Autore Livia Manera Sambuy
Titolo Non scrivere di me
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2015, Varia , pag. 208, cop.fle., dim. 14x22x1,6 cm , Isbn 978-88-07-49184-9
LettoreElisabetta Cavalli, 2016
Classe narrativa italiana , storia letteraria , critica letteraria , biografie












 

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Indice


 13 Parigi, rue du Bac


 19 Mavis

 57 Con Judith

 79 Sarebbe stata uccisa e sarebbe stata colpa mia

 99 A volte mi mette di buonumore e a volte mi spezza il cuore

125 Sono rare le anime capaci di sopportare con eleganza la buona sorte

153 Fuorilegge a Brooklyn Heights

165 Pesce rosso fuori dalla boccia

181 Ti proibisco di scrivere di me


205 Ringraziamenti


 

 

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Pagina 27

All'inizio era stata Parigi il nostro argomento. Avevo i miei motivi per farmi raccontare come le era apparsa questa città quando ci era arrivata poco più che ragazzina. Mavis aveva in tasca un assegno da seicento dollari per il primo racconto che le aveva comprato il "New Yorker", dove l'editor della narrativa che l'aveva scoperta era proprio Bill Maxwell. "Quando sono arrivata a Parigi nel 1950, l'ultimo dei tassisti parlava come un poeta," aveva risposto sdegnata, come dire che la cultura era caduta ben in basso da allora.

"Parigi era cupa e sporca, subito dopo la guerra. Però corrispondeva alla mia idea di Europa, al mito che ha resistito in me fino a quando è esplosa la violenza in Jugoslavia. L'Opéra, per esempio, era così sudicia che non si vedevano più nemmeno le statue della facciata... tanto che quando anni dopo l'hanno ripulita e sono saltate fuori, sono rimasta stupefatta. Comunque non dava l'impressione di essere una città povera. Semmai, era di una sciatteria terribile. Una persona come me, che viene dal Nord America, pensa che quando la vernice si stacca se ne compra ancora un po' e si dà un'altra mano. Ma loro no, a loro non viene in mente. Londra era povera, terribilmente povera. Parigi era sciatta."

Mentre bevevamo il nostro tè nelle tazze bianche e blu del Dôme, mi aveva raccontato di aver trovato la sua prima vera sistemazione parigina al Parc Monceau, dove affittava una stanza nell'appartamento di una famiglia aristocratica decaduta, gente molto di destra, cosa che Mavis, che da ragazza era stata appassionatamente socialista, prendeva con lo stesso atteggiamento filosofico con cui respingeva l'antisemitismo. "Era molto interessante, per me, perché in mezzo a loro mi sentivo come una martire cristiana circondata dai leoni nell'arena. Non ho mai rivelato loro le mie opinioni. Non ho mai detto che ero per la libertà dell'Algeria. Ma ascoltavo. Era interessante. E siamo rimasti amici."

Questa non era diplomazia, naturalmente, era istinto di sopravvivenza. Una forma di tatto che Mavis non ha avuto problemi ad applicare alla società francese quando le circostanze lo richiedevano, ma dalla quale deve essersi astenuta spesso quando ha avuto a che fare con intellettuali che le davano sui nervi. Tanto che la sua antipatia per le persone intelligenti che scrivono cose cretine ha generato qualche piccolo incidente che ho messo da parte in una mia speciale collezione di storie. Del libro A conti fatti della sua nemica Simone de Beauvoir , ha scritto per esempio nel 1974 in una recensione sul "New York Times" che aveva "lo stile ruminativo di una scolaretta francese che a un concerto mastica gomma al ritmo di Bach". Immagino l'espressione trionfante con cui deve aver battuto queste parole sulla macchina per scrivere. In un'altra occasione molto più recente, aveva invece bistrattato una scrittrice parigina, moglie di un importante editore, rea di averle dato sui nervi a un pranzo la sera prima, e forse anche di scrivere cose che non le interessavano. Il giorno dopo il pranzo in questione, il fioraio di Mavis doveva mandare un bouquet da parte sua a qualcuno, ma l'aveva mandato per sbaglio a questa scrittrice, che abitava nello stesso quartiere ed era sua cliente. E quando la scrittrice aveva incontrato per caso Mavis per strada, aveva fatto l'errore di ringraziarla per il gentile pensiero, scatenando un piccolo cataclisma. Mavis aveva negato di averle mai inviato dei fiori, l'aveva trascinata al cospetto del fioraio, aveva costretto l'uomo ad ammettere l'errore, e aveva chiesto la restituzione immediata del bouquet. In un'altra occasione, il bersaglio della sua tempestosa insofferenza era stato Saul Bellow. Colpa di un racconto uscito sul "New Yorker", in cui Bellow aveva scritto: "Era una tipica casa di gentili, dove tutto odorava di aceto". Mavis aveva preso carta e penna: "Vorrei sapere di quali case di quali gentili parla. Intende i giapponesi? I cinesi? I tibetani? Gli eschimesi, gli indiani americani, i finlandesi, i turchi, i baschi, i maltesi? Chi sono esattamente queste persone che puzzano di aceto?". "Tutta la vita ho combattuto la gente che dice che qualcosa è tipico," mi aveva detto sprezzante raccontandomi l'episodio. Bellow aveva fatto finta di niente. "Non ho mai avuto risposta, ma non sono affatto pentita di avere scritto quella lettera. Non bisognerebbe mai generalizzare. È una cosa stupida."

