.

Sebbene da 11.700 anni, in seguito alla fine dell'ultima glaciazione (la Glaciazione Würm), la terra si trovi ufficialmente nell'Olocene, la maggior parte degli scienziati è ormai convinta (al di là di ogni dubbio) che l'attività dell'uomo abbia irrevocabilmente modificato l'ambiente terrestre e che l'attuale periodo geologico debba, conseguentemente, essere chiamato Antropocene. Le prove sono dappertutto, non si può fare a meno di notarle. Prendiamo ad esempio la ricerca pubblicata nel 2015 da un gruppo di ricercatori guidati dal professor Will Stefen sulla modificazione di ventiquattro indicatori globali a partire dagli anni Cinquanta del secolo passato. Dodici di questi indicatori riguardano le attività umane (consumo energetico, consumo d'acqua, crescita economica, popolazione, trasporti, telecomunicazioni ecc.), mentre altri dodici parametri come la biodiversità, la deforestazione, il ciclo del carbonio ecc. riguardano direttamente l'ambiente del pianeta. I risultati sono inequivocabili: dal dopoguerra ad oggi l'uso di fertilizzanti è aumentato di otto volte, la quantità di energia utilizzata è aumentata di cinque volte, la popolazione urbana è aumentata di sette volte.

L'impatto di queste attività, spesso direttamente collegate al sistema economico (alcuni hanno proposto di parlare di Capitalocene, invece che di Antropocene), ha provocato una serie di gravi ricadute: un'accelerazione preoccupante nel tasso di estinzione delle specie (tanto che dell'attuale periodo si parla come della sesta estinzione di massa) e la conseguente perdita della biodiversità; il cambiamento climatico; l'aumento esponenziale del tasso di inquinamento ecc. Nessun dubbio che l'attività umana stia modificando, purtroppo in peggio, il pianeta.

Quando è iniziata questa azione dell'uomo come forza tellurica? Qui la questione comincia a farsi delicata. Esistono almeno quattro diverse posizioni a riguardo: 1) con l'inizio dell'agricoltura, 10.000 anni fa. L'attività agricola ha necessità di terre deforestate da poter coltivare. Inoltre, con l'agricoltura, non dovendosi più preoccupare di impiegare la maggior parte del suo tempo nella ricerca del nutrimento, l'uomo ha potuto aumentare di numero e iniziare il progresso tecnologico che avrebbe inevitabilmente portato allo stato attuale; 2) nel XVI secolo, con l'inizio dei grandi viaggi di esplorazione, la scoperta del continente americano e il conseguente rimescolamento di piante, animali, merci, malattie; 3) nella seconda metà del XVIII secolo con la rivoluzione industriale e l'aumento delle emissioni di CO2; 4) dopo la seconda guerra mondiale con l'inizio dell'era atomica.

Ognuna di queste ipotesi ha le sue buone ragioni. In ogni caso, il problema da risolvere è trovare una firma globale. Qualcosa di simile a quello strato ricco di iridio che 66 milioni di anni fa segnò indelebilmente la fine del Cretaceo e l'inizio del Paleogene. Ottenere questa traccia globale e sincrona contenente informazioni fisiche, chimiche o paleontologiche in grado di confermare il salto contemporaneo di era in tutto il pianeta non è facile.

È qui che il nostro albero solitario dell'isola di Campbell ritorna in scena, riappropriandosi a pieno titolo del ruolo di protagonista di questa storia. Infatti, con la pubblicazione a febbraio del 2018 di un importante lavoro scientifico, il nostro Picea sitchensis diventa la famosa prova mancante. Analizzando la quantità di carbonio-14 presente negli anelli concentrici prodotti annualmente dall'albero, i ricercatori hanno trovato un picco di isotopi del carbonio che dovrebbe provenire dai test nucleari effettuati nell'emisfero settentrionale tra il 1950 e il 1960. In particolare, il picco di carbonio-14 è stato rilevato negli ultimi mesi del 1965. Il fatto che questo picco sia stato trovato nel legno di un albero cresciuto in un luogo del tutto incontaminato e quanto più distante possibile dalla fonte originale che ha prodotto quegli isotopi di carbonio è il segno inequivocabile di quanto sia globale l'intervento umano sull'ambiente. Inoltre, il radiocarbonio si preserva per oltre 50.000 anni, garantendo che anche fra decine di migliaia di anni gli scienziati del futuro saranno in grado di trovarlo. Insomma, grazie ad un albero solitario intestarditosi a crescere li dove non avrebbe dovuto, avremo forse finalmente la prova, quella firma globale e sincrona, che potrebbe essere utilizzata come momento di inizio dell'Antropocene.

