Copertina
Autore Sándor Márai
Titolo Divorzio a Buba
EdizioneAdelphi, Milano, 2002, Biblioteca 426 , pag. 204, dim. 140x220x16 mm , Isbn 978-88-459-1703-5
OriginaleVálá Budán [1935]
CuratoreLaura Sgarioto
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa ungherese
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9 [ inizio libro ]

Settembre era cominciato con un caldo fuori dell'ordinario. In uno di quei pomeriggi di primo autunno, quando le giornate sembrano protrarre la torrida calura estiva, il giovane magistrato Kristóf Kömives esaminava nel suo ufficio gli atti delle cause di divorzio.

Una, in particolare, interessava il giudice, poiché - sia pure alla lontana - egli conosceva le parti in causa. Lo sventurato eroe dell'udienza fissata per l'indomani, il marito, un giovane medico di una certa fama, direttore del laboratorio chimico di uno degli ospedali di Budapest, era stato compagno di scuola di Kömives; avevano frequentato insieme le medie, e in seguito, ai tempi dell'università, si erano di tanto in tanto incontrati in qualche occasione mondana, alle serate danzanti e alle riunioni studentesche. Il giudice ricordava sempre con piacere quel suo compagno modesto, i suoi modi discreti, il suo contegno riservato. Ora, mentre metteva in ordine le carte, la figura del medico gli appariva dinanzi in maniera particolarmente vivida: lo rivedeva così come gli era capitato di vederlo in qualche remota festa danzante, ai tempi dell'università, quando aveva ventidue o ventitré anni: in piedi nell'ampia hall di un albergo di lusso, con un sorriso imbarazzato e l'ingenua cortesia dell'uomo inesperto del gran mondo, risponde alle domande che gli pongono, con un tono tra l'affabile e il condiscendente, alcuni gentiluomini dalla reputazione di persone influenti. Nel gruppo c'è anche lui, il giovane praticante legale, e d'un tratto prova simpatia per quel compagno di scuola dimenticato, che conosce a malapena. E un lampo di attrazione inattesa, divampante, del tutto ingiustificato. Ma subito, come se un ineluttabile e indefinibile divieto si frapponesse tra loro, per l'ennesima volta passano l'uno di fianco all'altro scambiandosi poche parole di circostanza con un sorriso di garbata cordialità. Questi impacciati e appena abbozzati tentativi di approccio si ripetono con una certa regolarità: talvolta, scorgendosi per strada, si affrettano l'uno incontro all'altro con un sorriso festoso; eppure sanno benissimo che ancora una volta non succederà nulla: si limiteranno a stringersi a lungo le mani e a farfugliare con imbarazzo generici convenevoli, come se stessero parlando d'altro. D'altro? Di che cos'altro? Il giudice, assorto nei suoi pensieri, si alzò e andò alla finestra.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

Attraversò lentamente il ponte, in direzione di Buda; si era tolto il cappello e camminava adagio, con aria pensosa. Chi l'avesse visto così, mentre, con le mani dietro la schiena, il busto leggermente inclinato in avanti, il passo lento e svogliato, gli occhi fissi a terra, avanzava tra i passanti della sera che si affrettavano verso casa, l'avrebbe creduto più vecchio della sua età. Kristóf Kömives era incanutito precocemente, e negli ultimi anni, da quando era andato a vivere in centro e trascorreva quasi tutta la giornata seduto dietro la scrivania, si era appesantito. Questa condizione fisica lo impensieriva. In cuor suo disprezzava ogni forma di rilassatezza, ivi compresa la indolente rilassatezza del corpo - era propenso a esaltare l'ascetismo, considerava con favore le attività ginniche allora in voga e in generale era del parere che coloro che si concedono eccessivamente agli agi e alle esigenze del corpo finiscano per indebolirsi anche nello spirito, come se pure il loro animo si appesantisse. In verità non era ancora grasso, nel complesso viveva in modo sobrio ed era parco nel mangiare e nel bere; ma da alcuni anni nel suo organismo era sopravvenuto quel decadimento fisico, quella fiacchezza, che lui vedeva con diffidenza, anzi con fastidio, e di tanto in tanto per combatterlo si proponeva di adottare un diverso stile di vita. Non era arrivato al punto di seguire una delle diete dimagranti alla moda; cose del genere le riteneva poco dignitose, pensava fosse roba da donne. Tuttavia si era reso conto che la questione delle sue condizioni fisiche era per lui causa di una certa apprensione. Sembrava più vecchio della sua età, il suo aspetto era quello di un posato signore quarantenne dalle tempie ormai incanutite, e aveva anche messo su una notevole pancetta. Di questo parlava talvolta con gli amici intimi, certo sempre in tono scherzoso. «La pancia è segno di autorità» solevano dire tra di loro e dal canto suo capiva di voler comunicare con il suo aspetto fisico quella autorevolezza che avrebbe in qualche modo controbilanciato la sua giovane età; nel contegno, nell'eloquio, nello stile di vita metteva in risalto il suo prestigio di borghese e di magistrato; ciò nonostante, a voler essere sincero, era costretto ad ammettere che negli ultimi tempi si era un po' lasciato andare alla pigrizia. Questa era una cosa più complessa, e il più delle volte crucciava profondamente il giudice anziché fargli piacere. Non trovava nulla di «gioviale» nella sua tendenza a ingrassare - era giunto un po' in fretta, forse prematuramente, a tale forma fisica, come peraltro a tutto in vita sua, alle prime tappe della carriera, agli assilli familiari, a una quotidianità ormai fossilizzata, persino all'autorevolezza. Che cosa c'era in fondo a quella fretta?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 41