"Ma perché Parigi?"

"Roma era provinciale."

"E non si è sentita terribilmente sola all'inizio?"

"Io in genere non mi sento mai sola. Sono stata figlia unica e mi sono sempre trovata qualcosa da fare. Dipingere, disegnare, ascoltare musica. E poi c'erano parecchi canadesi qui, all'epoca. E questo andava bene. Non è che avessi detto a me stessa 'non voglio mai più vedere un canadese' in vita mia. Non mi avevano fatto niente. Ero libera."

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Pagina 52

"Ancora non so che cosa spinga qualcuno sano di mente a lasciare la terraferma e a passare la vita a descrivere persone che non esistono," ha scritto nella sua introduzione alle Collected Stories. Pensando a queste parole, ho la tentazione di rigirare il suo ragionamento, e chiedermi che cosa spinga una persona sana di mente a passare la vita a descrivere solo persone che esistono, invece. Perché tanti anni passati a fare questo non si giustificano soltanto con la constatazione che íl giornalismo "è sempre meglio che lavorare", come diceva il vecchio Luigi Barzini. Il giornalismo qui c'entra poco e forse niente. Il fatto è, come ho detto, che sospetto che le storie, vere o inventate, aiutino a vivere. O forse dovrei dire che aiutano a vivere me.

Ma io non ho mai tenuto a mantenere un canale aperto con il mio passato più lontano, non so giocare a "facciamo finta che...", non mi piace pensare alla mia infanzia e ho orrore a ricordare la mia adolescenza. E forse per questo sono sempre stata attratta da chi ha questa capacità e ho sposato un artista. Solo che mi sembra limitativo considerare il talento creativo un dono. Quando Mavis dice che "la letteratura è un ponte per attraversare il fiume", so che sta dicendo che per lei è stata un mezzo per salvarsi la vita. E chissà che in qualche modo – diverso – non lo sia stato anche per me.

Ora però ho una piccola confessione da fare. C'è un punto in cui sono stata reticente in questa storia. Durante il mio primo incontro con Mavis Gallant al Dôme, la vera scintilla della nostra complicità era scoccata quando, dopo avere parlato a lungo del collegio e della sua scelta di una vita solitaria che mi sembrava legata al trauma di quell'abbandono, le avevo detto: "Le dispiace se le dico una cosa personale?". E avevo versato un po' di tè nelle nostre tazze. Lei mi aveva fatto cenno di continuare, col viso acceso di curiosità. "L'uomo che ho sposato è stato mandato in un collegio lontano da casa quand'era bambino e non è mai più rientrato in famiglia. Molti anni più tardi, quando ci siamo separati, sua madre – un'amabile eccentrica signora con molti sensi di colpa – mi ha chiamato al telefono in stato di shock. 'È vero?' mi ha chiesto, senza nemmeno darsi il tempo di salutarmi. Ho capito subito cosa intendeva e ho risposto: 'Sì'. E lei è sbottata: 'Non avremmo mai dovuto mandarlo in collegio!'."

"You know, then!" aveva detto Mavis scoppiando in una risata d'intesa. Certo che sapevo. Sapevo che con ogni probabilità anche lei aveva passato la vita tormentata dal desiderio della famiglia che non aveva avuto, e dall'incapacità di vivere con la famiglia che avrebbe potuto avere.

