Copertina
Autore Thomas Mann
Titolo La montagna incantata
Edizionedall'Oglio, Milano, 1965, i david 6-8 , pag. 382+408, dim. 110x180x19+20 mm
OriginaleDer Zauberberg [1924]
TraduttoreBice Giachetti-Sorteni
Classe narrativa tedesca
PrimaPagina








 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

Capitolo primo


A R R I V O



Un giovanotto di aspetto semplice e comune era partito in piena estate da Amburgo, sua città natale, diretto a Davos, nel Canton dei Grigioni, dove contava di rimanere tre settimane in visita presso un suo parente.

È un viaggio lungo da Amburgo fin lassú, troppo lungo anzi in rapporto ad un soggiorno tanto breve. Si passa attraverso varie terre, si sale, e si scende dall'altopiano meridionale tedesco fino alle rive del «mare svevo» di cui si solcano in vapore le onde, sopra abissi ritenuti in altri tempi senza fondo.

Da questo punto in poi il viaggio, che prima procedeva a grandi linee dirette, si spezzetta, si interrompe. Ci sono fermate e formalità d'ogni genere. A Rorschach, su territorio svizzero, si riprende la ferrovia con la quale però si giunge soltanto fino a Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. È un trenino a scartamento ridotto su cui si sale dopo essere stati fermi ad aspettarlo per un poco, in mezzo ad un paesaggio poco attraente e molto battuto dal vento; e nell'istante in cui la macchina, piccola ma dotata evidentemente d'una singolare potenza di trazione, si mette in movimento, comincia la parte veramente avventurosa del viaggio, un'ascesa ripida e improvvisa che non accenna a terminare, poiché la stazione di Landquart è situata relativamente ad un'altezza media, mentre dopo di averla oltrepassata si sale sul serio, per una strada tutta rocciosa e di selvaggio aspetto, verso l'alta montagna.

Giovanni Castorp (quest'è il nome del giovanotto), con una valigetta di pelle di coccodrillo (dono dello zio e tutore, il console Tienappel, per dire qui subito anche il suo nome), col soprabito d'inverno che dondolava appeso ad un gancio e uno scialle arrotolato, si trovava in uno scompartimento dai sedili tappezzati in grigio; sedeva vicino al finestrino aperto, e siccome il pomeriggio andava di mano in mano rinfrescandosi, così egli, figliolo di famiglia e ragazzo avvezzo a tutte le delicatezze, teneva rialzato il bavero del soprabito estivo lavorato in seta e molto ampio, secondo la moda di allora. Accanto a lui stava, negletto sul sedile, un volume dal titolo Ocean Steamships, libro che al principio del viaggio egli aveva ogni tanto studiato; ora però era là abbandonato, ed il soffio ansante della locomotiva, penetrando dal finestrino, deponeva sopra la sua copertina minuscole particelle di carbone.

Due giornate di viaggio allontanano l'uomo (e specialmente il giovane che non ha ancora salde radici nella vita) dal suo solito mondo, da ciò che egli chiama i suoi doveri, i suoi interessi, le sue preoccupazioni e aspirazioni; lo allontanano piú di quanto egli stesso abbia potuto immaginarselo durante il tragitto in carrozza da casa alla stazione. Lo spazio che ruzzola via fuggendo tortuoso e si interpone fra lui e il suo luogo di residenza, ha in sé forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora esso dà origine a interni mutamenti, molto somiglianti a quelli generati dal tempo ma che in certo qual modo li sorpassano. Come quest'ultimo, genera dimenticanza, ma lo fa sciogliendo la personalità dell'individuo dai suoi rapporti e ponendolo cosí in una situazione libera ed iniziale; perfino del pedante e del grasso borghese esso fa in un volger di mano qualcosa come un vagabondo. Si dice che il tempo è il Lete, ma anche l'aria delle lontananze è un'acqua simile, e se i suoi effetti hanno minore intensità sono però di tanto piú rapidi.

