Copertina
Autore Walter Maraschini
Titolo Bravi in matematica
EdizioneBruno Mondadori, Roma, 2008, Container , pag. 186, ill., cop.fle., dim. 12,5x19x1,2 cm , Isbn 978-88-6159-234-6
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe scuola , matematica
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Indice


  1  Introduzione

  5  I. La mano sporca

  7     1. La mano dei numeri
 14     2. Le lettere
 24     3. Via Crocis
 34     4. Un ritratto
 46     5. Didattica e pratica trash
 57     6. Bravi in matematica

 71  II. La mente pulita

 73     7. Grafici
 93     8. Differenze e rapporti
104     9. Infiniti
120    10. Il caso
128    11. Geometrie
147    12. Il teorema di Gφdel

161 Indicazioni per approfondimenti
173 Note



 

 

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Pagina 17

D'altra parte, non è strano che si incontrino difficoltà nell'apprendere in pochi mesi le convenzioni simboliche per rappresentare operazioni, relazioni e oggetti matematici affermatisi nella storia lungo millenni, con molta lentezza e in modo non lineare. Il simbolismo della matematica non è infatti quell'aggregato di segni statico, eterno e immutabile quale appare oggi a chi lo studia, come se fosse stato creato una volta per tutte e tutto insieme.

Per quanto riguarda i numeri la vicenda è piuttosto nota: in modo indipendente, più culture nella storia hanno inventato diversi sistemi di scrittura e la definitiva vittoria del sistema posizionale decimale non è stata priva di ostacoli. L'introduzione in Europa di tale sistema, notevolmente più efficace di quello romano, soprattutto per quanto riguarda i calcoli e quindi i commerci, propugnata già attorno all'anno Mille da papa Silvestro II, il primo papa matematico e francese, ma con studi effettuati nella Spagna araba, si fa risalire in modo determinante, anche se non definitivo, a uno scritto di Leonardo Pisano (1170-1250), detto il Fibonacci perché figlio di tal Bonaccio.

Nel suo Liber abaci, dei primi anni del 1200, Fibonacci annuncia con solennità e stupore il fatto, per noi scontato, che con soltanto dieci simboli si possa scrivere qualunque numero. Così inizia infatti il suo libro: «I nove segni (in latino figurae) degli indiani sono questi: 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1. Con questi nove segni e con il segno 0, che gli arabi chiamano zefiro, si scrive qualunque numero, come si mostra qui di seguito».

Si può notare come lo zefiro, poi divenuto zero, il "venticello" derivante per omofonia dall'arabo sifr ("vuoto", da cui deriva anche "cifra"), sia trattato in disparte rispetto alle altre cifre. In effetti, è sull'invenzione dello zero, anomalo numero che indica la numerosità di un insieme privo di elementi, che si regge il sistema decimale: da una parte non indica "nulla", ma dall'altra parte, aggiunto alla destra di un numero, lo moltiplica per dieci. E ancora oggi lo zero, per le sue particolarità, ma anche per lo sgomento che provoca l'operare con qualcosa che assomiglia al nulla, è fonte inesauribile di errori, di sviste e incomprensioni per chi apprende la matematica.

Il sistema decimale posizionale, pur rendendo più facili i calcoli, era tuttavia il sistema degli infedeli e consegnava ai mercanti il predominio nei calcoli. Passarono molti secoli prima che se ne accettasse universalmente l'uso, tanto più che sembrava esposto a possibilità di facili truffe e falsificazioni; ancora oggi, del resto, ce ne si cautela ponendo negli assegni indicatori di fine e inizio numero, oppure ricorrendo alla doppia scrittura, in cifre e in lettere. Oppure, per evitare imbrogli, si ricorre a ridicole convenzioni come quella, ancora in uso nelle pagelle delle scuole italiane, di scrivere "sex" al posto di "sei"!

