Copertina
Autore Roberto Marchesini
CoautoreSabrina Tonutti
Titolo Manuale di zooantropologia
EdizioneMeltemi, Roma, 2007, meltemi.edu 85 , pag. 264, cop.fle., dim. 12x19x1,7 cm , Isbn 978-88-8353-570-3
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe antropologia , evoluzione , natura-cultura , filosofia , epistemologia
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Indice


    Parte prima
    La cultura come dispositivo di differenziazione di
    uomini e animali
    Sabrina Tonutti

  9 Capitolo primo
    Le radici umanistiche del concetto di cultura

 23 Capitolo secondo
    Alle origini del concetto antropologico di cultura

 57 Capitolo terzo
    Riflessioni epistemologiche

 79 Capitolo quarto
    Ponti coniugativi con l'alterità


    Parte seconda
    I principi teorici della zooantropologia
    Roberto Marchesini

 89 Capitolo quinto
    Sulla natura umana

123 Capitolo sesto
    L'animalità come artificio

153 Capitolo settimo
    Il declino del paradigma umanistico

169 Capitolo ottavo
    Le teorie zooantropologiche


    Parte terza
    Strumenti e ambiti applicativi della zooantropologia
    Roberto Marchesini

195 Capitolo nono
    Principi e strumenti della zooantropologia

225 Capitolo decimo
    La zooantropologia applicata


253 Bibliografia


 

 

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Pagina 9

Capitolo primo

Le radici umanistiche del concetto di cultura


Natura-cultura-uomo-animale: questi concetti e la loro relazione reciproca saranno il focus della riflessione che affronteremo nei prossimi paragrafi, in una prospettiva di analisi antropologica ed epistemologica.

Questa coppia di binomi si colloca nel cuore della ricerca antropologica, alle radici dello sforzo di comprensione della cultura umana, dove il fenomeno cultura sfugge a ogni tentativo di definizione se non associato agli altri tre concetti, e dove la comparazione fra culture e specie è strumento indispensabile per un corretto approccio all'argomento.

Allo stesso tempo, la peculiarità dell'oggetto di ricerca, che riflette sul dominio effettivo di validità dei suddetti concetti antropologici e sui paradigmi della disciplina, richiede che le categorie di pensiero dell'osservatore siano passate al vaglio di una riflessione meta-antropologica.

Come vedremo, i concetti di "naturale", "innato", "umanità" ecc. rappresentano delle premesse sia all'interno del discorso antropologico, che anche, più in generale, nel nostro sistema culturale.

Inoltre, emergerà, fin dalle prime osservazioni sul nostro apparato concettuale, una marcata tendenza a enfatizzare gli elementi di discontinuità e separazione fra il dominio – culturale – dell'uomo e quello – naturale – degli animali.

Questa riflessione, pertanto, si focalizza pure su alcuni aspetti del rapporto uomo-animale (centrali nella ricerca zooantropologica), nella misura in cui si occupa delle proiezioni dell'uomo nei confronti dell'animalità e della rappresentazione di somiglianze e diversità all'interno di una cornice concettuale in radice dualista e antropocentrata.

Il binomio uomo-animale, infatti, riassume ed esplicita una serie di polarità oppositive che contrappongono una schiera di opposti: natura e cultura, mente e corpo, organico e inorganico (o superorganico), istinto e apprendimento, e così via.


1. Uomini, animali, natura, cultura

Nella visione antropologica del rapporto natura/cultura, esiste una sovrapponibilità di tale binomio con quello di animale/uomo.

Sotto un certo aspetto, il rapporto fra questi due binomi è metonimico: da un lato, l'animale sta per la natura, ne riassume "l'essenza", è natura, così come, dall'altro, l'uomo è per antonomasia cultura. Il procedimento che rende valida la relazione metonimica fra i termini dei binomi avviene per un processo di riduzione, semplificazione e selezione.

Più in generale, la coincidenza dei termini dei binomi citati ha luogo in virtù di un atteggiamento e di una tendenza – che possiamo definire essenzialisti – che schiacciano l'animale in un angolo prospettico riduttivo e angusto, oscurato da ogni possibilità di illuminazione culturale, e, per contrasto, eleggono il repertorio di comportamenti umani a modello paradigmatico di ogni manifestazione appresa, comunicata, condivisa, cioè culturale.

Come verificheremo tra breve, tale concezione tende a porsi in antropologia come presupposto, come condizione preliminare non verificata alla luce di un confronto con discipline limitrofe (almeno etologia, biologia, paleoantropologia). Sulla scorta, invece, di tali altri contenuti scientifici, sorprende leggere ancora della cultura come caratteristica esclusiva degli esseri umani, tale da rendere questi ultimi unici fra le creature viventi.

Le coordinate concettuali e gli orientamenti interpretativi che soggiacciono a dichiarazioni di tale tenore rappresentano qui il nostro campo di discussione: ci occuperemo del dibattito, ancora oggi attuale, sulla cultura come concetto che designa in via esclusiva l'elemento propriamente umano, in maniera contrastiva e distintiva rispetto alla dimensione del comportamento animale.

Ma prima di affrontare l'analisi delle tendenze appena accennate, procederemo con una ricostruzione critica della stratificazione di significato che i concetti di cultura e natura, con il corollario delle rispettive connotazioni, hanno via via assunto in ambito umanistico e antropologico; ciò sarà a sua volta preceduto da una chiosa introduttiva sulla presenza degli animali nei resoconti e nelle teorie antropologiche.