Giovanni Castorp ne fece l'esperienza. Egli non aveva avuto l'intenzione di prendere il suo viaggio troppo seriamente, né di dedicarvi alcuna forza spirituale, anzi contava di liquidarlo in fretta poiché doveva essere fatto; contava di ritornare tal quale era partito e di riprendere la sua vita al punto preciso in cui aveva dovuto lasciarla. Fino al giorno precedente era stato preso nella cerchia dei soliti pensieri, cioè del suo esame, e di ciò che stava per accadere, ossia del suo ingresso come praticante nella ditta Tunder & Wilms (cantiere navale, fabbrica di macchine e caldaie). Aveva inoltre sorvolato col pensiero le successive tre settimane mettendoci quel tanto di impazienza che gli permetteva la sua natura. Ora però gli sembrava che le circostanze esigessero tutta la sua attenzione e che non fosse il caso di prendere la faccenda tanto alla leggera. Quell'essere portato su su, in regioni dove mai aveva respirato, dove, come sapeva benissimo, regnavano condizioni di vita per nulla affatto comuni, anzi singolarmente ristrette e misere, cominciava ad agitarlo, a infondergli un certo senso di timore. La patria e l'ordine erano ormai lontani, anzi stavano giú in fondo, ed egli saliva, saliva continuamente al disopra di essi. Diviso tra essi e l'ignoto, Giovanni Castorp si chiedeva come si sarebbe trovato lassú in alto. Forse era imprudente e inopportuno per lui, abituato a respirare a un paio di metri sopra il livello del mare, il lasciarsi trasportare in quelle estreme regioni senza aver prima sostato in qualche luogo posto a un'altezza media. Desiderava tuttavia di essere giunto alla meta; una volta su, pensava, si dovrà vivere là come altrove, senza pensare continuamente come ora in quali sfere inconsuete ci si trovi. Guardò fuori: il treno descriveva una curva sopra uno stretto passo; si scorgevano i primi vagoni e la macchina che nella sua fatica emetteva masse di fumo verde e nerastro. A destra si udiva il rumoreggiare dell'acqua, a sinistra scuri pini fra blocchi di roccia tendevano in alto le cime verso un cielo plumbeo. Giunsero gallerie dove regnava notte profonda, e quando ritornava il giorno si aprivano davanti agli occhi del viaggiatore vasti abissi nei quali sorgevano interi villaggi. E si chiudeva l'abisso, e seguivano altri passi, altre gole con resti di neve nei crepacci. Il treno si fermava a povere stazioncine capolinee per ripartire poi in direzione opposta, e ciò ingenerava confusione poiché non si sapeva piú come si viaggiasse e ci voleva del tempo prima di orizzontarsi di nuovo. Grandiosi panorami si aprivano nel mondo sacro e fantasmagorico dell'alta montagna in cui si addentrava sempre continuando a salire; indi una svolta li sottraeva all'occhio che stava contemplandoli con commozione e rispetto.

Giovanni Castorp si accorse d'aver lasciato dietro a sé tanto la zona degli alberi a fogliame, come quella degli uccelli canori, e tale pensiero di cessazione, di impoverimento, fece sí che, preso per un istante da un senso quasi di malessere e di vertigine, si parasse gli occhi per qualche secondo con la mano. Questa sensazione però sparí ben presto, poiché egli vide come l'ascesa fosse finita e i passi sorpassati. Il treno correva ormai piú comodamente per una vallata pianeggiante.

Erano quasi le otto e il giorno resisteva ancora. Appariva un lago in lontananza; le sue acque erano grigie e le alture sulle rive coperte di neri boschi di pini i quali andavano diradandosi verso l'alto per lasciare le vette libere nel grigiore della roccia. Il treno si fermò a una piccola stazione; era «Davos-Dorf», come venne annunciato dal difuori. Giovanni Castorp pensò allora che era ormai vicino alla meta. D'un tratto udí vicino a sé la voce di Gioachino Ziemssen, la calma voce amburghese di suo cugino che diceva:

- ...'n giorno, Giovanni, scendi pure, - e guardando fuori vide sotto il finestrino Ziemssen in persona. Il giovanotto indossava un soprabito scuro, non portava cappello ed aveva un aspetto sano come mai in vita sua. Gioachino rise e ripeté:

- Vieni giú, non aver riguardo.