La storia dei simboli operativi e relazionali è ancora più intricata e, a differenza di quella della rappresentazione dei numeri, non è a oggi del tutto stabilizzata. Alcuni brevissimi cenni possono far comprendere il suo travaglio e anche l'assoluta arbitrarietà di alcune convenzioni consolidatesi nel tempo. Per esempio, soltanto a metà del XVI secolo fu introdotto uno dei simboli matematici più frequenti e più abusati, quello dell'uguaglianza (=): lo si deve al matematico inglese Robert Recorde (1510 ca.-1558) «perché», così egli scriveva, «non ci possono essere due cose più uguali di due rette parallele». Il segno + si sviluppa come abbreviazione stilizzata dal latino et, utilizzato per molto tempo per indicare l'addizione; il segno x della moltiplicazione proviene probabilmente dal simbolo dell'addizione, per rotazione dello stesso piombo, e dunque per economia, nelle prime stampe di lavori matematici. Ma ancora oggi, nel corso della stessa esperienza scolastica, il segno della moltiplicazione diventa improvvisamente un puntino, affinché si evitino confusioni al comparire delle prime x, che per ormai lunga tradizione indicano un'incognita. E poi, ancora, la moltiplicazione neppure viene più indicata in modo esplicito e, in algebra, è semplicemente suggerita, da René Descartes (1596-1650), detto Cartesio, in poi, dalla giustapposizione delle lettere, l'una dopo l'altra: così, la scrittura ab significa a x b. Ancora a Cartesio si deve l'abbreviazione della moltiplicazione di due o più lettere uguali ottenuta indicando a esponente il numero dei fattori da moltiplicare. E così facendo, grazie a una semplice e apparentemente innocua abbreviazione simbolica, è introdotta e definita una nuova operazione — l'elevazione a potenza — che nella matematica greca era limitata all'elevazione al quadrato e al cubo, perché soltanto delle operazioni con gli esponenti due e tre era possibile un'interpretazione geometrica.

Come nel caso delle potenze, la stenografia matematica non è mai neutra, ma nell'assumersi un enorme carico di informazioni porta naturalmente con sé vere e proprie novità concettuali, magari non previste all'inizio. Così, se per un verso le lettere delle espressioni algebriche stanno al posto di numeri, esprimono "semplici" generalizzazioni di calcoli con numeri e quindi con esse si opera con regole che non possono contraddire le regole operative dei numeri stessi, dall'altra parte, nel momento in cui si costruiscono oggetti nuovi, chiamati monomi e polinomi, questi si distaccano dalla loro origine relativamente concreta – il livello dei singoli numeri, appunto – e diventano oggetti autonomi, con proprie regole operative.

Ah, l'avessi capito allora!

Invece, senza rendermene conto, vivevo in un mondo che non era così coerente come pensavo. Si possono pagare la mancanza di tenerezza e la lontananza dagli affetti con l'acquisto di sicurezza e scioltezza di movimento in un mondo regolato; sì, questo prezzo sarei stato disposto a pagarlo se mi fosse stato presentato in modo onesto il conto. Invece, nel mondo matematico, che in quei primi anni di scuola superiore mi appariva inaspettatamente freddo e inespressivo, trovavo pure ambiguità e confusione, e questo mi stupiva dispiacendomi.

Le ambiguità formali non sono poche e costituiscono la radice di molti errori per chi compie la fatica di studiare matematica. Per esempio, nelle espressioni, a differenza che nella scrittura, il cui ordinamento lineare riproduce la linearità nel tempo del parlare, l'ordine di esecuzione delle operazioni non è determinato dall'ordine in cui sono scritte, ma dalle parentesi e, in subordine, dall'ordine predeterminato (potenze, moltiplicazioni, addizioni).

Nella semplice scrittura 1 + 2 x 3 la moltiplicazione, pur scritta dopo, va effettuata prima; ma non sono pochi gli studenti, usciti dalla scuola media, che sbagliano tale calcolo e non è facile convincerli quando lo stesso errore è commesso dalle calcolatrici non scientifiche da loro utilizzate, se il calcolo è impostato nell'ordine in cui è scritto.