2. Animali e antropologia

L'antropologia ci insegna, assieme ad altre discipline, come le culture umane siano tutte, in misure e modi differenti, debitrici nei confronti di quell'eterogenea e variegata porzione del mondo animale con cui sono venute a contatto (dalla semplice interazione fino alla relazione referenziale); come vedremo più avanti, la zooantropologia, sulla scorta dello studio etologico della relazione uomo-animale va a individuare funzioni e dimensioni della zootropia, ossia della risposta relazionale suscitata nell'uomo dall'appeal animale, si occupa delle caratteristiche strutturali della partnership uomo-animale, oltre che dello studio delle tipologie in cui si declina tale relazione interspecifica. Per far questo, si avvale del contributo dell'antropologia, di quel ricchissimo patrimonio di ricerche che, ora in via privilegiata, ora a margine, consegnano al lettore la descrizione di animali, reali o virtuali presenze nella sfera d'azione di pensiero umano.

In realtà, molti resoconti etnografici risultano deficitari nel descrivere gli ambiti di interazione-relazione fra uomini e animali (a fronte invece di un altissimo grado di "frequentazioni" animali, sia fattuali che immaginifiche, sia relazionali che utilitaristiche, in tutti i contesti culturali), e alcuni di questi saggi, se riletti in quest'ottica, ci consegnano una visione quasi desertificata della presenza animale. Ma, allo stesso tempo, l'antropologia si è a lungo soffermata su alcuni ambiti di interazione-relazione fra uomini e animali: argomenti d'elezione risultano essere, fra gli altri, il totemismo, dai primi studi antropologici fino alla "disillusione" operata da Lévi-Strauss, la simbologia zoomorfa del pensiero magico-religioso, nelle sue molteplici versioni (fra cui zoomanzia, ierofanie naturali, sciamanismo ecc.), il sacrificio, i tabù alimentari e così via.

In altri termini, possiamo riferirci per comodità a quattro tipologie di inclusione degli animali nel discorso antropologico:

1) la prima categoria riguarda l'animale-risorsa, oggetto delle attività umane: fra gli studiosi che hanno dedicato attenzione a questo aspetto ricordiamo sicuramente Malinowski (1948) e la celebre interpretazione utilitaristica del totemismo animale (gli animali diventano totemici perché sono "buoni da mangiare", cioè utili), i materialisti culturali Roy Rappaport – che analizzò il ruolo dei maiali presso la popolazione maring della Nuova Guinea (1967) – e Marvin Harris (1977; 1987), per il quale la presenza degli animali nella vita dell'uomo va valutata attraverso un calcolo di costi/benefici e nell'ottica della massimizzazione dei profitti;

2) ma gli animali compaiono nelle culture umane anche come segni, simboli, operatori sistemici: ci riferiamo alla categoria dell'animale segnico, a quella moltitudine di figure animali che vengono descritte in antropologia per la loro rilevanza dal punto di vista delle rappresentazioni cognitivo-simboliche dell'uomo. Emblematico, a questo proposito, il contributo di Lévi-Strauss (1962a; 1962b) – assieme anche a Leach (1964) e Tambiah (1969) –, che sottolinea, diversamente da Malinowski, come l'animale sia prima di tutto "buono da pensare"; all'interno di questa categoria, facciamo rientrare anche le speculazioni antropologiche attorno al rapporto fra organizzazioni sociali umane e presenza di alcune specie animali (nel contesto sociale e/o nell'immaginario): ci riferiamo, per fare qualche nome, al resoconto di Evans-Pritchard sui costumi "bovini" dei nuer (1940), allo studio dei galli di Bali di Geertz (1973), all'analisi di Ewers (1955) del ruolo del cavallo presso gli indiani blackfoot, oltre al già menzionato studio sul totemismo di Lévi-Strauss;

3) più esigua appare la schiera di animali reali, di quei partner di relazione che, nel ruolo ora di protagonisti, ora di comparse, calcano lo stesso palcoscenico dell'uomo: per fare qualche esempio, ricordiamo le descrizioni di Lévi-Strauss (1948) e di Philippe Descola (1986; 1994) della relazione intrattenuta con i pet da alcune popolazioni amazzoniche;

4) infine, gli animali compaiono spesso nel discorso antropo-bio-logico come personificazione dell'istinto, della corporeità, di un remoto passato evolutivo (o di una entità antitetica) dell'uomo: l'argomento che verrà affrontato in questo saggio.


3. Metafore

La descrizione analitica e la rappresentazione del posto dell'uomo nella natura, delle relazioni che, tra somiglianze e differenze, analogie e omologie, lo collegano a questo contesto e alle altre specie animali vivono imbrigliati in una rete di metafore: leggiamo negli scritti antropologici, e nell'ambito delle scienze umane in genere, della cultura come "rete" o "ragnatela" di significati, dell'umanità come "isola", dello scarto fra natura animale e cultura umana come "Rubicone" e, ancora, dell'uomo come "vuoto contenitore" riempito dalla cultura.

Dall'altro versante, una metafora meccanicistica permane come connotazione forte degli animali, interpretati ancora, implicitamente o esplicitamente, come automata, come organismi governati dalle implacabili leggi dell'istinto, nonché "specchio oscuro" di ciò che l'uomo non vuole essere, in una sorta di discorso zoologico funzionale a quel tipo di processo antropopoietico che è stato definito "antropologia denigratoria" (Remotti 1997).

Tali immagini cristallizano e sottolineano elementi consolidati del nostro immaginario anche scientifico; in primis la visione dualistica che dicotomizza la realtà in entità separate, natura e cultura, e crea, a partire dall'istituzione di tali domini ontologici, un indice classificatorio che si articola in coppie di opposti: uomo/animale, mente/corpo, soggetto/oggetto, individuo/gruppo.