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Pagina 124

06 Anacronistici come un'enciclopedia


• specie tipo Avocado

• dominio Eukaryota

• regno Plantae

• divisione Magnoliophyta

• classe Magnoliopsida

• sottoclasse Magnoliidae

• ordine Laurales

• famiglia Lauraceae

• genere Perseo

• specie Perseo americana

• origine America centrale

• diffusione Mondiale

• prima apparizione in Europa metà del XVI secolo

Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti. Il versetto evangelico di Marco descrive alla perfezione il destino dei semi delle piante. Enormi quantità di diaspore vengono prodotte annualmente, ma soltanto un'insignificante percentuale sopravvive. Alcuni licopodi ("piede di lupo", dal greco lykos, "lupo", e podos, "piede"), come il Lycopodium clavatum, producono annualmente almeno 30 milioni di spore, e nonostante tutto rimangono specie alquanto rare. Un pino di Aleppo può produrre fra i 30 e i 70 mila semi all'anno; di questi probabilmente meno di 200 arriveranno a germinazione e solo pochissimi sopravvivranno. Una produzione enorme il cui risultato finale è in pratica prossimo allo zero. Percentuali così basse richiedono strategie che riescano a migliorare, seppur di poco, le probabilità di sopravvivenza dei semi.

Come abbiamo visto, acqua, aria, animali sono i vettori utilizzati dalle piante per diffondere i propri semi. La preferenza per un vettore o per un altro è una di quelle scelte evoluzionistiche capaci di influenzare molte caratteristiche della pianta: dalla morfologia alla fisiologia, dalla capacità di adattamento alle sue probabilità di sopravvivenza finale. È una scelta che richiede calcolo e ponderazione. Nel prenderla, le caratteristiche dei vettori devono essere attentamente analizzate. I vettori cosiddetti abiotici come aria o acqua, al netto di piccole differenze (lo preciso per i più pignoli), sono uguali in ogni luogo della terra e mantengono le loro caratteristiche pressoché inalterate nel corso del tempo. L'acqua è sempre acqua, direbbe Lapalisse, e il vento può cambiare di intensità e direzione, ma non si trasforma o scompare nel corso dei secoli. Insomma, aria e acqua sono due vettori molto diffusi proprio perché su di loro si può contare sempre, in circostanze, luoghi e tempi assai diversi. Per questo motivo, nonostante nella distribuzione dei semi la loro efficienza non sia granché e, certamente, inferiore rispetto al servizio offerto dagli animali, aria e acqua continuano ad essere i vettori preferiti da numerosissime specie. Innanzitutto, sono economici. Non richiedono la produzione di frutti costosi, necessari al pagamento del servizio animale, e non è cosa da poco. Poi, sono sicuri. Questa è una qualità che conta moltissimo quando si tratta di affidare la propria progenie. In ogni tempo e luogo della terra, aria e acqua saranno sempre pronte a trasportare i semi delle piante loro affidati.

La questione cambia quando si inizia a consegnare i propri semi agli animali. L'efficienza nella distribuzione è certamente migliore, mentre la sicurezza diminuisce. È come scegliere se impegnare i propri risparmi in investimenti sicuri ma poco redditizi o in altri ad alto rischio ma molto più remunerativi. Fra i due estremi della scelta esistono numerose gradazioni intermedie, a diverso rischio e conseguente remunerazione. In ogni caso, è una valutazione che richiede prudenza. Alcune specie scelgono la sicurezza, altre il rendimento. Molte decidono, saggiamente, di differenziare il loro investimento, affidando la dispersione dei propri semi a due o più sistemi alternativi.

Alcune piante, non volendo correre nessuno dei rischi impliciti nell'affidare i propri semi a dei vettori, qualunque essi siano, hanno preso una decisione coraggiosa e che le differenzia dalla totalità delle altre colleghe vegetali. Queste piante, infatti, hanno deciso di farsi carico direttamente dell'intero processo di diffusione, sviluppando degli strumenti decisamente innovativi e originali come, ad esempio, la diffusione esplosiva. Una trovata che non ci si immaginerebbe mai di trovare nel pacifico e apparentemente inerte mondo delle piante. Le specie che affidano la sorte della propria progenie ad un'esplosione non sono molto numerose, ma quelle poche fanno letteralmente molto rumore.