Di fatto, anche la comprensione di un discorso o di un testo scritto richiede una rielaborazione che, per afferrarne la struttura logica ricombinando soggetti, predicati e oggetti, negazioni o subordinate, ne scardina l'ordinamento lineare; tuttavia, poiché tale processo è eseguito dalla mente in modo biologicamente naturale e inconsapevole fin dall'età in cui si abbandona l'infanzia, esso rimane come nascosto nella scatola nera della nostra testa e, se non ci si riflette, non ci si bada, è come se non avvenisse. Quando si parla, pure, i mille rivoli sotterranei delle idee e dei concetti sfociano naturalmente nel flusso continuo dei suoni delle parole.

Nelle espressioni aritmetiche e algebriche, anche le parentesi determinano ambiguità; non soltanto, rispetto ai linguaggi naturali, esse segnalano una precedenza e non un'informazione accessoria, ma, inoltre, sono spesso omesse e sostituite da altri segni convenzionali, come per esempio quando si usa una linea di frazione "lunga":

              a
            -----  =  a : (b+c)
             b+c

Il linguaggio semi-formale della matematica, che non è un linguaggio naturale, non si presenta quindi né come un linguaggio del tutto artificiale, quale un linguaggio di programmazione, né come un sistema perfetto di regole determinate e deterministiche, quali quelle del gioco degli scacchi. Esso, in quanto risultato di un'evoluzione storica in cui nuove regole e nuovi simbolismi si sono via via aggiunti ai precedenti, non sempre scalzandoli, certamente non ridonda e presenta regole ferree, giacché queste determinano comunque risultati univoci e non sopportano intonazioni, doppi sensi o ironie, ma delude se da esso ci si aspetta una placida e totale coerenza. Per esempio, le notazioni funzionali sono a volte prefisse, come nel segno di radice che precede l'operando nella seguente scrittura, in cui addirittura la lunga linea orizzontale del segno di radice sta per una parentesi:

              _____
            √ a+b

A volte invece, come nell'elevazione di un binomio al quadrato, il segno funzionale è suffisso (e qui la parentesi è indicata in modo esplicito):

            (a + b)²

A un'anima semplice, che chieda semplicità come sinonimo di rigore, questa incoerenza dà fastidio, come una mosca o una zanzara non previste nel mondo delle idee.

Ma poi, anche se tale mondo simbolico fosse sintatticamente perfetto, mai si potrebbe sfuggire del tutto alla inevitabile incapacità animale, e dunque anche umana, di separare del tutto le variabili e le componenti in gioco. Hai voglia a dire che le lettere sono soltanto segni! Esse rimangono simboli nella mente e lì mantengono strascichi di significati e valori che provengono da altri mondi interni, da ricordi, da percorsi preferenziali, da paure addirittura. Qualunque particolare segno s'aggancia a figure e scene della propria vita, sicché alcuni richiamano più facilmente schemi acquisiti, altri evocano qualcos'altro da sé. Anche nei compiti più strettamente esecutivi l'uomo non si comporta mai come una macchina algoritmica. Θ di meno e di più.

Θ esperienza comune il fatto che possano manifestarsi differenze nella capacità di manipolare formule strutturalmente identiche, ma espresse in forma diversa: risulta sempre più semplice, in ambito scolastico, risolvere un'equazione espressa in forma standard (con la x come incognita, per intenderci) piuttosto che con altri simboli e segni, magari rappresentanti grandezze fisiche reali.

Più spesso di quanto non si creda, non è sempre possibile evitare il cortocircuito tra la capacità di muoversi in un terreno formale, quale la matematica impone, e le evocazioni emotive, tra il terreno sintattico e la mozione verso i sensi e i nessi che la propria esperienza di vita propone; ammesso che sia lecito e possibile clonare l'uomo, dalla sua pasta non potrebbe essere eliminata la componente animale primitiva, e dunque gli errori logici, i pensieri magici, le incongruenze apparenti che ne fanno un essere spesso irritante per la sua "irrazionalità", ma tuttavia simpatico per questo stesso motivo, a ben guardare.