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Pagina 70

"Grandiosità non vuol dire che sei meglio degli altri," aveva continuato Judith seguendo il filo dei suoi pensieri. "Può essere una forma di sentimentalismo. Nelle donne è il desiderio di essere uniche. Negli uomini, il desiderio di essere onnipotenti. Karen Blixen ha sempre cercato di presentarsi come una creatura strana, unica, inimitabile, di un altro tempo. Ha dedicato la sua vita a distinguersi, a essere diversa, ma era una mistificazione. Se ci pensi, la grandiosità è un conflitto di relazione con i tuoi genitori. Ti senti così oppresso dall'attaccamento, o da come i tuoi genitori ti hanno colonizzato, dalla presunzione che sei simile a un gruppo, che finisci per coltivare queste fantasie di unicità. Ecco, credo che per Karen Blixen questo sia stato un fatto molto importante, e che ne abbia scritto nei suoi racconti anche se non sempre consciamente. Ed è una cosa che è stata molto utile a me, capire."

A questo punto sono scesa nella mia camera, e invece di rimettermi a scrivere ho preso dalla biblioteca di Judith Sette storie gotiche, di cui avevo un ricordo vago avendolo letto a vent'anni. E mentre la neve cadeva fitta al di là delle finestre, mi sono sdraiata sul letto a leggere e ho fatto una scoperta bizzarra – forse non era neanche una scoperta, ma un fatto che avevo dimenticato. E cioè che uno dei protagonisti del racconto che s'intitola Le strade intorno a Pisa è un uomo sessualmente impotente, immensamente grasso ma molto elegante, a cui la Blixen aveva dato il nome di "principe Potenziani": cioè il nome del nonno di mio marito, che al contrario del suo omonimo fittizio era sottile come un ballerino di fox-trot e non solo non era impotente, ma aveva avuto una vita amorosa movimentata. Per anni avevo avuto sotto gli occhi, in casa, una fotografia in bianco e nero che lo ritrae in tuta da aviatore appoggiato alla carlinga di un piccolo aereo chissà dove. Era una foto che Aimone – l'artista di cui mi ero innamorata a diciannove anni e che poi avevo sposato – teneva incorniciata insieme ad altri ritratti della sua famiglia sopra il pianoforte del nostro appartamento a Milano. Un appartamento che avrei lasciato qualche anno dopo la nostra separazione: quando nostro figlio se n'era andato a studiare a Londra, e io, con un colpo di testa, mi ero trasferita a Parigi con mia figlia, allora quattordicenne.

Ma soprattutto, mi è tornata in mente una vecchia Polaroid incorniciata che mi ero portata a Parigi, in cui si vede mia figlia piccolissima infilare una mano nelle fauci di una tigre. Dalla foto non si capisce, ma si trattava della pelle di una tigre con la testa imbalsamata: un animale enorme e sontuosamente striato che il nonno Potenziani aveva riportato come trofeo di caccia dall'Africa. Quella pelle era stata usata come decorazione su un divano del castello di Sambuy, la casa di mio suocero alle porte di Torino, il lungo corpo steso sulla seduta e la testa, con la bocca spalancata, sul bracciolo. Nella foto, scattata una vigilia di Natale di diciott'anni fa mentre scartavamo i regali, si vedono solo le due teste: quella enorme della tigre e quella piccola di mia figlia, con la minuscola mano sospesa tra quattro denti affilatissimi.

Quando l'avevo mostrata a Judith, mi aveva detto: "Ma è straordinario! La tigre del principe Potenziani! Devi raccontarmi tutto". Ma non c'era molto da raccontare. Se non che negli anni venti il secondo marito della nonna di Aimone, che si chiamava Gino Spada Potenziani, era andato a caccia grossa in Africa, molto probabilmente accompagnato da Bror Blixen. E a Karen Blixen doveva essere rimasto in mente quel nome, intorno al quale aveva ricamato la barocca storia d'amore di un uomo potente nei suoi immensi privilegi ma impotente nel sesso e nel cuore. Infine il principe sposa una ragazzina, che involontariamente lo ucciderà di dolore.

"Sai perché per me è stato un libro così prezioso, Sette storie gotiche?" mi aveva detto Judith quel pomeriggio di neve, quando era entrata nella mia camera e mi aveva trovato intenta a rileggerlo. "Perché parla di gente che credeva di essere nata nel mondo sbagliato, gente nel profondo depressa ma allo stesso tempo estremamente vitale. Se confronti quel libro con la vita che stava vivendo Karen Blixen quando è rientrata in Danimarca nel 1931, ti rendi conto che dà voce a un essere umano affranto dai propri errori e dalle proprie sofferenze, e allo stesso tempo all'artista che trova il coraggio di tradurli in racconti favolosi.

