Copertina
Autore Vito Mancuso
Titolo L'anima e il suo destino
EdizioneCortina, Milano, 2007, Scienza e idee , pag. 226, dim. 140x225x27 mm , Isbn 978-88-6030-118-5
PrefazioneCarlo Maria Martini
LettorePiergiorgio Siena, 2008
Classe religione , filosofia
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Indice


Una lettera di Carlo Maria Martini             XIII
Ringraziamenti                                   XV

1. Teologia di fronte alla coscienza laica        1

2. Esistenza dell' anima                         51

3. Origine dell'anima                            77

4. Immortalità dell'anima                       109

5. Salvezza dell'anima                          149

6. Morte e giudizio                             187

7. Paradiso                                     207

8. Inferno                                      231

9. Purgatorio                                   277

10.Parusia e giudizio universale                289

   Conclusione                                  303

   Indice dei nomi                              319

 

 

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Pagina 92

36. L'anima viene dal mondo

Nella storia del pensiero teologico la teoria secondo la quale l'anima viene dai genitori è stata denominata dai suoi avversari traducianesimo, termine che deriva dalla parola latina tradux, propaggine, nel senso che l'anima dei figli sarebbe come una propaggine di quella dei genitori. Furono i pelagiani a creare il termine in polemica con i difensori del peccato originale. Però, visto che si contrappone al creazionismo, forse sarebbe meglio parlare di questa teoria come generazionismo, nel senso che l'anima è generata insieme al corpo dal padre e dalla madre, dai genitori, che proprio per questo si chiamano così, perché generano. E la cosa è evidente, perché anima e corpo all'inizio non si distinguono, sono la medesima energia primordiale, materia mater, natura naturans. Coloro che hanno sostenuto che l'anima dei figli viene gènerata dai genitori si dividono a loro volta tra chi pensa la generazione dell'anima in termini corporei e chi in termini spirituali. La differenza, ovviamente, è data dal concetto di anima che si ha in mente, se la si pensa come un corpo o sostanza separata oppure se la si pensa come una modulazione sempre più raffinata dell'unica e medesima sostanza, materiale e spirituale al contempo. Il più insigne rappresentante della prima corrente è Tertulliano, il quale pensa l'anima come corpo materiale concepito per mezzo del seme corporeo, come sua derivazione materiale: l'origine dell'anima è lo sperma paterno. Tertulliano, per il quale il cardine della salvezza non è lo spirito ma è la carne (secondo il suo noto assunto caro salutis cardo), non sa pensare Dio come spirito, né sa pensare l'anima come spirituale, è un materialista ante litteram. Della sua teoria Agostino scrisse a un collega vescovo: "Non dobbiamo stupirci che Tertulliano abbia potuto fantasticare una simile sciocchezza, dal momento che arriva persino a pensare come sostanza corporea lo stesso Dio creatore".

L'altra posizione, nota come traducianesimo spirituale, è quella alla quale aderisco. Essa afferma che la sostanza spirituale dell'anima deriva dall'anima e dal corpo dei genitori nello stesso momento della generazione del corpo. Si tratta di un punto di vista condannato da Pio IX quando in epoca moderna venne assunto da teologi quali i tedeschi Georg Kermes e Jacob Frohschammer e l'italiano Antonio Rosmini, ma che nell'epoca patristica era sostenuto da autorevoli padri della Chiesa tra cui Gregorio di Nissa. Questo grande Padre della Chiesa, uno dei fondatori della mistica cristiana, scriveva che il seme umano

"si sviluppa e si manifesta secondo l'ordine fissato, fino alla sua completezza, senza dover aggiungere a tal fine nulla che venga dall'esterno; esso progredisce da se stesso, regolarmente, verso il suo stato di perfezione. È quindi giusto dire che né l'anima esiste prima del corpo né il corpo esiste senza l'anima ma per entrambi non vi è che una sola origine. A considerare le cose su un piano superiore, questa origine si fonda sulla prima volontà di Dio; da un punto di vista meno elevato, essa ha luogo nei primi istanti della nostra venuta al mondo".