Certo, talvolta, quando la distinzione dei piani non viene tenuta ferma e il pensiero si fa debole, quando il cervello troppo dimentica, indulgendo a ricordare, si verificano vere e proprie catastrofi conoscitive, dirottamenti imbarazzanti, errori. Se questi non incidono profondamente sulla vita e si limitano a toccare episodi di scuola, la cosa, per fortuna, non ha altre conseguenze che la piccola vergogna di una gaffe, che si risolve in un arrossamento e in un sorriso. Niente di grave, se si reagisce con affetto e comprensione.

Fu così per una mia alunna di qualche anno fa. Risolvendo alla lavagna un esercizio assegnato come compito per casa, scrissi finalmente la soluzione di un'equazione di incognita x e parametro w:


            x = 2w

E leggendo dissi:

— Quindi ics è uguale a due vu doppio.

E lei commentò:

— E quindi è quattro vu!

Che dire di tale risposta, a suo modo geniale nel mischiare i piani del discorso?

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5. Didattica e pratica trash

«Eschilo, Eschilo, che qui si Sofocle! Attenti però, ché le scale sono Euripide!»

Attraverso questo gioco di parole si ricordavano, al liceo, i nomi dei tre autori tragici greci, così come la frase «ma con gran pena le reca giù» permetteva di elencare, alle elementari, le particolari Alpi, ordinate da Occidente a Oriente (Marittime, Cozie, ... Giulie). O, per tornare alla matematica, è d'uso ricordare la formula per calcolare il volume di una sfera attraverso il distico con rima:

            Il volume della sfera qual è?
            Quattro terzi pi greco erre tre!

Sono, questi, esempi di trucchi per ricordare, elementari mnemotecniche, basate la prima sulla "vivificazione" dei nomi attraverso l'immaginazione di una scena, la seconda su una specie di acronimo e la terza sul meccanismo della rima. Sono tecniche che non si usano soltanto a scuola: l'espressione "come quando fuori piove", insensata di per sé, ma tale che qualunque riordinamento delle sue quattro parole genera una sequenza scorretta o altamente improbabile, regola l'ordine del valore dei semi per le carte francesi.

Sono utili per imparare? Certamente aiutano a rammentare e giacché – come è noto – la memoria è ancella dell'intelligenza, le mnemotecniche, nel loro rimandare a una visione o a un'assonanza altra e più immediata, danno il loro scherzoso contributo all'apprendimento. In alcuni casi, soprattutto quando si formano accoppiamenti terminologici instabili, il loro ruolo di sostegno è apprezzabile: io, per esempio, ancora ricorro a un infantile "la suppa è nel piatto" per non confondermi tra angoli supplementari, che sommati danno un angolo appunto piatto, e angoli complementari, la cui somma è invece un angolo retto. Dopo tutto, è nella parola o nel simbolo, uniti alla trama in cui essi si collocano in modo immediato, la prima manifestazione dell'aver imparato.

Attraverso tecniche di questo genere, acronimi, accostamenti visionari o indovinate metafore, l'apprendimento di singoli tratti di una disciplina può essere reso più facile. Tuttavia, anche un solo tratto di una disciplina di studio non è equivalente a una di quelle procedure che poi vengono eseguite in modo irriflesso, come l'andare in bicicletta o guidare la macchina; apprendere qualcosa di una disciplina, cioè di un corpo di conoscenze che implica elaborazioni intellettuali, significa anche altro. Ogni disciplina è infatti un insieme di concetti legati da molte connessioni e nessun concetto, comunque sia definito verbalmente e qualunque sia la sua rappresentazione mentale, vive da solo, indipendentemente dalle connessioni con altri. Gli esiti positivi dell'apprendimento non si misurano perciò soltanto con l'acquisizione dei singoli contenuti, quanto con la capacità di porli in relazione tra loro; soltanto così essi si trasformano in effettive competenze e possono costituire conoscenze durature.

Per dirla in termini estremamente sintetici e riferendomi alla metafora del capitolo precedente – la matematica come mappa –, l'intricata rete simbolica e concettuale della disciplina, così come si è venuta storicamente configurando e organizzando, va ricostruita, nel modo più isomorfo possibile, nella mente di chi la studia. Dunque, non solo i termini e le regole, ma neppure soltanto i singoli concetti; questi infatti non vivono se non sono immersi a loro volta in un contesto, in una rete.