Aveva ricevuto la sua educazione in un istituto religioso, e ne serbava un buon ricordo. Kömives era un sincero credente, e il suo sentimento religioso era un'inclinazione personale, non il risultato dell'educazione. Il padre a modo suo osservava i precetti religiosi, non mancava di andare in chiesa in occasione delle feste principali, a Pasqua faceva sempre la comunione, ma Kristóf non sapeva se andasse a confessarsi regolarmente, non l'aveva mai sorpreso a dedicarsi di sua spontanea volontà agli esercizi spirituali, non aveva mai parlato con i figli di devozione, non si interessava di quell'intima e complessa sfera della loro crescita spirituale. Una volta all'anno, il pomeriggio del 31 dicembre, si recava con i figli nella cattedrale. Si sedevano in uno degli ultimi banchi della chiesa semibuia, che a quell'ora è sempre affollata di persone che non mettono piede nella casa di Dio per un anno intero, e tuttavia quel giorno, quando la coscienza si sente in dovere di fare un bilancio, sono spinte in chiesa da timore e sensi di colpa, speranza e disperazione, spinte verso l'ignoto che ascolta ma non dà risposte, che prende atto ma non pone domande - e tutte queste persone, colme di sentimenti dello stesso tipo, in preda a una sorta di solenne timor panico, se ne stavano sedute o inginocchiate nei banchi intorno a loro, e Kristóf sentiva che anche suo padre faceva parte di quei credenti occasionali. Ci andavano tutti gli anni, vestiti a festa, in quella chiesa umida e fredda, sedevano muti nel banco, in ordine rigoroso: alla destra del padre Emma, poi Kristóf e infine Károly, in divisa, con lo spadino al fianco.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 60