È significativo notare che questa visione oggi ritenuta eterodossa era fatta propria dalla maggior parte dei padri occidentali, come si viene a sapere attraverso san Girolamo e sant'Agostino. Agostino, infatti, si riferisce a Girolamo dicendo che "propendeva più verso il creazionismo che non verso il generazionismo", ma che "nello stesso tempo ricordava pure che l'opinione più comune nella Chiesa d'Occidente è che le anime vengano trasfuse nei figli attraverso la riproduzione generativa". È altrettanto significativo sapere che questa è la posizione oggi assunta dalla Chiesa ortodossa, la quale ritiene che "sia il corpo sia l'anima ricevono il loro inizio simultariamente e maturano insieme, e che l'anima deriva dalle anime dei genitori, così come il corpo deriva dai corpi dei genitori".

Io penso che la posizione più corretta sia quella di chi ritiene che l'anima (dotata subito di individualità, e potenzialmente di spiritualità e immortalità) viene dal mondo. In che modo l'anima viene dal mondo? Mediante la generazione umana, la stessa che da origine al corpo. Come sono all'origine del corpo, allo stesso modo i genitori sono all'origine dell'anima, il che penso risulti evidente a chi consideri i suoi genitori e il suo carattere, e poi i suoi figli e il loro carattere. La nostra dimensione psichica dipende radicalmente, così come la dimensione fisica, da chi ci ha dato la vita. E che altro è la dimensione psichica se non l'anima al livello di anima sensitiva? Ma siccome non ci sono diverse anime, ma ce n'è una sola, si deve pensare che è solo dall'educazione di quest'anima sensitiva che si può sviluppare prima l'anima razionale, poi l'anima spirituale, infine l'anima spirituale liberamente e creativamente orientata sempre e solo al bene, cioè santa. Ed è solo a quest'ultimo livvello, "il livello dell'azione della grazia che eleva la natura alla sovra-natura, che si deve pensare a un intervento diretto di Dio come azione dello Spirito santo, l'unica modalità con la quale Dio agisce direttamente nel mondo.

È esattamente ciò che pensava Rosmini, quando diceva che l'anima, da semplice anima sensitiva, viene elevata ad anima razionale e spirituale quando incontra l'essere ideale:

"Quando l'essere diventa intuibile al principio sensitivo, con questo solo contatto, con questa unione di sé, quel principio prima soltanto senziente, ora insieme intelligente, è elevato a uno stato più nobile, cambia natura, e diventa intellettivo, sussistente e immortale.

Il Decreto del Sant'Uffizio in cui compare la proposizione appena citata condanna anche quest'altra affermazione rosminiana, mirabile nella sua profondità:

"L'ordine soprannaturale è costituito da una manifestazione dell'essere nella pienezza della sua forma reale; l'effetto della cui manifestazione e comunicazione è il senso ("sentimento") deiforme, che, incipiente in questa vita, costituisce la luce della fede e della grazia, compiuto nell'altra vita, costituisce la luce della gloria.

Condannando questa proposizione il Sant'Uffizio ha condannato la dottrina della divinizzazione, cardine della teologia spirituale: incredibile, ma vero! La dottrina della divinizzazione, alla quale giunge l'anima investita dalla luce divina, stava particolarmente a cuore a Rosmini: "Per questa comunicazione che l'oggetto fa di sé al soggetto umano si può dire di lui ciò che disse sant'Agostino della natura dell'anima intellettiva che vicina est substantia Dei". Per fortuna, dopo il Vaticano II le cose sono cambiate e Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et ratio del 1998 citava Rosmini come esempio di "fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio" insieme a Newman, Maritain, Gilson, Stein, Solovèv, Florenskij, Lossky (paragrafo 74). Tre anni dopo, il primo luglio 2001 (anniversario della morte di Rosmini) l'allora cardinale Ratzinger firmava la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede nella quale si afferma che "si possono considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum di condanna delle 'Quaranta Proposizioni' tratte dalle opere di Antonio Rosmini". Penso sia doveroso chiedere se questa assoluzione per il pensiero rosminiano valga anche per l'origine dell'anima dai genitori.