Per chiarire ulteriormente, ricorro a una figura matematica – a un concetto! – relativamente recente, quello di "frattale": un oggetto frattale è un oggetto che ricorsivamente, in formato ridotto, riproduce, tendenzialmente all'infinito, la sua forma in grande. Θ tale il cavolfiore, la cui forma globale è il risultato composito di piccoli cavolfiori, i quali a loro volta assumono ancora in miniatura la forma di piccolissimi cavolfiori; è tale ancora — esempio canonico — la linea costiera, che già su una mappa grossolana è fatta di insenature ad arco e di capi, in scala migliore è costituita ancora di archi e capi e, via via precisando, anche quando ne percorriamo, a piedi, su una spiaggia, un suo tratto minimo, ci accorgiamo che le onde, pur variando le particolari determinazioni delle forme in infiniti modi, continuano a disegnare con ostinazione minuscoli golfi delimitati tra capi.

Ebbene, se la disciplina è una rete di concetti, a sua volta ogni concetto è una rete di concetti: ogni disciplina, in sostanza, è un oggetto frattale, ogni concetto lo è, il sapere lo è. E qui sorgono tre questioni, che rendono di fatto impossibile il dominio "completo" di una disciplina, miracolosa la sua trasmissione a un livello socialmente soddisfacente, inevitabile che il processo della conoscenza non abbia un termine.

Non è soltanto a causa della specializzazione dei saperi che non può esistere il "matematico" assoluto — così come il "fisico" o lo "storico" assoluto —, ma anche perché, ammesso che esista una matematica assoluta, la rete dei concetti è così inestricabile e complessa che quando la si studia se ne recidono necessariamente rami e connessioni e quindi la si snatura. E se si potesse realizzare una conoscenza intima, cioè mistica, delle cose del mondo, essa sarebbe così totale e afasica — priva di parole cioè, perché ogni comunicazione deforma — che la stessa disciplina scomparirebbe, confondendosi col sistema io-mondo.

Ma ha del miracoloso, è sorprendente, anche il fatto che le persone, attraverso uno studio istituzionale, scolastico o universitario, oppure attraverso letture autodidatte, riescano ad apprendere e incorporare tratti significativi di una disciplina: il trasloco della matassa di concetti e procedure, con tutte le connessioni, dal mondo delle idee a quello dei neuroni del singolo soggetto avviene infatti attraverso un processo che è fondamentalmente lineare, quello dello scorrere delle parole nelle pagine di un libro o del fluire dei suoni della voce di un docente.

Infine, appare inevitabile che il processo della conoscenza non abbia un termine: ogni conoscenza oggettiva si incorpora infatti in un soggetto, il quale, essendo immerso in una realtà sociale storicamente determinata e vivendo in una dimensione psichica assolutamente individuale, connota quella conoscenza stessa, la modula. E così, mentre recide alcune relazioni, ne stabilisce altre. Anche i numeri naturali — l'oggetto astratto più elementare della matematica — hanno un colore nella testa di chi pensa, e questo anche nella testa di un matematico, la persona più educata a pensare in termini astratti e a isolare l'aspetto sintattico delle cose. Per chi poi non abbia ricevuto una tale formazione o non possieda una ferma disciplina di pensiero, le connotazioni legate all'esperienza e a quella forma di intelligenza che si forma nella vita, spesso efficace ma talvolta fallace perché intrisa di pensiero magico e di riflessi istintivi, le cadute cognitive sono in continuo agguato: ecco allora l'eterno gioco commerciale di fare prezzi con la cifra del nove — €99,95, perché d'istinto ricorda 90 e non 100 —, ecco numeri simpatici e numeri antipatici, fortunati e sfortunati, e addirittura corrispondenti a figure di sogni e da giocare al lotto.