In questo quadro di relazioni, la cultura costituisce un luogo di differenziazione radicale fra uomo e animale, differenziazione che si rifrange e si reitera, con incremento di connotazioni, nella serie di opposizioni appena citate.

Nella contrapposizione di natura e cultura l'animale "sta per" la natura, e la cultura, nella sua doppia accezione, umanistica e antropologica, sarebbe una caratteristica essenziale nonché esclusiva della specie umana.

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Pagina 57

Capitolo terzo

Riflessioni epistemologiche


1. Essenzialismo: natura (e ambiente) e cultura

"Nella sua elaborata versione di visione del mondo, l'essenzialismo è la metafisica di Aristotele. Nella sua versione mondana è il senso comune", scrive Fuchs (2001, p. 12).

L'essenzialismo (che trova esempi storici in ideologie totalizzanti come il nazionalismo e il determinismo biologico) corrisponde a un processo di riduzione in cui agiscono insieme selezione, semplificazione e reificazione e il cui segno distintivo è la soppressione della temporalità, da cui consegue l'attribuzione di una primordiale ontologia a contingenti prodotti storici dell'attività umana o di altre attività.

Per quanto riguarda l'argomento qui affrontato, è la prospettiva essenzialista a reificare e trasformare in essenze concetti e categorie del pensiero quali cultura, natura, animalità, umanità, femminile, maschile ecc.

Come segnala Michael Herzfeld (1996, p. 189), molti casi di essenzialismo (fra cui quello di genere) radicano la loro origine in quei dibattiti centrali dell'antropologia che sono stati forgiati durante l'emergere dell'evoluzionismo e che prendono avvio dalla discussione sulle relazioni fra cultura (scienze umane) e natura (biologia).

È necessario ricordare, infatti, che il processo di riduzione attivato con l'essenzialismo coinvolge le discipline in una separazione radicale e oppositiva di ambiti: da un lato le sceinze sociali e le discipline umanistiche (che hanno a che fare con l'uomo e i suoi prodotti), dall'altro le scienze biologiche (che si occupano del "naturale" che sta attorno all'uomo e nell'uomo, come scomoda presenza residuale di animalità). Ma questa non è che una "vecchia e stanca distinzione" (Fuchs 2001) che non apporta più alcun aiuto: essa rimane vincolata alla contemplazione di essenze, un procedimento autoriferito e dal sapore metafisico che non rende conto e non tiene conto della variabilità che la realtà costantemente ci pone sotto gli occhi.

E sarebbe proprio dalla soppressione della variazione che, secondo Fuchs, verrebbero alimentati quei "pseudomisteri" ("la realtà delle persone", "l'essenza della mente" ecc.) che ingessano molte delle scienze sociali in un approccio essenzialista; le scienze tutte dovrebbero al contrario liberarsi dai vincoli del senso comune e selezionare premesse più controintuitive, per non produrre ridondanti repliche di un sapere già acquisito.

Per ciò che riguarda la cultura, il primo passo del processo essenzialista è l'invenzione della parte innata o "naturale" del nostro mondo concettuale, dopodiché l'azione creativa viene celata dietro la presupposta "realtà" e "necessità" delle stesse entità frutto di invenzione, e facendo ciò si rafforza la distinzione ideologica fra "naturale" e "artificiale-culturale" (Wagner 1975, p. 146). Tale operazione reca con sé la dogmatica accettazione che analogie arbitrarie, divisioni e categorizzazioni che proiettiamo sul mondo fenomenico come "naturali" e "reali" siano innate e che gli siano proprie. Le categorizzazioni che creiamo (animalità, umanità, naturale, culturale) sembrano risultare, attraverso questa operazione, "cose" auto-evidenti, piuttosto che categorie (cioè strumenti) attraverso le quali rappresentiamo la realtà (ib.).

Illuminante, a questo proposito, la riflessione condotta da Ugo Fabietti (1995, pp. 62 sgg.) sull'uso costitutivo o regolativo degli "attrezzi da lavoro" dell'antropologo: alcuni concetti, categorie e confini che rientrano in un uso costante, in riferimento a noi stessi e alla realtà che ci circonda, sembrano rinviare a realtà oggettive, di ordine "naturale", appunto, mentre, al contrario, sono di ordine "culturale". Tali nozioni sono infatti definizioni di sé (o dell'altro) che non corrispondono a realtà oggettive, fisse e facilmente circoscrivibili, come ci lascia intendere l'uso costitutivo che ne facciamo. Pertanto, dovremmo riservare loro un uso "regolativo" (che corrisponde all'espressione "come se") anziché "costitutivo" (che corrisponde all'espressione "è").

Il rischio, in caso contrario, è di elicitare determinate categorie cognitive e costruirvi dominii e paradigmatiche barriere connotate da "naturalità" e "necessità", nonché mascherate da certezza scientifica.

Francesco Remotti parla inoltre di "sacralizzazione disciplinare" di taluni concetti, qualora questi vengano sottratti alla sfera di esercizio del dubbio e ne venga negato il "carattere sociale" (1992, p. 652): anche alle basi della disciplina antropologica trovano collocazione alcuni presupposti che, come tali, tendono a restare esclusi da eventuali processi di rinegoziazione e ridefinizione, e uno di questi è la nozione di separazione fra la cultura umana e il resto del mondo vivente (Carrithers 1996).

Tale separazione ne genera un'altra: parte di ciò che l'uomo è, e cioè il suo apparato corporeo, la sua componente biologica, ricade al di là della linea immaginaria, in un ambito di interesse coperto dalle discipline biologiche. In una siffatta rappresentazione dualistica, quella sponda è occupata dagli altri animali; al di qua della linea, invece, risiede tutto ciò che riteniamo capace di apprendimento, di uso del linguaggio e di simboli, che sta al di sopra della biologia e che riteniamo appartenga alla sfera di un'unica specie – l' Homo sapiens – in via esclusiva.