I più grandi filosofi, penso a Platone e Aristotele per l'Antichità e a Kant e Hegel per l'epoca moderna, hanno visto che l'uomo contiene un elemento che non si spiega solo in base alla natura quale appare ordinariamente nel mondo. Platone ne parlava in termini di anima, Aristotele di intelletto attivo, Kant di sentimento morale, Hegel di spirito assoluto. La raffigurazione comune intende questo elemento al modo di una cosa, di una sostanza, di un ente particolare, ma esso va inteso, piuttosto, come una peculiare configurazione dell'unica cosa, dell'unica sostanza, dell'unico ente, che è la nostra energia. Questa configurazione particolare viene generata in noi dall'incontro con l'Idea del bene. Noi, prima di incontrare l'Idea del bene, siamo un sistema centripeto dotato di forza di gravità come ogni altro ente nell'universo. A seguito dell'incontro con l'Idea del bene subiamo una mutazione, ciò che in religione si chiama conversione, e cominciamo a poco a poco (perché è il lavoro di tutta la vita, non ci si converte nel profondo dalla mattina alla sera) a diventare un sistema centrifugo, dove l'amore e non l'egoismo, la verità e non il potere, la giustizia e non l'interesse, sono la meta. A poco a poco. E con molta fatica. Ma irresistibilmente attratti dall'Idea del bene e dalla sua luminosissima nobiltà, ciò che in teologia si chiama grazia.

Pensando così, io sostengo che l'umanità concreta può essere portatrice della spiritualità. Sostengo che l'essere che compete all'uomo, compreso il corpo, non è per nulla contrario alla dimensione spirituale, anzi è tale da generarla, se rettamente vissuto. Pensando così viene meno ogni dualismo tra lo spirito e la carne, che invece inequivocabilmente permane nella mente di chi ritiene che l'anima spirituale non possa che venire dall'alto, da fuori dal mondo.

Se l'anima spirituale viene dall'essere del mondo, il corpo e l'anima sono della medesima sostanza: il corpo è energia sotto forma di materia, l'anima è energia allo stato libero. Educata rettamente, essa da sensibile diviene razionale, poi spirituale, infine, attratta dalla grazia mediante il fascino dell'Idea del bene, diviene spirituale in modo tale da volere sempre e solo il bene e la giustizia. Come Dio.

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45. La quinta discontinuità

Nelle sue variegatissime configurazioni l'essere-energia presenta un ininterrotto cammino ascensionale che, a partire dal puntino cosmico di partenza, raggiunge stadi qualitativamente sempre più complessi. Se questo cammino verso un'informazione e un ordine sempre maggiori non è da attribuire a interventi sovrannaturali, ciò significa che è l'energia stessa a contenere, nella sua capacità di produrre legami, una tendenza intrinseca all'organizzazione e alla stabilità. Non è mia competenza spiegare come questo avvenga, riporto semplicemente la spiegazione fornita da Paul Davies secondo cui la crescita dell'ordine andrebbe ricondotta alla prima delle quattro forze fondamentali, la gravità: "L'instabilità indotta dalla gravita è una fonte di informazione... la fonte originaria dell'informazione e dell'ordine che osserviamo nel mondo vivente è la gravitazione". Ciò che a me preme sottolineare è che l'essere che ci è dato, l'energia che costituisce noi uomini e ogni altra entità del mondo, o per via della forza di gravita o per qualche altra causa immanente, è orientata intrinsecamente all'ordine.

Sulla base di questa intrinseca tendenza all'ordine io ritengo non sia implausibile pensare che l'ultimo e il più perfetto degli stadi raggiunti dal cammino cosmico, cioè la vita morale e spirituale che a volte appare negli uomini, possa produrre un'ulteriore forma di vita, in uno stadio superiore dell'essere a noi ignoto, la quale, dopo la morte del corpo, continui a prescindere dal sostrato fisico che l'ha prodotta. Ovviamente, come detto fin dall'inizio, non esiste nessuna prova al riguardo, né a favore né contro. Esiste però un comune sentire umano, testimoniato dalle grandi civiltà del passato (che non sono per nulla passate, perché su di esse la nostra coscienza morale ancora si regge), secondo cui la morte non è la fine di ogni cosa. E tutto ciò non ha immediatamente a che fare con la fede in Dio, perché persino un ateo come Schopenhauer pensava che "il fatto che dovremmo in qualche modo sopravvivere alla morte non è un miracolo più grande della generazione che ogni giorno avviene davanti ai nostri occhi. Ciò che muore va dove ogni vita ha origine, anche la sua". Poco più avanti il grande filosofo scriveva: "Ogni sera, siamo più poveri di un giorno. Nel vedere scorrere questo nostro breve periodo di tempo potremmo diventar pazzi, se nel più profondo recesso della nostra essenza non vi fosse la segreta coscienza che ci appartiene la sorgente inesauribile dell'eternità, per poter rinnovare con essa continuamente il tempo della vita". Persino un ateo come Schopenhauer è giunto a concepire il concetto di una "sorgente inesauribile dell'eternità".