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In altri casi, invece, le piante costruiscono dei rapporti speciali con un numero limitato di animali. In questi casi l'operazione può diventare rischiosa. Queste relazioni ristrette, se da una parte garantiscono le migliori condizioni possibili per la diffusione di uno specifico seme, dall'altra proprio per l'alta specializzazione richiesta possono talvolta diventare incerte. Benché nella diffusione dei semi non si conoscano casi certi di coevoluzione fra piante e animali, come esistono, ad esempio, nel caso dell'impollinazione, si tratta comunque di un legame molto stretto fra una specie vegetale e un ristretto numero di partner animali. Se l'animale, o il gruppo di animali, cui si affida la sopravvivenza della propria specie per qualche motivo scompare, anche la pianta rischia di subire lo stesso destino.

È quanto è successo ad alcune piante che avendo affidato il trasporto del seme a specifici animali, che si sono in seguito estinti, si sono trovate a un certo punto della loro storia con gravi difficoltà nella diffusione della progenie. Alcune di queste piante sono scomparse come i loro partner animali, altre si sono salvate per il rotto della cuffia, mantenendo però come ricordo di queste relazioni pericolose delle caratteristiche bizzarre, ragionevoli soltanto alla luce dei loro originari partner animali ormai estinti e, oggi, completamente fuori luogo. Questi adattamenti vegetali ad animali che non esistono più vengono chiamati anacronismi evolutivi, e sono molto più comuni di quanto si pensi. Molte specie, ad esempio, mantengono adattamenti per difendersi o per attrarre animali ormai scomparsi. Prendiamo l'agrifoglio (Ilex aquifolium), una specie molto comune. L'avere foglie con bordi spinosi fino ad un'altezza di quattro o cinque metri è un anacronismo. Un tempo, quando esistevano in Europa grandi erbivori in grado di nutrirsi anche di foglie nate ad altezze notevoli, questa difesa aveva certamente senso, ma oggi in Europa nessun animale è in grado di brucare foglie collocate così in alto.

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06_a. Mi manca tanto un mastodonte


Le piante che producono grossi frutti, con tanta polpa, colorati, profumati ed appetibili, non lo fanno senza un motivo. Investire così tante energie in un involucro, il cui unico scopo dovrebbe essere di contenere il seme, sembrerebbe del tutto improprio. Se non fosse che questi grossi frutti hanno in realtà ben altri compiti da assolvere. Devono servire da richiamo, e nello stesso tempo da ricompensa, per tutti quegli animali che, nutrendosi del frutto, svolgono l'essenziale funzione di trasportare i semi lontano dalla pianta madre. Se un albero che produce frutti grandi e vistosi li lascia cadere a marcire ai suoi piedi, vuol dire che qualche cosa nella sua strategia di diffusione è andata storta. Non ci può essere uno scenario peggiore per le speranze di sopravvivenza della specie.

Le piante che non affidano la diffusione dei semi agli animali sviluppano normalmente frutti minuscoli, spesso quasi invisibili. Non c'è alcun bisogno di amplificare la dimensione dei frutti se i semi devono poi essere dispersi dal vento. Anzi, dimensioni eccessive potrebbero risultare di ostacolo alla diffusione. Al contrario, le piante che puntano sugli animali investono molta energia nella produzione di frutti. Quando una pianta, nonostante questo sforzo, non riesce a diffondere i propri semi, si trova decisamente nei guai. L'ammassarsi dei frutti ai piedi della pianta madre implica che la stragrande maggioranza dei semi andrà incontro a fenomeni di marciume e perderà vitalità. Anche nel caso fortunatissimo in cui i semi riescano ugualmente a germinare, le piantine si troveranno a crescere in un ambiente difficoltoso, letteralmente all'ombra della madre, con pochissima luce a disposizione e quindi scarse possibilità di sopravvivenza. Se i frutti cadendo dall'albero non sono consumati da un animale, di solito dipende dal fatto che gli animali ai quali i frutti erano destinati non esistono più. A meno di insospettabili abilità di sopravvivenza, queste piante private dei loro partner animali in un tempo più o meno lungo sono destinate ad estinguersi.