Il concetto di cultura è stato quindi espresso, rappresentato, schematizzato in maniera contrastiva nei termini di una opposizione al concetto di natura. Ritroviamo in questo l'impronta della scuola boasiana di cui si è appena parlato: successivamente, per gli antropologi che si concentrarono su uno dei termini del binomio, cioè la cultura, quest'ultima diventò, secondo Michael Carrithers, "un presupposto non sottoposto a verifica o perfino dogmatico, una caratteristica della realtà non messa in discussione" (1996, p. 394).

L'ipotesi di Claude Lévi-Strauss secondo la quale tale dualismo sarebbe, oltre che frutto dell'antropologia culturale, un dispositivo cognitivo transculturale e che la distinzione uomo/animali ruoterebbe proprio attorno alla capacità di istituire una siffatta distinzione non ha trovato molti seguaci. Kuper definisce questa tesi un'illusione etnocentrica occidentale (1999b, p. 145).

Ma, nondimeno, lo spartiacque dualistico si è replicato in altri contesti, generando altre divisioni, collocando altrove la linea di confine fra natura e cultura: un esempio emblematico è la distinzione di genere.

Tali separazioni contrastive sono sì d'effetto, ma, come ci ricorda Carrithers, ricorrono in, e sono prodotte da, alcune culture soltanto e in periodo storico definito: esse non sono universali come potrebbero sembrare. Inoltre, anche se risultassero essere universali, si tratterebbe comunque di dispositivi categoriali e non di realtà ontologiche.

La cornice concettuale dualista che sta alla base delle nostre riflessioni su natura e cultura nell'uomo e negli altri animali se, da un lato, costituisce una focale che ci permette di osservare i dettagli della cultura umana, specializzando il nostro sguardo su contesti circoscritti, dall'altro "ha dato vita a una dicotomia infondata da un punto di vista ontologico" (Marchesini 2002, p. 9).

È avvenuto cioè uno slittamento, per cui uno strumento euristico è stato trasformato in una entità ontologica, e pertanto ignorare tale sostituzione può risultare fuorviante nell'investigazione di quelle tematiche "di confine" della cultura che si trovano ai fondamenti della disciplina antropologica.

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Capitolo quinto

Sulla natura umana


Quando si valuta la definizione dei predicati umani e, di conseguenza, il processo di acquisizione degli stessi (antropo-poiesi), ovvero si cercano di individuare le coordinate su cui si estende l'orizzonte dell'umano, un punto focale riguarda il rapporto tra le caratteristiche biologiche, retaggio del processo filogenetico della nostra specie, e quelle culturali. Questa relazione tra caratteri di retaggio evoluzionistico e caratteri di tradizione culturale, stigmatizzata nel binomio natura-cultura, mostra a prima vista una perspicuità difficilmente discutibile quantunque la dicotomia in sé sia sempre più rigettata nel suo valore categoriale e separativo. Non vi è dubbio comunque che sia impossibile comprendere la dimensione umana prescindendo dalla caratterizzazione culturale, com'è ovviamente impensabile disincarnare l'uomo e trascendere dalla sua identità biologica e filogenetica.

La questione del farsi umano rimane un problema aperto per quanto concerne diversi ordini di quesiti, per esempio: a) che tipo di rapporto sussiste tra i caratteri di retaggio filogenetico e la dimensione culturale, ossia dobbiamo intenderlo come espressivo, implicativo, contingente o altro; b) come interpretare la specificazione biologica dell'uomo, ovvero che peso attribuire all'esplicazione adattativa, nel senso di natura pregnante o carente; c) che piano di spiegazione dare all'emergenza dell'evento culturale e ai diversi profili culturali, per esempio ritenerlo un evento autarchico oppure relazionale. Rispondere a queste domande ha sempre significato definire l'alveo predicativo dell'idea di humanitas, vale a dire: a) circoscrivere il profilo identitario (l'umano) sulla base di un'operazione di confronto con delle alterità (l'animale), impostando la riconoscibilità categoriale dei due bacini; b) individuare un processo antropo-poietico e degli attori specifici di tale evento ossia attribuire delle cause inerenti all'antropo-poiesi partendo dalle caratteristiche del retaggio filogenetico dell'uomo. Come vedremo lo sviluppo di queste direttrici trascina inevitabilmente con sé dei nodi di discussione e parimenti produce interpretazioni che hanno un valore assai meno evidente rispetto al concetto di una dimensione umana radicata nella filogenesi ma ontologicamente proiettata nel milieu culturale. La tradizione antropologica, forse proprio a ragione del suo statuto disciplinare, pur nella molteplicità delle proposte delle diverse scuole di pensiero, ci ha consegnato un'emergenza dell'umano, nel suo profilo di predicati ("a") e nella processualità antropo-poietica ("b"), a forte connotazione disgiuntiva, tutt'altro che diretta e implicita nella relazione natura-cultura. Avvicinare l'uomo alle altre specie ha sempre avuto un tratto di forte problematicità nelle due direttrici: 1) riconoscere delle analogie o contiguità nel profilo identitario tra l'uomo e le altre specie; 2) riconoscere dei prestiti degli eterospecifici a fondamento del processo antropo-poietico.