È evidente che non esiste nessuna prova fisica riguardo a tale sorgente della vita eterna, né mai esisterà, perché ci muoviamo nel campo del puro pensiero, e se l'anima sopravvivrà è solo così che va concepita, come puro pensiero. Però, prima del suo sorgere, che prova c'era che la vita sarebbe scaturita dalla materia inorganica? E l'intelligenza dal protozoo primordiale? E la prima suite per violoncello BWV 1007 (che può unire due anime per sempre) dallo scimpanzè? Ancora oggi, dopo oltre un secolo nel quale le migliori intelligenze umane con le più sofisticate tecnologie si sono dedicate alla ricerca della soluzione, l'enigma dell'origine della vita e quello dell'intelligenza restano intatti. Forse un giorno li si svelerà, e sarà un giorno di festa per ogni uomo che ama la verità; ma la scoperta non cancellerebbe il fatto che qualcosa di estremamente improbabile come la vita e l'intelligenza è avvenuto, e se è avvenuto, volendo escludere interventi sovrannaturali, è perché l'essere-energia se le è andate a cercare questa vita e questa intelligenza, le ha volute, le ha tratte da sé.

"Mentre sono certo che l'origine della vita non sia stata un miracolo", scrive Paul Davies, "credo però che viviamo in un universo bioamichevole, predisposto alla vita". E Christian de Duve scrive che "la vita è una manifestazione obbligata delle proprietà combinatorie della materia". Ma se viviamo in un universo bioamichevole e predisposto alla vita, se la polvere di cui siamo fatti è vitale, perché non si può pensare che dall'esistenza di noi che rappresentiamo il vertice del cammino della vita possa scaturire una dimensione ulteriore? Io penso che una speranza di questo tipo, per quanto non possa mai diventare certezza, non sia infondata. Le grandi civiltà dell'umanità (in particolare l'egizia, l'indù, la greco-romana), le religioni monoteistiche e l'intera tradizione della metafisica occidentale la sostengono. Anche autorevoli pensatori l'hanno fatta propria. Uno di questi è Spinoza: "La Mente umana non può essere assolutamente distrutta insieme al Corpo, ma di essa rimane qualcosa che è eterno". E nello scolio alla proposizione aggiunge: "Sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni..."

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60. Riformulare il dogma del peccato originale

Sono consapevole che a livello dottrinale, con autorevoli decisioni magisteriali alle spalle, la mia proposta di riformulare radicalmente il dogma del peccato originale può risultare come minimo ingenua e di fatto eterodossa. Come ci si può liberare di decisioni dogmaticamente stabilite e di una tradizione ininterrotta? Chissà, forse non sarà mai possibile, forse il Cattolicesimo è destinato a ospitare davvero tutto, non solo la contraddizione ma anche gli errori, forse è così che esso è cattolico, cioè universale. Io del resto, come già Teilhard de Chardin che fu il teologo che maggiormente avvertì nel secolo scorso la necessità di rivedere radicalmente il peccato originale (e che per questo pagò un duro prezzo in termini di esilio, censure e persecuzioni), non mi rivolgo "a quei cristiani solidamente installati nella loro fede". Essi non hanno bisogno di queste mie analisi. Mi rivolgo alla coscienza laica che ogni uomo, a prescindere da fedi e appartenenze, dovrebbe ospitare dentro di sé. È a questa coscienza che dico che sarebbe opportuno liberarsi dalla visione distorta del peccato originale, e smettere di considerare l'uomo, per il semplice fatto di essere nato, un peccatore. Il peccato originale è un'offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all'innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina.