"Ho passato due estati in Danimarca per studiare gli archivi Blixen," aveva proseguito sedendosi sul letto, "ho anche imparato il danese per leggere le sue lettere d'amore. E ho capito che i danesi odiano le persone che vogliono farsi notare. Vogliono che tu sia come tutti gli altri. Non tollerano le manie di grandezza e l'eccentricità. Per questo, quando Karen Blixen è tornata in Danimarca, è ripiombata in uno stato di ribellione adolescenziale. All'improvviso, tutte le cose da cui era voluta fuggire non erano più fuggibili, e lei le ha sovvertite nella sua fantasia, diventando una sognatrice nell'arte e una fantasista nella vita. E il fatto che si sia messa a scrivere di un mondo anacronistico ha trasformato lei stessa in un anacronismo, in qualcuno che personificava e drammatizzava la propria distanza dalla realtà che era costretta ad abitare. Quella sua faccia così bianca, quei suoi occhi così neri e quell'emaciazione che rivelava sicuramente un disturbo alimentare, erano uno spettacolo molto penoso..." In effetti, nelle fotografie degli anni cinquanta Karen Blixen appariva come una specie di corvo rinsecchito sotto la guaina di un turbante di velluto nero. "Era una piccola signora scheletrica, con le labbra color sangue, il viso di un azzurro latteo e gli occhi fosforescenti in fondo alle orbite," aveva scritto di lei Frederic Prokosch. "Ed era sola," ha aggiunto Judith. "Era sola perché nessuno le poneva dei limiti. O le diceva 'that she was full of shit', di andare a quel paese."

L'idea che, secondo Judith, Karen Blixen meritasse di essere mandata a quel paese mi aveva divertito, ma aveva anche acceso la mia curiosità sui rapporti tra un biografo e il suo soggetto: una lunga relazione che a tratti dev'essere estenuante. Certe biografie nascono su commissione, molte dalla necessità di guadagnare, ma davo per scontato che alla base di ogni lavoro di questo tipo dovesse esserci una fascinazione dell'autore per il suo soggetto, e che questa fascinazione fosse in sé un elemento di fragilità, come la passione in un matrimonio d'amore.

Judith invece era stata molto pragmatica: "Non ho scritto la vita di Karen Blixen o di Colette per scoprire la fonte della mia fascinazione. Le ho scritte perché avevo preso l'impegno di farlo," aveva tagliato corto. Ma non mi sfuggiva che scavare nella vita di una persona portava con sé il rischio di esporsi alla delusione, se non addirittura all'antipatia o alla ripugnanza.

Lo sapevo anche perché era quello che era capitato a me quando avevo elaborato un progetto di documentario sugli anni della giovinezza di J.D. Salinger , quelli in cui era stato soldato e aveva scritto una parte del Giovane Holden, tra lo sbarco in Normandia e alcune delle più atroci battaglie della Seconda guerra mondiale. Leggendo una sua biografia recente, avevo scoperto che era sopravvissuto alla carneficina dell'Operation Tiger, allo sbarco in Normandia, alla battaglia della foresta di Hürtgen, alle Ardenne, insomma aveva vissuto sulla sua pelle le fasi peggiori della Seconda guerra mondiale in Europa e aveva persino partecipato – lui che era ebreo – alla liberazione del lager di Dachau. E dopo il ricovero per motivi psichiatrici in un ospedale di Norimberga, nel 1945 aveva scritto a Hemingway: "Darei il braccio destro per essere congedato dall'esercito, ma non con una motivazione psichiatrica che dice quest'uomo-non-è-adatto-alla-vita-militare. Ho in mente un romanzo molto sensibile, e non voglio che nel 1950 l'autore sia considerato un fuori di testa. Io sono un fuori di testa, ma non devono saperlo le persone sbagliate".

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Pagina 94

Avremmo potuto continuare a parlare ancora a lungo? Non credo. Wallace non perdeva occasione per insistere sullo stress che gli davano le interviste, e poi immaginavo che avesse fame. Ormai era passata l'ora di cena e non aveva toccato cibo, e nemmeno noi. Ma speravo di riuscire a fargli dire qualcosa su quell'America con cui era per molti versi ai ferri corti, e che per tutto l'arco della nostra conversazione era stata un'ingombrante presenza invisibile.