Secondo la zooantropologia per comprendere i predicati umani e il processo antropo-poietico è indispensabile rivisitare il nostro rapporto con gli animali mettendo in discussione l'impostazione dicotomico-disgiuntiva che sta alla base del paradigma tradizionale con cui si affronta il problema dell'identità umana. Questo non significa ripercorrere le strade del riduzionismo biologico ma di ammettere l'inconsistenza delle pretese di discrezione tra umano e non umano, vale a dire: 1) "la pretesa distintiva" ovvero l'idea che la cultura sia un carattere esclusivo dell'essere umano e che quindi la dimensione culturale sia ciò che caratterizza l'essere umano rispetto alle alterità animali ovvero che la dicotomia uomo-animale preceda il processo di assunzione dei predicati umani; 2) "la pretesa autarchica" ossia l'idea che il processo antropo-poietico sia un evento che si compie in autosufficienza e possa considerarsi implicito nel suo complesso rispetto alle caratteristiche (di pregnanza o di carenza) del retaggio filogenetico, tale per cui sia possibile esplicare l'umano partendo dall'uomo; 3) "la pretesa separativa" ossia l'idea che l'assumere i predicati umani, ovvero il compiersi del processo antropo-poietico, allontani l'uomo dalle alterità non-umane e realizzi l'obiettivo antropocentrico. L'impostazione zooantropologica infatti ribalta queste concezioni, ma non in nome di un riduzionismo biologico o di una semplice ricognizione etologica dell'antropo-poiesi, bensì attraverso una diversa lettura del farsi umano quale processo di ibridazione con le alterità non umane e come direttrice di antropo-decentrismo. Secondo la lettura zooantropologica la cultura non ha una radice distintiva (uomo vs altri animali), non ha un valore disgiuntivo (identità vs alterità), non ha un esito separativo (umano vs non-umano), quindi vengono rifiutate le tre pretese sopraesposte rispetto alla denotazione dei predicati.

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1. Pluralità ontica e antropo-poiesi

Se volgiamo l'attenzione alle diverse specie animali ci accorgiamo subito che ogni definizione categoriale, che voglia sussumere i diversi caratteri in un profilo, non è altro che un'attribuzione arbitraria e antropocentrica. Non esiste una categoria animale capace di fare da contraltare alla dimensione umana, bensì una collezione di specie ciascuna dotata di peculiarità, in ordine di prossimità filogenetica. I caratteri di bestialità, di condizione animale, di teriomorfismo rappresentano quindi un'invenzione dell'uomo, un artefatto finalizzato a edificare una controparte riconoscibile, ancorché dal profilo estremamente vago e perciò duttile a essere declinato in diversi modi e per altrettanti fini. Le diverse specie danno luogo a un cespuglio di prospettive di vita che reciprocamente presentano somiglianze e differenze, con specie prossime sotto il profilo della parentela comune (omologie) e specie simili per convergenza adattativa (analogie). Riferirsi alla natura umana focalizzandosi in modo ossessivo su qualità oppositive rispetto a un generico concetto di "animalità" tradisce solo il bisogno antropocentrico di pensarsi come entità speciale e non come frutto evoluzionistico dotato di somiglianze omologiche e analogiche con altre specie, somiglianze e continuità che stanno alla base della costituzione delle peculiarità umane e non si oppongono affatto alla realizzazione dei predicati umani.

Il pregiudizio categoriale getta pesanti ipoteche circa la capacità di comprendere il retaggio biologico dell'uomo e il suo rapporto con il processo di antropo-poiesi: questo è il primo scoglio che la zooantropologia intende superare. La maggiore difficoltà riguarda la capacità di leggere i caratteri di retaggio dell'uomo all'interno di un preciso alveo filogenetico, quello dei primati, molto caratteristico in sé e dotato di requisiti fondamentali per l'emergenza di quelli che consideriamo predicati umani. La visione oppositiva, che come vedremo è figlia della lettura umanistica del profilo umano, conduce inevitabilmente a mistificare il portato fondativo dei predicati umani operato dai cosiddetti caratteri naturali o, meglio, da quelle disposizioni comportamentali che accomunano tutti i primati. Alcune qualità che solitamente vengono attribuite soltanto all'uomo – quali: la compassione, la solidarietà, l'ingegno, la creatività, l'amore materno – in realtà non solo sono presenti in modo consistente nelle altre specie di primati ma hanno fatto la loro comparsa sulla Terra molto prima che l'uomo si evolvesse. È pertanto un controsenso ritenere il retaggio filogenetico, ossia i tratti di continuità e di comunione con gli altri primati, come contrastativo, penalizzante, ostativo il processo antropo-poietico. Per realizzare l'umano non bisogna lottare contro la natura dell'uomo, nel suo significato di retaggio filogenetico, vale a dire uccidere o mortificare la cosiddetta parte scimmiesca che c'è in noi, bensì darle una dimensione di compimento. Guardare ai primati come a una sponda degradata o a un risibile tentativo di approssimarsi all'uomo dimostra solo il nostro errore prospettico. L'impostazione darwiniana ci ha dato gli strumenti per leggere la nostra relazione con il vivente in modo non antropocentrico, valorizzando il portato e il significato della diversità adattativa e parimenti costruendo un ponte di continuità nella strutturazione dei predicati. Questo è il punto di svolta: al contrario di quanto l'umanismo ha rimarcato, l'uomo deve proprio al retaggio filogenetico la potenzialità di dar luogo ai predicati culturali. E in particolare lo deve all'appartenenza all'ordine dei primati, animali che hanno sviluppato una tale duttilità di configurazione comportamentale e una tale apertura al mondo, ovvero a contributi esterni, da rendere percorribile la strada dell'antropo-poiesi. In altre parole ciò che ci accomuna agli altri primati – per esempio la tendenza a esternalizzare molte attività avvalendosi di strumenti, la complessa struttura sociale, la lunga età evolutiva, la complessa struttura comunicativa ecc. – non contrasta con l'emergenza antropo-poietica, come quasi sempre viene lasciato intendere o addirittura dichiarato, ma ne costituisce il prerequisito.