- Ma non sono ancora arrivato, - replicò Giovanni Castorp un po' sbalordito e rimanendo a sedere.

- Ma sí che sei arrivato. Questo è il villaggio di Davos. Al Sanatorio si giunge piú presto per di qui. Ho una carrozza. Dammi le valigie.

Allora Giovanni Castorp, ridendo confuso nell'agitazione dell'arrivo e dell'incontro col cugino, porse a quest'ultimo la valigia, il soprabito da inverno, lo scialle avvolto intorno al bastone e all'ombrello, e finalmente anche Ocean Steamships. Poi percorse correndo lo stretto corridoio e saltò giú sulla banchina. Là ebbe luogo, per cosí dire, il saluto personale fra i due cugini, saluto senza soverchia espansione come si usa fra gente fredda e di costumi riservati. È strano a dirsi, ma i due ragazzi avevano sempre evitato di chiamarsi per nome, e ciò unicamente per timore di dimostrare troppa tenerezza di cuore. Ma siccome logicamente non avrebbero potuto chiamarsi col cognome, così si limitavano al «tu», e questa era fra loro radicata abitudine.

Un uomo in livrea, col berretto a bordi, li osservava mentre si stringevano l'un l'altro, alquanto imbarazzati, la mano (il giovane Ziemssen dal canto suo in rigido atteggiamento militare); indi si avvicinò e chiese a Giovanni Castorp lo scontrino del bagaglio. Era il portiere del Sanatorio Internazionale Berghof, e si dichiarava pronto a recarsi alla stazione di Platz, seconda stazione di Davos, onde ritirare il bagaglio. I signori intanto potevano proseguire direttamente per il Sanatorio con la carrozza, nel qual caso sarebbero arrivati in tempo per la cena.

Il portiere zoppicava forte, quindi la prima domanda che Giovanni Castorp fece a Gioachino Ziemssen fu:

- È un reduce di guerra? Perché zoppica in quel modo?

- Un reduce di guerra? Grazie tante! - rispose il cugino in tono alquanto amaro. - Quello ce l'ha al ginocchio, o almeno l'ha avuta, poiché s'è fatto estrarre in seguito la ròtula dell'arto.

Giovanni Castorp si immedesimò nella situazione il più presto che gli fu possibile ed esclamò:

- Ah, cosí! - mentre camminando alzava il capo e dava di sfuggita un'occhiata intorno. - Tu però non vorrai dirmi d'aver ancora qualcosa di simile? Hai l'aria d'aver già cinta la spada e di tornare dalle grandi manovre. - E lanciò un'occhiata al cugino.

Questi era piú alto e piú prestante di lui, era l'immagine della forza giovanile e sembrava fatto apposta per indossare l'uniforme. Aveva il tipo marcatamente bruno che la sua terra natale tanto raramente dà, e la pelle già scura di per se stessa era quasi bronzea per l'azione del sole e della neve. Con quegli occhi neri e coi neri baffetti che incorniciavano una bocca tumida e ben disegnata, egli sarebbe stato quasi bello se non avesse avuto le orecchie sporgenti. Quel difetto era stato il suo unico dispiacere, il solo dolore della sua vita fino ad una data epoca, poiché in quel momento aveva ben altre preoccupazioni.

Castorp continuò:

- Tu verrai giú subito con me, vero? Non ci vedrei alcun ostacolo.

- Subito con te? - domandò il cugino volgendo a lui i grandi occhi che avevano sempre avuto un'espressione mite, ma che in quei cinque mesi s'era mutata in espressione di stanchezza, anzi di tristezza.

- Subito, quando?

- Fra tre settimane, si capisce.

- Ah, tu torni già a casa col pensiero! - replicò Gioachino.

Aspetta un poco, sei appena arrivato. Tre settimane non sono quasi nulla per noi quassú, ma per te che sei qui in visita è un periodo di tempo molto lungo. Prima di tutto cerca di acclimatarti, è vedrai che la cosa non è tanto facile come sembra. Poi ti dirò che il clima non è la sola cosa eccezionale da noi. Tu vedrai piú di qualche novità, sta' attento.

| << |  <  |