Liberarsi dal dogma del peccato originale, però, è teologicamente legittimo solo a patto di comprendere prima come assolvere al compito per espletare il quale questo dogma è stato formulato e proclamato dal Magistero. Sono consapevole, e anche lieto, di fare parte di una tradizione plurisecolare che mi ha generato alla fede e che io intendo a mia volta consegnare alle generazioni future. Non intendo per nulla distruggere la tradizione, intendo rifondarla, darle nuovo vigore, per farla vivere ancora a lungo, forse più leggera, ma di certo più salda, più radicata nel centro dell'anima umana.

Io sostengo che la funzione speculativa del peccato originale consiste nella necessità di pensare insieme la bontà della creazione e la necessità della redenzione. Il peccato originale è solo uno strumento, e quindi penso che vi si possa rinunciare! ma lo si può fare legittimamente solo a patto di salvaguardare gli irrinunciabili concetti teologici per garantire i quali esso è sorto, cioè appunto la bontà della creazione e la necessità della redenzione. È possibile tenere insieme questi due concetti per altra via e sbarazzarsi del dannoso e distorto dogma del peccato originale? Sì, lo è.


61. Il vero insegnamento del dogma: il peccato del mondo

Il limite della lettura tradizionale all'origine del dogma del peccato originale sta nell'aver isolato la pericope di Genesi 3, che in realtà bisogna leggere come una scena all'interno del complessivo contesto di Genesi 1-11. Vi sono dapprima i primi due capitoli, luminosissimi, sulla bontà della creazione, e seguono poi gli altri nove, nerissimi, che, oltre alla tentazione e alla vittoria del serpente nel capitolo terzo, comprendono l'omicidio di Abele da parte del fratello Caino nel capitolo 4, l'oscuro episodio dei rapporti sessuali tra alcuni ignoti "figli di Dio" e le figlie degli uomini nel capitolo 6, l'immensa quanto inutile strage di uomini e di animali del diluvio nei capitoli 6-9, l'episodio di Babele nel capitolo 11.

Questi undici capitoli nella loro contrastante duplicità (1-2 contro 3-11) contengono un unico insegnamento. Non ci sono due insegnamenti: la creazione perfetta e poi una serie di peccati, più o meno originali, che la incrinano. Ce n'è uno solo, ed è la somma che risulta da creazione + peccato originale, ovvero la contraddizione, il principio-contraddizione quale verità ultima dell'esistenza umana. Contradictio, infatti, est regula veri.

L'insegnamento di Genesi 1-11 è lo smarrimento dell'anima nel mondo. L'anima sa di venire da Dio e però, guardando dentro di sé, scopre che ospita il male. L'anima sa di essere "a immagine di Dio" (Genesi 1,27), ma insieme vede che "l'istinto del cuore umano è incline al male fin dall'adolescenza" (Genesi 8,21). L'anima vede il mondo nelle mani di Dio, governato dall'ordine e dall'armonia, ma insieme lo vede sconvolto da terribili sciagure naturali e dominato da potenze mondane che costruiscono innumerevoli torri di Babele. L'anima sa che Dio è il suo pastore e non l'abbandona, sa che la provvidenza esiste ed è efficace, ma insieme grida di dolore come Giobbe di fronte alla sofferenza degli innocenti e come Qoelet vede la stupida insensatezza degli uomini. Ciò che la teologia chiama peccato originale è lo scacco dentro cui è racchiusa la condizione umana, è l'amarezza della condizione umana, la sue sete inappagata di giustizia, il compimento che essa postula e la necessità di essere salvata, perché senza una forza più grande che l'attrae come dall'alto l'uomo non esce da questo labirinto contraddittorio che è la vita. E ancora una volta non c'è bisogno di pensare a miracoli o a strani influssi sovrannaturali: questa forza che attrae verso l'alto è il fascino che l'Idea del bene genera dentro di noi, e se lo genera è perché noi veniamo da lì essendo il bene nient'altro che ordine, ed essendo anche noi nient'altro che ordine, un insieme ordinato di miliardi di relazioni, e per questo sentiamo che aderire al bene che è ordine significa tornare a casa, che aderire al Principio Ordinatore significa essere pienamente noi stessi. Il contenuto del dogma risulta vero, se viene letto così. La morte dell'anima di cui scrive il Concilio di Trento riprendendo il Concilio di Orange è lo stato di indifferenza rispetto al bene e alla giustizia in cui le anime purtroppo spesso si trovano. L'errore della concezione teologica tradizionale sul peccato originale sta nel chiamarlo peccato. Non vi è nessun peccato, non abbiamo nessuna colpa che preesiste sulle nostre vite indipendentemente da noi. È la vita che è fatta così la biologia ce lo mostra nel modo più chiaro il peccato originale dice cose vere, l'errore sta nel chiamarlo peccato e di farne una colpa per ogni bambino e bambina che nasce. Non c'è alcun peccato, c'è la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un'oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla.