Allo stesso modo tuttavia sbaglia chi ritiene sufficiente una ricognizione sul profilo filogenetico per spiegare i predicati umani ovvero cerca di leggere la condizione umana come emanazione dell'uomo quale entità biologica. Secondo la prospettiva zooantropologica non è possibile capire l'umano facendo semplicemente riferimento al retaggio filogenetico: occorre ammettere un evento totalmente diverso dalla semplice traduzione del retaggio attraverso i normali processi di sviluppo. In effetti già il concetto di antropo-poiesi implica l'assunzione di una differenza qualitativa del farsi uomo rispetto ai comuni processi ontogenetici vigenti nelle altre specie. Dobbiamo chiederci allora se esiste una differenza significativa nell'emergenza dell'umano, tale da giustificare la chiamata in causa di un processo specifico, l'antropo-poiesi, e, se così, quali sono i fattori causali di tale processo. Questo è il secondo scoglio a cui la ricerca zooantropologica cerca di dare una risposta. Per la zooantropologia il processo antropo-poietico va infatti considerato un evento storico non inerente nel retaggio filogenetico, seppur facilitato dalle sue caratteristiche, e non necessitato da quest'ultimo ma comparso grazie a volani di ibridazione con il mondo esterno. La riflessione più importante operata dalla zooantropologia riguarda proprio il processo antropo-poietico, ritenuto un evento che non si compie in modo autarchico ma attraverso referenze esterne all'uomo. Di conseguenza secondo la zooantropologia non è sufficiente una ricognizione sull'uomo per comprendere l'umano, giacché i predicati umani quali frutti ibridi con il non-umano richiedono per essere esplicati la chiamata in causa delle alterità. La zooantropologia pertanto non rigetta l'idea di predicati caratterizzanti o, se si vuole, qualificanti la peculiare dimensione umana né rifiuta la concezione di antropo-poiesi, processo che realizzerebbe tali predicati. Il punto di differenza sta nel modo di leggere i predicati e il processo che li realizza: la parola zooantropologia indica la continua commistione dei due domini, se così vogliamo chiamarli, vale a dire il rifiuto delle pretese distintive, autarchica e separativa in nome e per conto di una lettura coniugativa dell'umano con il non-umano. Rispetto alla pretesa distintiva la proposta zooantropologica legge l'evento dimensionale della cultura come uno dei tanti percorsi di ontopoiesi presenti nel mondo degli animali, chiaramente differenziabile da altri — come l'apprendimento per mimesi sociale o l'apprendimento per dimostrazione magistrale – ma comunque presente anche in specie non umane. La cultura non è appannaggio distintivo e specificante l'essere umano, né possiamo affermare che tutti i processi di ontopoiesi nella specie umana debbano essere ascritti al fenomeno culturale. Riguardo alla pretesa autarchica per la zooantropologia non è possibile far discendere in modo diretto i predicati umani dalle caratteristiche biologiche dell'uomo, né come espressione della pregnanza della semantica filogenetica né come complementazione della presunta incompletezza di tale retaggio. In tal senso per la zooantropologia i predicati umani esorbitano le qualità dell'uomo perché frutto di prestiti ricevuti dalle altre specie ossia di acquisizioni che l'uomo ha integrato. Rispetto alla pretesa separativa la zooantropologia è ancora più radicale indicando nel processo antropo-poietico non un evento di allontanamento dalle alterità bensì un processo di ibridazione con le alterità che conduce inevitabilmente a un esito di messa in discussione della prospettiva antropocentrata (antropo-decentrismo). L'antropo-poiesi pertanto non separa l'uomo dalle alterità non umane ma aumenta nell'uomo il peso ontologico delle alterità non umane.

Ovviamente per comprendere come la proposta zooantropologica sostanzi tali slittamenti del significato antropologico dei predicati umani e dell'antropo-poiesi è necessario prendere in considerazione una serie di concetti, come quelli di natura umana, di alterità animali, di dimensionamento culturale. Sbaglia tuttavia chi ritiene la proposta zooantropologica come uno tra i tanti modelli di riduzionismo biologico ovvero un tentativo di stemperare o negligere le caratteristiche di peculiarità della dimensione umana. Si tratta piuttosto di leggere tale peculiarità in modo differente riconoscendo un credito referenziale alle alterità non umane, in altri termini applicando al processo di antropo-poiesi lo stesso modello di relazione costruttiva identità-alterità usualmente applicata in psicologia nella formazione del sé (rapporto con le altre persone) e in antropologia nella strutturazione di una cultura (rapporto con le altre culture). Chiameremo la relazione costruttiva identità-alterità come "relazione referenziale" e per questo ci soffermeremo sul concetto di referenza nei processi di onto-poiesi, partendo dalle tesi bowlbiane di base sicura e di attaccamento ma altresì facendo stretto riferimento alle tesi riguardanti la profilatura identitaria espresse da Ugo Fabietti e Francesco Remotti. La maggiore difficoltà che si incontra quando si vanno a considerare le diverse interfacce tra umano e non-umano sta proprio nel riuscire a districarsi nel ginepraio di rimandi cui i due termini hanno dato vita nella tradizione per dar luogo a un'architettura disgiuntiva fittiziamente conclamata. Quando infatti ci riferiamo ai predicati identitari dell'uomo nelle diverse sfaccettature — dalla figurazione delle divinità alle cinestesi della danza, dalle produzioni simboliche all'inventiva tecnologica, dall'intervento sul corpo alle teorie epistemiche – non possiamo ignorare che proprio i caratteri assunti come distintivi sono perfusi di prestiti da alterità animali. Non è solo lo sciamano a indossare i panni dell'animale per adire a una dimensione altra che permetta di acquisire nuove prospettive, bensì l'intero orizzonte antropo-poietico sembra sostenersi su un processo di declinazione dell'uomo sulle alterità. Il profilo identitario dell'uomo nel suo tentativo di operare una discrezione o, se vogliamo, al tempo stesso in cui ha dato luogo a una disgiunzione nei conversi degli altri animali si è trovato a edificarla attraverso un processo di assunzione di qualità non umane. Il paradosso che la zooantropologia intende smascherare è proprio questo: l'uomo ha costruito i suoi predicati distintivi rispetto alle alterità ripiegandosi sulle alterità.