Del resto chi attribuisce ai numeri un valore simbolico che sfocia nella magia ha buoni antenati, dal momento che proprio a Pitagora (VI-V sec. a.C.) e alla sua scuola si attribuisce, nella tradizione del pensiero greco classico, tale mistica dei numeri: per i pitagorici, per esempio, il numero 1 rappresenta l'intelletto e il numero 10 è particolarmente importante in quanto somma dei primi quattro numeri naturali (1 + 2 + 3 + 4), í quali a loro volta sono i simboli dei quattro elementi fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco.

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6. Bravi in matematica


Θ un lunedì di metà novembre e sono le otto e dieci. Prima ora: io sono già in aula, ancora solo, e guardo sconsolato l'aula priva di ogni cura d'arredo, una lavagna polverosa, una carta geografica vecchia e sbilenca, pareti e banchi pieni di scritte imbecilli, volgari o più spesso disperate, infissi che non chiudono bene, una cattedra su cui giacciono il registro di classe e tre monconi di gesso e i cui due cassetti, che non appartengono a nessuno, a mala pena riesco ad aprire: vi osservo antiche fotocopie, brandelli di giustificazioni o di appunti, polvere.

Nonostante tutto, però, sono di buon umore. Entrano le ragazze — soltanto due sono i maschi in questa prima di ventotto alunni —; si levano il giubbotto, aprono lo zaino, qualcuna va un attimo in bagno.

— Professore, posso? — esprimono l'esigenza e segnalano il fatto esibendo un fazzolettino di carta.

Nel giro di pochi minuti la classe è pronta per iniziare e oggi ci sono quasi tutti, due soli gli assenti. Nei primi due mesi ho rivisto con loro le proprietà di frazioni, numeri negativi e potenze e qua e là ho usato le lettere per fissare alcune formule e proprietà generali; oggi si tratta di iniziare sistematicamente il calcolo letterale, quest'algebra elementare doverosa, noiosa e che tende a essere onnivora dei tempi dell'insegnamento. Vorrei capissero bene il perché delle lettere prima ancora di tuffarmi nella sintassi del calcolo. Tento un approccio morbido e problematico.

— Buongiorno! — esordisco.

— Buongiorno!

— Bene, quando ci si incontra ci si stringe la mano, la mano destra. E un'antica usanza, un gesto d'amicizia e, chissà, forse viene dal mostrare che la mano è priva di armi, dimostrando così l'intento amichevole di chi fa questo gesto... Buongiorno Francesca! — e così dicendo porgo la mano a Francesca, seduta al primo banco, che timidamente me la stringe, continuando poi: — E ora salutatevi, stringendovi la mano.

Come nel "gesto di pace" che si fa nel corso della Messa, in modo disordinato i vicini di banco si stringono la mano.

— Bene, ora rifacciamo il gesto di pace soltanto io e Francesca: siamo due persone e c'è una sola stretta di mani. Se però vogliamo salutarci in tre, io, Francesca e Ilaria, quante strette di mano ci saranno?

— Tre! — dice d'istinto Saverio.

— Bene, tra tre persone ci sono quindi tre strette di mano — e così dicendo stringo la mano a Francesca e Ilaria e invito le due ragazze a fare altrettanto.

— Ora generalizziamo. Scrivete!

Detto il problema affinché lo scrivano:

— Enne persone si incontrano e ognuna stringe la mano a ogni altra. Quante strette di mano si verificano?

— Prof , — interviene Martina — ma quante so' 'ste persone?

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Anche se semplice, è stata buona matematica, perché ne ha fatto vivere alcuni momenti che la caratterizzano. E senza aver vissuto direttamente momenti del genere, che si possono trovare in opportune situazioni didattiche, ma anche risolvendo i Quesiti della Susi della Settimana enigmistica o leggendo direttamente una dimostrazione, è difficile che si realizzi una buona formazione matematica. In effetti, se non si è mai provato il senso profondo di una costruzione o di una procedura matematica, se non ci si è mai sentiti coinvolti ed emozionati almeno una volta — il godere di un Eureka! interno di cui è dotato geneticamente l'essere umano —, se non ci sono tali condizioni, l'aura di freddezza che circonda la scienza dei numeri e delle figure non può nemmeno intiepidirsi; si potranno imparare formule e strumenti, ma il loro precipitare nell'oblio sarà inevitabile e nel seguito rimarrà soltanto il ricordo di ostiche o noiose lezioni.