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84. "Mettete da parte la fantasia"

Se i concetti di immortalità dell'anima e di risurrezione della carne dicono la stessa cosa, non per questo sono equivalenti, perché l'immortalità dell'anima è molto più in grado di esprimere il senso fondamentale dell'essere come energia di quanto invece non lo sia il concetto più primitivo di risurrezione della carne. Si deve aggiungere che, a un'analisi un po' approfondita, il concetto di risurrezione della carne appare teoreticamente inconsistente. Tale concetto deve essere profondamente rivisto da chi voglia progredire nella via dello spirito, e non certo per disprezzo verso il corpo. Perché è insostenibile professare la risurrezione della carne in senso fisico? Perché il corretto concetto di eternità, implicando l'esclusione del tempo, implica anche l'esclusione dello spazio, e di conseguenza anche del corpo di carne in quanto oggetto che occupa uno spazio definito. Escludendo il tempo, l'eternità esclude anche lo spazio. Basta pensare correttamente Dio e la sua dimensione ontologica peculiare che è l'eternità, per rendersi conto di come sia improprio parlare nella dimensione dell'eterno di un "corpo di carne".

Dio, che è eterno, non ha alcun corpo, o meglio, come dice Tommaso, Deus non est corpus. Chi sostiene la possibilità di un corpo di carne vivente nella dimensione dell'eternità, è assai probabile che nella sua mente coltivi una concezione di Dio come a sua volta dotato di un corpo materiale, senza conoscere Dio nell'unica dimensione ontologica che gli compete, cioè lo spirito. Solo a patto di pensare Dio materialisticamente dotato di un corpo fisico, ha senso sostenere la vita nell'eternità di un corpo di carne. Ma come dice Tommaso, nel pensare alle cose divine l'immaginazione non può che essere occasione di errore, perché "con tale facoltà non si può avere che un'immagine di cose corporee. Perciò nel meditare sulle realtà incorporee è necessario mettere da parte la fantasia".

[...]

Occorre concludere che chi pensa che noi avremo un corpo di carne nella dimensione dell'eternità, o nega che noi potremo essere come Dio (facendo venire meno lo scopo stesso del processo creativo che è la divinizzazione), oppure coltiva inconsapevolmente nella mente l'idea che Dio abbia a sua volta un corpo di carne, una concezione del divino puerile e immatura. La credenza della risurrezione della carne appare nella sua inconsistenza fisica e teologica al contempo.

85. La persistenza della personalità

Il dogma della risurrezione della carne presuppone una fisica basata sulla non riducibilità della materia rispetto all'energia. Tale superata visione del mondo conduce a pensare l'anima e il corpo come due sostanze separate, e da qui alla necessità di sostenere, oltre l'immortalità dell'anima, anche la risurrezione della carne. In realtà, la massa della materia è riducibile all'energia, e quindi il corpo materiale è riducibile all'anima spirituale, nel senso che il corpo viene "divinizzato", come dice Origene, o "assorbito dallo spirito", come dice Cusano. Già qui e ora non ha propriamente senso ultimo parlare di corpo, figuriamoci nella dimensione dell'eterno.