[...] La vita, proprio in quegli anni, era alla ricerca di nuove forme; di questo si trattava, e in tale prospettiva bisognava cercare di comprendere le azioni disperate degli esseri umani. Tutto era mutato, moda, macchine, idee, convenzioni, tutto era stato relegato in soffitta, era diventato vecchio nel giro di qualche anno, era passato di moda... Ma il compito primario del giudice non era quello di comprendere; semmai di stabilire, di accertare. La società esigeva solo questo da lui, né più né meno; dopo l'immane cataclisma si riparavano i danni e le crepe degli edifici lesionati, si imbiancavano le facciate, tutti tornavano a sedersi alle loro scrivanie di un tempo, a poco a poco si riaprivano i negozi, le ferrovie riprendevano con cautela a marciare, gli esseri umani si davano da fare per ingentilire la cornice delle loro esistenze; il giudice non aveva il diritto di chiedere che cosa mai desiderassero, in che cosa credessero, quali fossero le loro aspettative - il giudice si rendeva conto che la società era attaccata alle antiche convenzioni. Soltanto che ancora non si era raffreddata la materia rovente, la materia delle forme esplose; ed era come se il clima di un tempo, tiepido e temperato, fosse destinato a non spirare mai più sulle distese del mondo civile... Dall'anima degli esseri umani sgorgava lava, fumo e pece; si erano ripresi dal terrore della morte e si erano buttati a caccia di denaro con fanatica ingordigia; nei primi anni il denaro era tutto, quelle banconote sgualcite erano il massimo cui si potesse aspirare; il denaro dominava incontrastato negli affari pubblici, nelle famiglie, sui sentimenti, sui pensieri - al contrario di prima, non c'era più una meta, né una misura dei valori, il denaro era semplicemente un narcotico, e gli uomini, come i morfinomani, non si accontentavano più e avevano bisogno di dosi sempre crescenti, mentivano, imbrogliavano, si comportavano da ipocriti, assassinavano, e nei cervelli si agitavano stratosferiche chimere, la traballante struttura scricchiolava in ogni angolo, contrabbandieri e pubblicani di deliri spacciavano oppio per la strada - adesso alzati, e giudica, sopra l'individuo, sopra il caso, mettiti là e giudica!, pensava talvolta. Forse, se dalla razza degli antichi giudicatori, fosse nato un grande magistrato, un giudice che fosse al tempo stesso sacerdote, vate, a cui render conto di ogni azione, una sorta di Savonarola... Ma non si vedeva traccia di un Savonarola da alcuna parte. Il giudice non poteva fare più nulla; tirava fuori gli incartamenti, convocava le parti in causa e accertava i fatti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 90

Poi, all'improwiso: «E tu, Kristóf? » chiese l'anziano magistrato con voce tagliente; e i suoi occhi, dapprima simili a quelli di un essere primordiale risvegliatosi da un pigro sopore, dardeggiarono verso di lui. Il vecchio adesso era teso come una corda di violino. Quello sguardo, in un primo momento sonnacchioso e indolente, e subito dopo violento, sferzante al punto da trasmettere una sensazione quasi fisica, quello sguardo, del quale pochi riuscivano a reggere l'improvviso balenare senza provare una scossa, sconcertò Kristóf. Il magistrato lo guardava dritto negli occhi, con espressione cordiale e garbata, il busto lievemente inclinato in avanti, scuotendo appena il capo, con la debolezza tipica dei signori anziani, eppure visibilmente irrequieto, con una sorta di caparbietà, di tenacia mal celata nel corpo decrepito. Da quando si conoscevano, quella era la prima volta in cui il, venerato e autorevole collega più anziano pretendeva da Kristóf un giudizio critico, un parere personale. Tutti coloro che sedevano intorno al tavolo, nella luce soffusa della piantana, il giudice, l'ex procuratore di Stato, l'avvocato, si volsero verso Kristóf, in trepida attesa. Avevano la vaga sensazione che quello fosse un momento decisivo; aspettavano che Kristóf manifestasse il suo punto di vista, attendevano la risposta del collega più giovane, di colui che era destinato a succedere a tutti loro: avrebbe preso il loro posto, avrebbe accettato incondizionatamente, senza compromessi, i loro princìpi? Kristóf si guardò intorno con aria incerta, alquanto nervoso. Anche lui avvertiva l'importanza del momento - uno di quelli in cui, d'un tratto, ci si rivela per quello che si è; poi non succede niente, la vita continua, il giudice giudica, prosegue nella sua carriera, amministra la giustizia così come può; ma la generazione che lo ha preceduto e che sta per ritirarsi, prima di cedergli il posto, ancora per un attimo lo guarda dritto in faccia. I suoi occhi si fermarono sul volto del vecchio giudice, i loro sguardi si toccarono. Kristóf aveva studiato la materia processuale, era al corrente del retroscena politico dello scandalo, riusciva a penetrare e comprendeva quella trama incresciosa, conosceva anche la parte lesa del processo. Mentre stava per formulare l'unica risposta possibile, e cercava con cura le parole giuste, udì con sorpresa la propria voce pronunciare in tono fiacco, incolore, quasi meccanico: «La sentenza è iniqua». La sua risposta fu breve e sorda. Il vecchio giudice restò immobile, non fece alcun cenno, né di approvazione né di dissenso: guardava Kristóf con espressione attenta e garbata. Posò con gesto lento il sigaro nel posacenere, intrecciò le mani sul ventre, si appoggiò allo schienale della poltrona e socchiuse stancamente gli occhi, come se stesse per addormentarsi. Kristóf rimase seduto in silenzio per qualche istante, come in attesa di una replica; ma, siccome nessuno parlava, si alzò, fece un inchino e si diresse nell'altra stanza. Sulla soglia sentì ancora sulla schiena lo sguardo fisso dei tre uomini.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 147