Tuttavia — come direbbe un matematico —, tali condizioni sono necessarie ma non sufficienti. Chi pensasse che l'apprendimento della matematica possa realizzarsi soltanto con belli, significativi, divertenti e intensi momenti di ricerca, di posizione e risoluzione di problemi, potrebbe fare bella figura a un convegno di didattica della matematica o a un seminario di formazione per insegnanti, aumentando peraltro la loro frustrazione nella quotidianità scolastica infarcita di normale svogliatezza studentesca e di reiterati errori o incomprensioni.

Non soltanto non è sufficiente raccontare la bellezza di un risultato per trasmetterne il godimento, magari esaltando con punti esclamativi, come accade in alcuni libri di testo o divulgativi, risultati che appaiono significativi e importanti soltanto a chi già ne è convinto. Al di là di singoli strumenti, formule e concetti che saranno dimenticati nel corso della vita, l'essere bravi in matematica richiede e significa l'acquisizione e la formazione di alcune sensibilità, che chiamerei protomatematiche; sensibilità nel senso proprio del termine, cioè capacità di registrare la variazione di un fenomeno.

E come esistono persone dalla diversa sensibilità emotiva, più o meno empatiche cioè, diversamente in grado di cogliere da uno sguardo, una parola o un gesto lo stato d'umore, l'imbarazzo o l'intenzione d'un altro, così possono esserci e formarsi diverse sensibilità, numeriche, geometriche o, più in generale, simboliche che permettono di percepire una regolarità, notare una simmetria, ricombinare una struttura, domandarsi un perché, azzardare un'ipotesi insolita.

Si parla di "intuizione", spesso, a proposito di tali veloci "doti", ma a me pare che tale termine sia fuorviante non tanto per il suo etimo, che rimanda una visione rapida – l' intueor – dell'essenza delle cose, quanto perché relega la capacità di vedere le cose e quindi, appunto, la capacità di registrare la variazione di un fenomeno in ambito matematico, la sensibilità perciò, a un dato di natura piuttosto che a una qualità che è possibile educare e formare. Infatti, come la sensibilità al colore si acquisisce e si affina vivendo in un luogo più colorato e luminoso, in un paese mediterraneo o a Tahiti addirittura anziché in Pomerania, o la sensibilità al bianco dell'eschimese si forma vivendo in un mondo in cui è importante riconoscere le diverse tonalità del bianco perché il bianco dell'orso va distinto da quello della neve, così le sensibilità protomatematiche si acquisiscono vivendo molte esperienze – e quanto più precoci tanto meglio è – con giochi, fatti e problemi che necessitino un lavoro d'astrazione e ricombinazione. Tali esperienze che aumentano la sensibilità non possono però consolidarsi e crescere se al contempo non si tramutano in procedure, automatismi e concetti che si fissano in parole, segni che si fanno simboli. In altre parole, le significative esperienze vanno accompagnate da rigorosi percorsi istruttivi.

Affinché non rimangano ingenue e crescano di profondità e livello, le esperienze che formano intuizioni devono però diventare fatti linguistici, così come la sensibilità al bianco degli eschimesi si cristallizza nella dozzina di parole con cui lo designano. Θ il linguaggio infatti che categorizza i concetti, ordina, distingue e sintetizza, permettendo così che si cresca intellettivamente. Esiste però una differenza significativa: il linguaggio naturale orale – come le parole per il bianco – si forma in modo spontaneo là dove e con chi si vive; il linguaggio matematico, sia quello che utilizza termini d'uso comune modificandone però il significato sia il linguaggio simbolico dei calcoli e delle formule, non appartiene al contesto comunicativo quotidiano. Ciò che è naturale è la predisposizione all'apprendimento (di cui fa parte l' Eureka), non la sua realizzazione nelle forme elaborate culturalmente, di cui la matematica fa parte.