Deus non est corpus, ma ciò non gli impedisce (anzi, ciò gli consente) di essere la realtà più vera e concreta che esiste, perché se fosse un corpo di carne non potrebbe essere eterno. Ora, siccome la partecipazione all'eternità si deve pensare come un diventare "partecipi della natura divina" (2 Pietro 1,4), è chiaro che chi partecipa all'eternità lo farà a prescindere dal corpo, cioè a prescindere da quella peculiare configurazione spazio-temporale della sua energia che è il corpo di carne.

Il dogma cristiano della risurrezione della carne ha un senso sostenibile solo se lo si intende non tanto nel significato letterale di una vita che continua in un corpo di carne, quanto nel significato speculativo della permanenza della personalità del principio personale dell'Io. L'anima intellettiva, l'unica che gode della possibilità dell'immortalità, non perderà la sua capacità di dire io, come anche Dio sa dire io perché è comunione tripersonale. L'Io del fedele sarà mantenuto tale in Dio, entrerà nella comunione dei santi come comunione delle essenze personali sul modello dalla tripersonalità divina.

Il vero valore contenuto nella dottrina della risurrezione della carne è la conservazione della personalità, il fatto cioè che l'Io, di cui il corpo è manifestazione unica e irripetibile, non si dissolverà ma continuerà a vivere come persona.

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103. Eternità dell'Inferno = impossibilità logica

Contro la dottrina dell'eternità dell'Inferno vi è anche una difficoltà logica. Essa consiste nel fatto che la posizione nell'eternità di qualcosa come l'Inferno, cioè dell'esatto contrario dell'ordine, è semplicemente impossibile, è contraddittoria. Nella dimensione dell'eternità, che è ordine e perfetta armonia, l'Inferno, che è il massimo del disordine e della disarmonia, non può sussistere. Non può. Si tratta di una contraddizione assoluta, come il ritenere che le tenebre esistano nella luce o il freddo nel caldo. L'Inferno, se esiste, esiste necessariamente nel tempo, come una continuazione del tempo, e quindi, come il tempo, è necessariamente destinato a finire. Proprio alla luce della sua essenza, l'Inferno non è pensabile come eterno. Il concetto di "Inferno eterno" è contraddittorio, equivale a qualcosa tipo "oscurità luminosa", e la mente che lo ospita è costretta a lavorare con il concetto puerile di eternità come tempo infinito, e non sa pensare Dio come conviene alla potenza e alla maestà di questa idea.

Grazie a von Balthasar ho scoperto con gioia che lo stesso Tommaso d'Aquino, quando riflette sull'eternità di Dio, esclude l'eternità dal concetto di Inferno: "Nell'Inferno non c'è vera eternità, ma piuttosto tempo". Tommaso è uno dei più profondi pensatori della storia dell'umanità, basta leggerlo per rendersene conto. Le sue pagine contengono molta luce. Peccato però che non sia stato conseguente in escatologia e, nonostante avesse visto che è impossibile unire il concetto di inferno a quello di eternità, abbia continuato a parlare di eterna dannazione. Se fosse stato coerente, però, oltre a correre qualche rischio per l'incolumità fisica, la sua opera sarebbe stata dichiarata eretica e oggi non potrebbe consegnare alla coscienza teologica con la sua immensa autorità gli spunti eccezionali che contiene per il progresso verso la verità tutta intera. Sulla stessa linea di rigorosa teologia logica vi è anche Sergej Bulgakov:

"Da un punto di vista ontologico, non esistono né male né inferno; essi sono una sorta di allucinazione che sorge regolarmente nelle anime malate. Ma proprio per questo motivo a esso non è nemmeno propria l'eternità; esso ha a che fare con l'ambito del non essere".

L'Inferno, se si considera adeguatamente l'eternità nella sua consistenza ontologica, non può esistere nell'eternità come realtà oggettiva. C'è una sola vera realtà ultima, un solo novissimo, ed è la vita eterna nella dimensione di Dio, la vita divinizzata. L'Inferno nell'eternità non esiste, perché in questa dimensione, che è ordine e perfetta armonia, il massimo del disordine e della disarmonia non può sussistere. Parlare di eternità dell'Inferno è una contraddizione assoluta, come il ritenere che le tenebre esistano nella luce o il freddo nel caldo.