L'avevo presa alla larga, dal lato letterario. "Che cosa c'è oggi di interessante, nelle lettere americane?"

Lui invece era stato diretto. "Le mie convinzioni politiche, ideologiche e religiose mi portano a non amare molti lati dell'America, la cultura che abbiamo inventato e il modo in cui ci trattiamo l'un l'altro, sostanzialmente il fatto che non facciamo che venderci delle cose. Naturalmente, i libri che gli editori apprezzano di più sono commerciali: pistole, tette grosse, sesso. E siccome con questi libri fanno un sacco di soldi, tollerano anche la presenza della narrativa letteraria. Uno scrittore ha la scelta se pubblicare prodotti capitalistici o mettersi all'opposizione del capitalismo nell'arte. Parlo del capitalismo post-industriale americano, che è tendenzialmente molto noioso. E nella narrativa si traduce in personaggi cinici e nichilisti, cioè vera e propria Bad Art. E questo dove ci porta? Molta letteratura giovanile politicamente impegnata ha un obiettivo: mostrare il capitalismo post-industriale come un inferno. E non fa che ripeterlo all'infinito: i personaggi sono sempre più infelici, ci sono sempre più centri commerciali, tutto è desolato e orribile. Carver magari no, ma molti dei suoi seguaci si sono attenuti a questa linea, la narrativa del vuoto."

Ora sembrava per la prima volta a suo agio. "Ma per me esiste un terzo tipo di narrativa che è difficile da descrivere. È una narrativa che non è nichilistica, non è apolitica, e non tratta argomenti come l'infedeltà coniugale di John Updike." Aveva sorriso. "Supponiamo di essere tutti d'accordo che la cultura, la politica, l'economia e l'ideologia americane non aiutano a diventare esseri umani autentici, qualcuno con un'anima, una vita spirituale o religiosa. Se diamo per scontato che l'America renda queste cose difficili, allora come è possibile che alcuni riescono a vivere vite piene e spirituali, e ad amare non soltanto se stessi? Deve pur esserci un modo di impegnarsi nella cultura senza diventare un escremento, ma nemmeno un don Chisciotte."

Non era quello che cercavo. In quel discorso vedevo più che altro un moralista confuso alle prese con una forte inquietudine esistenziale. Del resto, era stato lui il primo a dirlo: se la narrativa esiste, è proprio perché certe cose non si possono esprimere in modo diretto.

"Quattro o cinque anni fa mi sono trovato a dover prendere una decisione: vivere qui o no," mi ha detto prima che ci separassimo. "Questa è casa mia. La città dove vivo è piena di questa robaccia," e ha guardato le vaschette di polistirolo espanso dei cheeseburger mangiati a metà sui tavoli di fòrmica. "Ma in qualche strano modo, qui per me c'è un significato. E la narrativa che mi interessa è la narrativa che si confronta con i possibili significati proprio di questa American Life, così giustamente criticata, così disprezzata dal resto del mondo. Perché il punto è che è un disprezzo che ci meritiamo fino in fondo."

[...]

Non ho più visto Chicago, né Dan, né David Foster Wallace. Ma ho letto la sua biografia scritta da D.T. Max quando è uscita, e mi è sembrata concisa e sobria, due qualità ancora più apprezzabili in una storia che finisce con un protagonista straordinariamente intelligente e venerato dai lettori, che a quarantasei anni si impicca nel patio di casa, a pochi metri dal gigantesco manoscritto che non è riuscito a terminare. Qualcuno ha detto che è stato questo, alla fine, a stremarlo, che negli ultimi anni Wallace aveva ingaggiato una guerra con il libro che sarebbe uscito incompiuto col titolo Il re pallido, e che aveva capito di averla persa.

Poi ho preso i suoi libri dalla mia libreria per rileggerli. E a quel punto è successo qualcosa.