Appaiono dunque fuorvianti alcune idee "spontaneiste" da sempre presenti nella discussione su quale sia il modo migliore per imparare la matematica o, più in generale, su quali siano le forme di ragionamento corrette. Così, lo schiavo ignorante del dialogo platonico Menone è in grado di trovare il quadrato di area doppia di quello dato perché ben interrogato da Socrate, secondo un processo di reminiscenza anziché di insegnamento. Anche in Jean Piaget (1896-1980), che molto ha influenzato le ricerche sull'apprendimento, affiora l'idea che le strutture logiche del pensiero sorgano spontaneamente e in modo corretto, con una loro gradazione d'età. Con le migliori intenzioni, in base a un pregiudizio positivo sulla natura umana, anche la migliore didattica ha in qualche modo avvalorato l'idea che le cose nascano da sé, certo non così ingenuamente, ma attraverso la creazione di opportunità, di laboratori, attraverso un fare artigianale, una dialettica o una manipolazione di macchine, materiali o particolari software.

L'apprendimento di una disciplina quale la matematica non ha molto a che vedere con l'apprendimento del linguaggio da parte di un bambino, così naturale e così esplosivo nell'arco di un periodo brevissimo, perché costituisce una forzatura culturale, che richiede una sintassi artificiale e va dunque insegnata e studiata. Si diventa bravi in matematica attraverso la difficile pratica di una combinazione di due aspetti: la sollecitazione di esperienze che aumentino la sensibilità e la predisposizione di rigorosi percorsi istruttivi.

Tale combinazione, che ha del rigoroso quando la si progetta e la si mette in atto, non implica naturalmente rigidezza e lontananza: anzi, come ho detto in precedenza, ogni persona, anche quando studia la disciplina più astratta che c'è, è un sistema integrato di ragione, emozione e motivazione: sano o non sano che sia, è mens in corpore. Se è il caso perciò, le tecniche di didattica-spazzatura possono condire e colorire il lato istruttivo, rendendolo più efficace, perché avvicinano un concetto, senza snaturarlo, all'universo della persona. La "lettura con sentimento" delle espressioni, di cui ho parlato nel capitolo precedente, non snatura l'apprendimento della logica della scrittura formale algebrica, ma aiuta a impossessarsene; di per sé, tuttavia, non rappresenta un momento di ricerca o laboratoriale. Θ un gioco, ma con precise finalità istruttive, giacché più sensi vengono coinvolti e la connotazione emotiva che la modulazione della voce fornisce alla sintassi dell'espressione ne favorisce l'apprendimento.

Inoltre, la qualità di essere bravi in matematica non si identifica né con le capacità di calcolo né con il portarsi dietro per la vita la formula per risolvere un'equazione di secondo grado o la definizione del limite di una funzione.

Attiene invece, principalmente, al mantenere svegli la curiosità e il gusto per il regolare come per l'inconsueto; attiene al mantenere, e se possibile rafforzare strumenti e metodi efficaci per leggere la realtà, per ragionarne, per non essere imbrigliati da imbroglioni: dal calcolare mentalmente uno sconto percentuale o gli effetti di lungo periodo di un tasso usuraio, al leggere l'andamento di un fenomeno attraverso un grafico fino a capire – per arrivare ai casi più eclatanti di ignoranza e stupidità – che i numeri del lotto non "sanno" di essere in ritardo, non si affrettano per uscire, in ogni estrazione hanno uguale probabilità e, soprattutto, non possono essere divinati da qualche nottambulo mago televisivo.

Riguarda anche, però, la conoscenza, sia pure per grandi linee, di problemi e questioni sui quali la ricerca matematica ha messo dei punti fermi e la consapevolezza che alcuni grandi temi culturali – l'infinito, il rapporto tra casualità e causalità, la parzialità e la fondatezza del nostro ragionare ecc. – non possono essere affrontati senza almeno "annusare" il contributo di chiarezza e definizione che a essi la componente matematica del sapere umano, nel suo complesso, ha dato.

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