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2. La dicotomia natura vs cultura

Se una struttura dicotomica archetipica può essere rinvenuta nell'infinita filiazione di varianti dialettiche proposte dalla tradizione occidentale, questa non può essere altro che quella di natura/cultura. Questa dicotomia ha una lunga storia alle spalle, che ovviamente non può essere ripercorsa in questa sede; per alcuni essa è in parte giustificabile nella tendenza cognitiva dell'uomo di ragionare per opposizioni, anche se è evidente la sua funzionalità nel creare strutture gerarchiche chiamate a far emergere il soggetto dallo sfondo e a giustificare i processi di dominio di un termine sul contro-termine. Per questo prima di entrare nella riflessione circa le caratteristiche della natura umana è indispensabile capire i due termini di discussione, quelli di natura e di cultura, anche per comprendere se tale dicotomia possa mantenere un qualche fondamento, anche alla luce delle nuove scoperte sul comportamento animale.

Come si è detto, è molto difficile discettare sulla natura umana senza chiamare in causa il concetto più generale di "natura", letto dalla tradizione occidentale come complesso di meccanismi istruito da norme deterministiche e, in quanto tali, predittive e riducibili in automatismi. La natura che ancora oggi informa l'approccio tradizionale alla dicotomia natura/cultura non è certo il modello pluriversale che esce dal pensiero della complessità. Priva di eventi sopravvenienti, e pertanto iscrivibile nell'orizzontalità della traduzione algebrica, l'interpretazione della natura resta per tanti versi quella consegnataci dalla tradizione cartesiana. In tale ottica la natura è meccanica traduzione di leggi e in tal senso negazione di qualsiasi spazio di libertà, spazio che al contrario sembra essere il vero fulcro qualificativo della dimensione umana. Questo è il motivo per cui ogni volta che si fa riferimento alla natura umana immediatamente si pensa a contenuti di determinazione comportamentale e di limitazione dello spazio ontopoietico ed espressivo dell'uomo. Del resto le due più importanti scuole di interpretazione del comportamento animale sviluppatesi nella prima metà del Novecento, vale a dire il behaviorismo e l'etologia classica, si sono ben guardate dal mettere in discussione il modello macchina-animale di tradizione cartesiana, pur proponendo differenti strutture causali all'evento comportamentale: il riflesso condizionato la prima, la pulsione la seconda.

Ma nello stesso tempo va detto che rispetto al concetto di "natura" il Novecento opera dei radicali cambiamenti di ordine descrittivo e interpretativo, abbandonando le definizioni di equilibrio, armonia, isocronia, teleologia, monocausalità, linearità causale, e arrivando a disegnare una natura assai differente dal meccanismo ben congeniato retto da leggi lineari e quindi laplacianamente predittibile. Se valutiamo lo sviluppo della fisica e della biologia a partire da Heisenberg per arrivare a Stephen J. Gould osserviamo una trasformazione profonda che chiama sulla scena descrittivo-esplicativa la storia, il caos, la mutazione, il non equilibrio, il disordine autorganizzato, la contingenza, gli attrattori strani, l'ibridazione, la ridondanza, insomma elementi che si pongono diametralmente opposti alla concezione deterministica (ovviamente non nel senso di causalmente determinata ma in quello di totale prefigurazione e quindi prevedibilità). La natura perde quella connotazione di sfondo e si presta meno a operazioni di contraltare funzionali a far emergere l'uomo come unico attore. Non va peraltro dimenticata, nella metà del Novecento, la feconda ricerca di Maurice Merleau-Ponty che riconosce nella natura un'apertura di senso costitutiva e processualmente capace di produrre il proprio radicamento come di trascenderlo. A una concezione di natura eidetica, nomotetica, universale, il Novecento oppone una natura non figurata ma produttrice di eventi figurali, non strutturata su misure ma smisurata in quanto tesa a oltrepassare le soglie, non universale perché creatrice di pluriversi a diversi domini e incommensurabili tra loro. Si tratta di un vero e proprio sfondamento delle certezze antropocentriche: la physis era comunque una comoda abitazione, una base sicura per le centrifugazioni dell'uomo in cerca di emancipazione. Su questi aspetti la discussione è aperta: la natura non è il primo giorno ma non è nemmeno il telone elastico da cui spiccare il balzo, noi non rappresentiamo il modo in cui e attraverso cui la natura si eleva.