[...] Ho dovuto lasciarla lì, sola con il suo destino. Prima o poi si è costretti ad abbandonare ogni essere umano al proprio destino. Allora non sapevo ancora che... Ma chissà quanto deve suonarti estraneo tutto questo! Forse ancora non sai... non immagini nemmeno che non si può aiutare nessuno. Non c'è niente di più difficile che cercare di aiutare qualcuno. Senti solo che una persona alla quale tieni molto, che ti è cara, va verso la propria rovina, agisce contro i propri interessi, disperata o solo infelice, si tormenta, non si regge più in piedi, non ce la fa più, sta per crollare... e tu accorri, vorresti aiutarla, e di colpo ti rendi conto che non è possibile. Sei troppo debole per farlo? Non sei abbastanza buono? Abbastanza sincero? Abbastanza altruista, premuroso, umile? Sì, non lo siamo mai abbastanza... ma nemmeno se tu fossi un profeta, se dalle tue mani si irradiasse una forza magnetica, e sapessi parlare tutte le lingue del mondo come i santi apostoli, neanche questo sarebbe sufficiente... Non si può essere d'aiuto a nessuno, poiché l'"interesse" dell'uomo è sempre qualcosa di diverso da ciò che è buono e sensato. Forse gli umani hanno bisogno di sofferenza. Forse hanno bisogno di tutto ciò che, in apparenza, è contrario al loro "interesse". Non c'è segreto più ingarbugliato di questo: in che cosa consista l'"interesse" di una creatura umana... Si possono curare i sintomi, posso prescrivere una pozione contro il mal di testa, ma ciò che gli fa dolere il capo, quello, non sarò mai capace di coglierlo. È stato così con mia madre. È stato così con Anna». Riprende a camminare su e giù per la stanza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 166

[...] Che cosa significa amare una persona? Per molto tempo ho creduto che significasse conoscerla... conoscerla alla perfezione, conoscere ogni riflesso dell'altro corpo, in tutti gli aspetti più segreti, ogni impulso dell'anima... forse conoscere equivale ad amare. Ma questa è solo una teoria. In fondo, che vuol dire conoscere? Fino a che punto si può conoscere qualcuno? Fino a dove si può seguire un'altra anima? Fino al sogno? E poi? Nella coscienza degli organi, non posso più seguirla. Non devo nemmeno aspettare che chiuda gli occhi e si congedi da me, ritirandosi in quell'altra dimensione, lo spazio della notte... poiché esistono due mondi, oltre le dimensioni conosciute nelle quali viviamo; e in quest'altro mondo viviamo forse in modo più reale di quanto non facciamo nello spazio e nel tempo... Ormai so bene che c'è un'altra dimensione, che è soltanto nostra, che appartiene individualmente a ogni essere umano... Anna è capace di allontanarsi da me anche in altra maniera. Anche di giorno. A volte solo con lo sguardo, mentre pranziamo, io le sto raccontando qualcosa... e di colpo mi accorgo che lei non c'è più. Allora la richiamo indietro. La richiamo energicamente. Penso di averne il diritto. Ho tutti i diritti di pensarlo. Anna ha stretto un patto con me. Non si possono più dettare condizioni, non si possono negoziare ulteriori patti. Naturalmente, dormiamo nella stessa stanza da letto. Sono io a volerlo, non sopporto le camere separate, io non ho bisogno di avventure, di spazi autonomi nel matrimonio, quel che serve sono semplicemente due letti e un comodino, come si vedono ancora nelle vetrine dei negozi di mobili di periferia. E, se possibile, un drappo ricamato con parole di benedizione e di augurio appeso alla parete sopra i letti. E Anna nel letto accanto. E, quando moriremo, Anna nella tomba accanto.

| << |  <  |