104. Sul Diavolo

Come l'Inferno, che è il massimo del disordine, non esiste nell'eternità, allo stesso modo il Diavolo, che è la personificazione del disordine, non può esistere come sussistenza personale nell'eternità. Di più: il Diavolo non può neppure essere una persona concreta, perché la persona nella sua essenza è relazione ordinata, e quindi è bene, mentre l'idea di il Diavolo esprime il disordine, l'entropia, la condizione oggettiva negativa dell'assenza di relazioni stabili, e quindi dell'assenza della base ontologica per il darsi della persona. Massimamente personale è la natura divina e le persone della Trinità sono relazioni sussistenti. Non c'è il Padre, poi il Figlio, poi lo Spirito santo, che esistono indipendentemente gli uni dagli altri. Chi pensa così è triteista, un'ingenua eresia molto più diffusa nella mente dei cattolici di quanto si possa immaginare. Il Padre si costituisce come persona solo in quanto genera il Figlio, solo nella relazione col Figlio. Senza la relazione col Figlio, il Padre non sarebbe persona. La sua identità personale è costituita dalla relazione. La medesima logica vale per le altre persone della Trinità. Occorre concludere che l'identità personale è il frutto delle relazioni ordinate all'interno dell'unica divinità. Si tratta di un discorso valido anche per le persone umane, le quali vengono all'esistenza solo come frutto di una relazione, e si mantengono tanto meglio nell'esistenza quanto più ordinate sono le loro relazioni, a livello interiore tra gli organi del corpo (salute) e a livello esteriore nei rapporti col mondo esterno (giustizia).

Se l'essere è energia, perché possa avvenire la costituzione di una porzione di energia come sostanza a sé, occorre l'ordine relazionale tra le componenti fondamentali dell'essere, a partire dalle onde-particelle subnucleari. Senza ordine non c'è consistenza d'essere, senza forma ci sarebbe solo energia informe. È per questo che giustamente in teologia si ripete che Dio mantiene all'essere tutte le cose; è vero, Dio lo fa mediante la logica intrinseca della relazione ordinata, una logica immanente al cosmo che continuamente si rinnova mediante l'ininterrotto processo creativo.

Da quanto posto consegue che la natura anti-divina (volutamente e persistentemente diventata tale) sarà la negazione dell'esistenza personale. Negando l'ordine immanente all'essere, cioè il bene, viene meno la condizione ontologica della consistenza di persona, di ipostasi, termine greco che originariamente indica proprio la realtà concreta su cui si può stare, su cui ci si può appoggiare. Tutti gli esseri, anche quelli che sono detti spirituali, possono essere solo in quanto relazione ordinata, ma il puro spirito che nega l'ordine divino cade, per il fatto stesso, nel disordine ontologico del nulla, nella dissoluzione che è l'entropia.

A questo punto, si può pensare l'esistenza personale del Diavolo come puro spirito negativo solo ammettendo che Dio in quanto atto d'essere lo faccia esistere, lo mantenga nell'essere, e quindi facendo di Dio il vero responsabile del male. Il che è un'assurdità logica (almeno per me che aderisco alla pura metafisica dell'essere come bene, mentre forse non lo è per coloro che, come Schelling, Pareyson e prima ancora Jacob Boehme, sostengono la presenza del male in Dio).

Ne viene che come Dio, la cui natura è il bene, è in sé eminentemente personale ed esistente, per lo stesso motivo il Diavolo, la cui natura è la totale assenza di bene, è in sé eminentemente impersonale e quindi inesistente. Il Diavolo è il contrario del bene in quanto è il contrario dell'ordine. Ora, come insegna giustamente la metafisica classica, il male è privazione dell'essere, il non-bene equivale al non-essere. Allo stesso modo quindi, colui che è la personificazione del non-bene, non può che risultare come non-essere. Il Diavolo non esiste, non c'è. Pensare che esista come persona concreta da qualche parte dell'universo, in una delle molteplici dimensioni dell'essere, è un errore. Quanto è reale l'esistenza di Dio in quanto sorgente del Principio Ordinatore, tanto è irreale l'esistenza del Diavolo come Principio Disgregatore. Proprio in quanto simbolo della disgregazione in atto, egli non può essere.

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