Sappiamo tutti che ogni libro ci appare diverso secondo il momento della vita in cui lo leggiamo. Quando quelli di David Foster Wallace erano usciti negli Stati Uniti, li avevo letti subito, senza aspettare la traduzione italiana. Avevamo più o meno la stessa età e credo che questo avesse facilitato una certa sintonia. Ma non c'era nessuna possibilità di immedesimazione, per me, in quello che scriveva – venivo da una cultura troppo diversa. Eppure, da lettrice professionista quale sono, ero così incantata dall'intelligenza e dal talento di questo scrittore che non somigliava a nessuno, da pensare che tutto quello che di debordante c'era in quelle pagine era una massa di materiale irrisolto, sì, ma anche straordinariamente palpitante di promesse. Era come se negli scarti della narrativa di Wallace vedessi un magma in ebollizione, un magma che prima o poi avrebbe preso una o tante forme diverse, e da quelle forme inimmaginabili mi aspettavo nuove emozioni, più forti e più sorprendenti di quelle che avrebbe potuto darmi qualunque autore della sua generazione. Parafrasando il pensiero dello scrittore inglese Tom McCarthy sull' Ulisse di Joyce, Infinite Jest era un romanzo che nei suoi parametri impossibili conteneva allo stesso tempo la memoria di una letteratura futura e una domanda terrificante: come scrivere dopo Infinite Jest?

Eppure non sono più riuscita a rileggere David Foster Wallace. È stato come andare a sbattere contro un muro. Forse, se avessi avuto più pazienza, avrei esaminato le radici della mia diffidenza, come mi ha insegnato Judith Thurman, e scoperto che la vita mi aveva cambiata, il che era sicuramente vero. Ma una sensazione più forte si imponeva sul buon senso: per me, quel magma caotico che avevo sentito pieno di forza vitale era diventato materia morta con la morte dell'autore.

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Pagina 141

Leggendo o rileggendo in questi giorni i libri di Ford in ordine cronologico, sono rimasta colpita dal salto qualitativo di Sportswriter, il suo terzo romanzo (anche se trovo straordinari i racconti di Rock Springs). È come se uno scrittore ancora indeciso avesse trovato finalmente la sua vera vena: meditativa, filosofica, fatta di tempi lunghi e lunghe descrizioni di paesaggi suburbani americani – cittadine con le case della piazza centrale dipinte di bianco in stile coloniale, poche librerie e boutique gestite dalle mogli divorziate di professionisti che lavorano per i think tanks dei dintorni. Come dice Frank Bascombe a proposito di Haddam, la cittadina fittizia dove vive: "Non è un posto interessante, ma a noi piace così".

Fin dal paesaggio, Sportswriter è il contrario dei fulminanti racconti di Rock Springs, dove tra miniere e prostitute e trailers prendono forma una desolazione e una violenza che sembrano il punto d'incontro tra il mondo della giovinezza di Ford e l'espressione della vita distillata sulla pagina dal suo amico Carver. "Sono felice di dire – e Ray certamente lo sapeva – che in un momento cruciale della mia vita i suoi racconti hanno rappresentato una presenza nelle storie che scrivevo, allo stesso modo in cui sono sicuro che il suo lavoro illuminerà qualunque cosa scriverò in futuro," ha scritto Ford a cinquantaquattro anni, nel 1998. Qualunque cosa, forse no. È difficile trovare un'eco di Carver nella trilogia che ruota intorno al personaggio di Frank Bascombe, l'ex scrittore di narrativa diventato giornalista sportivo diventato agente immobiliare che fa da protagonista a Sportswriter, Il giorno dell'indipendenza e Lo stato delle cose. Ma leggendo Canada viene da pensare che, quattordici anni dopo avere reso omaggio a Carver con queste parole, Ford abbia trovato il punto di fusione tra due generi, quello più carveriano e quello più meditativo.

Non è una coincidenza che la cittadina canadese dove Ford ha ambientato la seconda parte di Canada l'abbia scoperta con Raymond Carver. "L'unica ragione per cui ho potuto scrivere un libro ambientato nel Saskatchewan è che nel 1983, quando le cose cominciavano ad andargli veramente bene, Ray mi chiamò per dirmi che lo avevano invitato a presentare un libro nel Saskatchewan, e che dopo lo avrebbero portato a caccia di anatre. Porca miseria, gli dissi, mi piacerebbe da pazzi venire con te. E lui, che in queste cose era molto generoso, mi disse: potrei telefonare e chiedere se possiamo andarci tutti e due, potresti presentare un libro anche tu, potremmo dividerci il compenso e farci portare a caccia. E così siamo andati a caccia di anatre nel Saskatchewan, e ne abbiamo prese un sacco. Solo che a quel punto dovevamo farle pulire." Pulire le anatre è uno dei compiti che in Canada vengono assegnati a Dell Parsons, il ragazzino senza più un tetto i cui genitori sono finiti in galera per avere rapinato una banca. Ed è un lavoro cruento e spiacevole a cui Dell non può sottrarsi, perché è l'unico modo che ha per ripagare la gente che lo ospita.

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