Tutto è collegato in natura. Questa semplice legge che gli uomini non sembrano comprendere ha un corollario: l'estinzione di una specie, oltre ad essere un dramma in sé, ha conseguenze imprevedibili sul sistema di cui quella specie fa parte. Fino a circa 13.000 anni or sono, ad esempio, il continente americano ospitava un enorme numero di animali di grandi dimensioni. La quantità e varietà di questi animali non è facile da immaginare. Se potessimo riportarli in vita, come nei film di Steven Spielberg, saremmo sopraffatti dal loro numero. In quei tempi, dappertutto si sarebbero incontrati bradipi giganti, varie specie di tapiri, pecari, cammelli giganti come il Titanotylopus alto 3 m alla spalla e poi il booterio, l'euceraterio, il cervalce, mammut e mastodonti a non finire, il gliptoterio, i castori giganti, l'ippidion, simili-armadilli quali il Doedicurus e Glyptodon, colossi come il toxodonte o lo stegomastodonte. E i loro predatori. Giganteschi carnivori quali leoni, smilodonti, omoteri e uccelli grandi come piper, quali i Teratornithidi.

Un intero mondo fuori scala, all'interno del quale ci saremmo sentiti come Gulliver nel paese dei giganti. Eppure, sembra che proprio noi, piccoli umani, siamo stati i responsabili dell'estinzione repentina di questa meravigliosa megafauna. Nel giro di un battito di ciglia, di tutti questi animali non è rimasta alcuna traccia, tranne i fossili grazie ai quali siamo in grado di raccontarne la storia. Alcuni ritengono siano stati i cambiamenti climatici - anche allora - ma la maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere l'arrivo dell'uomo nel continente americano la causa scatenante che ha portato all'improvvisa estinzione di animali che ne avevano calcato il suolo per decine di milioni di anni.

Si stima che soltanto in Nordamerica si estinsero, intorno a 13.000 anni fa, trentatré generi di mammiferi descrivibili come megafauna (animali di massa corporea superiore ai 44 kg),. Attraverso la caccia, l'uomo cancellò dalla faccia della terra tutti gli erbivori di grandi dimensioni. I predatori di questi animali ne seguirono inevitabilmente la sorte e, in una catena inarrestabile di eventi, non ne rimase, alla fine, nessuno. Le piante non potevano rimanere immuni da una catastrofe simile.

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Una specie molto più conosciuta dell'arancio degli Osagi, che è incappata nello stesso problema e ne è scampata per il rotto della cuffia, è l'avocado (Persea americana). Chiunque abbia mai aperto un frutto di avocado non può aver fatto a meno di notare l'enorme seme che è ospitato al suo centro, come un uovo di Fabergé dentro la sua lussuosa custodia. Un seme fuori scala. Incomprensibile se lo guardiamo come strumento di diffusione della sua specie. Quale animale, infatti, potrebbe mai inghiottire per intero un frutto di avocado, senza danneggiarne il seme al suo interno? Non dimentichiamo, infatti, che ingerire il frutto non è sufficiente a garantire la dispersione dei semi di una specie vegetale. É fondamentale che i semi riescano a transitare senza danni attraverso il tratto digerente dell'animale. Questa esigenza fa sì che molte specie, fra le quali anche l'avocado, difendano il proprio seme riempendolo di sostanze tossiche che vengono rilasciate qualora venga danneggiato.

Oggi non esiste erbivoro in America in grado di ingerire un frutto intero di avocado, ma fino a 13.000 anni fa di questi animali ce n'erano a bizzeffe. Fra questi i gonfoteri, specie di elefanti a quattro zanne, i gliptodonti, armadilli di tre metri di lunghezza e, infine, i bradipi giganti come il megaterio, delle dimensioni di un elefante odierno. Tutti, nutrendosi dei frutti dell'avocado ne agevolavano la dispersione dei semi. Con la loro estinzione, seguita da quella di tutti gli altri erbivori di taglia simile, l'avocado si trovò, dall'oggi al domani, senza i suoi principali partner e con un seme enorme che non sarebbe stato facile piazzare a clienti di taglia più modesta.

Il destino della specie sembrava segnato. Senza i suoi mastodonti la pianta era destinata ad estinzione certa. Ma non bisogna mai disperare. Non si sa mai da che parte possono arrivare degli aiuti. Nel caso dell'avocado arrivarono dal più inaspettato fra gli animali: il giaguaro. Questi carnivori, attratti dalla polpa grassa dell'avocado, si dimostrarono, infatti, degli ottimi vettori. I loro denti fatti per lacerare la carne e non per tritare erano perfetti per evitare danni al prezioso seme dell'avocado. Le loro fauci, abituate ad ingoiare grandi pezzi di carne, si dimostrarono adatte per ingerire in un solo boccone anche i frutti di avocado. Non poteva essere una soluzione definitiva, ma come palliativo, in attesa di concludere un nuovo contratto con un diffusore più efficiente, i giaguari andavano benissimo. Grazie a loro e a pochi altri vettori estemporanei, l'avocado riuscì a mantenersi in vita, nonostante il suo areale continuasse inesorabilmente a restringersi. E si sarebbe ulteriormente ridotto fino a scomparire se non fosse apparso all'orizzonte, quando ormai tutto sembrava perduto, il diffusore perfetto: l'uomo.

Quando gli spagnoli arrivarono in America, l'avocado era ormai limitato ad aree molto ristrette. Salvato in extremis, grazie ai suoi frutti apprezzati dai primi esploratori europei, la specie iniziò velocemente a diffondersi in ogni parte del mondo. Nel 2016, la superficie coltivata ad avocado nel mondo ammontava a oltre 550.000 ettari, diffusi in tutti i continenti. Un successo apparentemente inarrestabile. Quando si iniziano a trovare sul web rubriche dal titolo "avocado toast, cinque errori da non fare" o, sempre per rimanere sul cinque - numero che piace moltissimo nelle liste in rete -, "cinque modi per mangiare l'avocado toast" vuol dire che l'uso di questo frutto è definitivamente entrato a far parte della cucina internazionale. E infatti, anno dopo anno, la richiesta di avocado cresce costantemente, così come le terre dedicate alla sua coltivazione.

Tutto bene, quindi? Neanche per sogno. Associarsi con l'uomo vuol dire firmare un patto con il diavolo. Prima o poi ti viene chiesta in pagamento l'anima. Così è successo anche all'avocado. E sempre per colpa di quell'enorme seme che è la causa di tutte le sue disgrazie.

Gli stessi uomini che fino a non tanto tempo fa cacciavano con successo le enormi tigri dai denti a sciabola sono diventati oggi esseri che trovano insopportabile anche un fastidio quale la presenza di semi nei frutti. Disturbano. Cosa ci fanno in mezzo al nostro cibo? Così, come già accaduto in passato ad altre specie incautamente associatesi all'uomo come banane, uva, pomodori, agrumi ecc., anche per l'avocado è arrivato il momento di diventare apirene (senza semi) per accontentare un mercato viziato.

Una volta privata delle possibilità di produrre semi una pianta non è più un essere vivente, ma un semplice mezzo di produzione, in mano all'industria alimentare che decide come, quanto e dove riprodurla. Non basta. Una pianta senza semi non può più propagarsi attraverso la riproduzione sessuale, ma soltanto vegetativamente, producendo piante figlie che sono cloni geneticamente identici alla pianta madre. La diversità genetica delle specie scompare, e soltanto pochi individui vengono propagati milioni di volte. Un parassita o una malattia che colpisca uno di questi individui è in grado di colpire ciascuno dei suoi cloni. Giusto per fare un esempio di questi anni, il 99% delle banane prodotte nel mondo (senza semi, ovviamente) provengono dalla cultivar Cavendish. La loro uniformità genetica fa sì che una malattia fungina di recente scoperta a cui è altamente sensibile la Cavendish di fatto minacci l'intera popolazione mondiale di banane.

Dicevamo del patto col diavolo? Nel 2017 una catena di supermercati britannici ha iniziato a distribuire confezioni da cinque avocado senza semi chiamati cocktail avocados, che presentano il beneficio addizionale di poter essere mangiati con la buccia. Ecco fatto. I nostri figli non immagineranno neanche che un tempo gli avocado avevano un seme al loro interno, così come noi non abbiamo mai visto quelli delle banane. Si conclude, tristemente, la parabola di un grande albero tropicale: da cibo per mastodonti a spuntino da cocktail. Sic transit gloria mundi.

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06_b. Il dodo e il tambalacoque


L'isola di Mauritius è universalmente conosciuta come una specie di paradiso in terra. Oggi è parecchio sciupata, ma indizi della sua bellezza di un tempo appaiono conservati lì dove i resort non sono ancora arrivati o nelle zone meno abitate nel Sud dell'isola. Chi fosse arrivato a Mauritius agli inizi del secolo scorso avrebbe avuto l'impressione di arrivare su un mondo incantato. Fra il XVIII e il XIX secolo quest'isola è stata una meta fondamentale non solo di botanici e naturalisti, ma anche di poeti e scrittori che ne amplificarono il mito. Mark Twain scrisse che "Dio creò Mauritius e poi il Paradiso terrestre". Charles Baudelaire compose su quest'isola la sua prima poesia A une dame creole, mentre era ospite presso il giardino botanico di Pamplemousses (il più antico orto botanico dei tropici). Joseph Conrad , che la conosceva benissimo essendovisi recato molto di frequente durante la sua attività di comandante di navi per la Compagnia delle Indie, la descrisse come "una perla che distilla grande dolcezza sul mondo".

Gran parte del fascino dell'isola, oltre che delle sue innegabili bellezze naturali, che ne fanno l'isola tropicale per eccellenza, deriva dalla sua storia particolare, popolata di animali e piante che qui hanno intrapreso, indisturbati per milioni di anni, una loro evoluzione parallela. Visitare Mauritius era come visitare un esperimento in corso sulle possibilità dell'evoluzione. Un esperimento andato avanti indisturbato fino al 1598, anno in cui gli olandesi vi costruirono il loro primo insediamento, interrompendo l'incanto con la brutalità tipica dei colonizzatori. Quando gli europei arrivarono sull'isola, Mauritius era popolata dalla più fantastica flora e fauna che si possa immaginare. All'incirca un terzo delle piante presenti sull'isola erano endemiche, così come moltissime specie animali. Un microcosmo concluso, con proprie regole, diverse da quelle del mondo da cui provenivano i coloni. Un mondo in cui, ad esempio, non esistendo predatori animali di grande taglia, gli uccelli si erano evoluti perdendo la capacità di volare, diventando grandi, lenti e terrestri. Pacifici e simpatici uccelli come il leggendario dodo - personaggio di Alice nel paese delle meraviglie -, magnifico uccello columbiforme, incapace di volare e dal peso fino a 30 kg, popolavano numerosi l'isola.

Le descrizioni dei primi visitatori di Mauritius raccontano di una situazione decisamente paradisiaca, con gli animali, dodo in testa, per nulla impauriti dalla presenza di questo nuovo ospite bipede, la cui capacità di distruzione si sarebbe ben presto palesata. Nel giro di meno di un secolo dall'insediamento olandese, l'intera popolazione di dodo di Mauritius - e quindi del mondo - era stata sterminata, in parte direttamente attraverso una caccia senza motivo (sembra che la sua carne fosse disgustosa), in parte attraverso l'eliminazione del suo habitat a favore delle enormi coltivazioni di canna da zucchero. Infine, perché predato da animali come maiali o cani, introdotti dall'uomo nel delicato ecosistema dell'isola. Lo stesso triste destino che toccò al pappagallo dal becco grosso e ad altre decine di specie, fra le quali le magnifiche tartarughe giganti di Mauritius di cui oggi, a testimonianza delle loro dimensioni, rimangono soltanto dei carapaci enormi e un certo numero di stampe che le rappresentano cavalcate da due soldati olandesi, agevolmente sistemati sopra il carapace.

Ora sull'isola di Mauritius, come dicevo, vigevano regole diverse dal resto del mondo, dettate da un'evoluzione che aveva seguito strade proprie e originali. Strade che avevano portato a far sì che su quest'isola l'impollinatore principale dei fiori fosse un geco blu. E i semi fossero dispersi dalle tartarughe giganti, dai pappagalli dal becco grosso, dai pipistrelli diurni e ovviamente dal dodo. Con la loro estinzione improvvisa, molte piante si trovarono sprovviste dei loro principali partner per la diffusione del seme. Fra queste piante vi era un albero endemico dell'isola, chiamato dai francesi tambalacoque (Sideroxylon grandiflorum, fino a pochi anni fa conosciuto come Calvaria maior).

Nel 1977 un ornitologo americano, Stanley Temple, suscitò un'accesa discussione nella comunità scientifica a seguito della pubblicazione di un suo lavoro sulla rivista «Science» in cui sosteneva che fra l'albero e il dodo esistesse un legame inscindibile.

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