Ma anche nel concetto di "cultura" esistono non pochi elementi di problematicità interpretativa, prima di tutto nel distinguere il processo in sé – vale a dire il trasferimento di contenuti non impliciti nell'etografia della specie attraverso tradizione intergenerazionale – dalle diverse declinazioni che tale processo può avere. Se il processo in sé è rinvenibile in specie non umane, è fuori di dubbio che nell'uomo assuma un portato dimensionale così imponente e una variabilità declinativa così robusta da giustificare la chiamata in causa di una struttura antropopoietica, ovvero di un dimensionamento predicativo, accanto alla semplice ontogenesi. Occorre peraltro sottolineare che non è facile separare il fenomeno in sé da altri eventi comportamentali variamente presenti nell'uomo e negli animali non umani. Nei vari profili comportamentali (uomo compreso) rinveniamo espressioni che non hanno bisogno di essere apprese per manifestarsi, altre che per essere presentate devono venire richiamate da specifici elicitatori, altre ancora che si compiono solo dopo perfezionamenti (completate, sequenzializzate, strutturate) oppure che necessitano di apprendimento sociale vale a dire di interazioni con i conspecifici durante l'età evolutiva. Esistono apprendimenti che richiedono non solo un conspecifico da imitare, un modello, ma un vero e proprio maestro che sappia effettuare dimostrazioni e intervenga a correggere il cucciolo nelle fasi esercitative. Il retaggio filogenetico cioè si aspetta un processo magistrale, una relazione docente-discente alla base del percorso identitario, e questo apre la strada a fenomeni bizzarri ma non inconsueti, come il fatto che un cucciolo di una specie apprenda dei comportamenti tipici di un'altra specie: è il caso dei cani che imparano a mostrare i denti (sorridere) per salutare.

Quando ci riferiamo agli uccelli e ai mammiferi dobbiamo perciò dimenticare il pregiudizio che sia sufficiente l'identità genetica per dare luogo alla corretta struttura etografica: cane, gatto, scimpanzé non si nasce ma si diventa attraverso specifici apprendistati educativi. Questo processo fa sì che nel mondo animale l'apprendimento non solo dà luogo a differenze, ovvero a caratterizzazioni individuali, ma crea anche appartenenza ossia dimensioni particolari di identità comuni a tutti i membri di una particolare specie. E la cultura? Spesso si presuppongono relazioni di identità semantica in termini che in realtà indicano aspetti ontopoietici assai differenti: apprendimento = cultura, non genetico = cultura, informazione esterna = cultura. Ovviamente non possiamo ritenere che tutto ciò che non è geneticamente determinato sia afferibile alla dimensione culturale, né che tutti gli ordini di apprendimento siano definibili come eventi culturali. La stessa traduzione dell'informazione genetica si basa sull'apporto epigenetico di altri ordini di informazione: il citoplasma dell'ovocellula, l'organizzazione strutturale dell'embrione, l'ambiente uterino. In moltissime specie, soprattutto negli uccelli e nei mammiferi, l'adattamento al contesto si realizza attraverso un processo di "rispecchiamento ontogenetico" che non è affatto un'aggiunta di esperienze individuali al retaggio filogenetico (innato + appreso) come veniva solitamente indicato, bensì un processo dimensionale: il retaggio filogenetico assume un doppio profilo di dimensione, quello di specie e quello di individuo, attraverso l'apprendimento, al fine di rispecchiare in modo specifico (nell dimensione di specie) il qui e ora del contesto locale. In altre parole, il profilo comportamentale è dimensionato dall'esterno attraverso una correlazione tra la dimensione di specie e le caratteristiche dell'ambiente in cui si sviluppa. Per fare questo gli individui appartenenti a queste specie presentano identità flessibili, ovvero in grado di declinarsi alle peculiari situazioni locali e contingenti in virtù della loro ridondanza strutturale. Ci troviamo di fronte a specie che hanno un sistema neurobiologico molto complesso e duttile che si plasma sulla base delle esperienze che il soggetto compie durante l'età evolutiva.

Non tutti i processi di apprendimento sociale possono definirsi come cultura, non solo quelli di ordine mimetico ma nemmeno quelli di tipo magistrale, per esempio mamma gatta che fa dimostrazioni di caccia e corregge i mici nei loro goffi tentativi predatori. Tutti i gatti che hanno ricevuto il corretto apprendistato di specie presentano infatti questa attitudine magistrale, per cui possiamo dire che l'esternalizzazione ha un forte ancoraggio specie-specifico. Altri comportamenti magistrali sono invece riferibili alla popolazione di appartenenza: per esempio i diversi gruppi di scimpanzé si caratterizzano per usi e costumi differenti, nell'uso di piante medicinali come nella costruzione di utensili, stessa cosa si evidenzia nei cetacei. In queste situazioni se trasferiamo un cucciolo da un gruppo a un altro, egli acquisirà le tradizioni del gruppo adottivo e non di quello di origine. Abbiamo pertanto un ancoraggio che prescinde dall'appartenenza a una particolare specie, cosicché il comportamento peculiare viene tramandato per via intergenerazionale solo all'interno di una particolare popolazione. Questo evento è ciò che possiamo più coerentemente chiamare cultura. La cultura come processo in sé può pertanto essere inserita all'interno dei percorsi ontopoietici presenti in natura e funzionali allo scopo adattativo, un processo che emerge in quelle specie che non solo hanno un sistema neurobiologico così complesso da necessitare una cablatura selezionista, vale a dire non istruita dall'interno, ma altresì presentano un'età evolutiva così lunga e una strutturazione sociale così articolata tale per cui si vengono a creare i presupposti per una tradizione intergenerazionale non ancorata alla specie.

Parlare di antropopoiesi significa pertanto non contrapporre l'acquisizione dei predicati umani alla natura umana, perché questa rappresenta il volano che ne consente l'emergenza. E d'altro canto sbaglieremmo nel considerare i predicati umani inerenti alla natura umana, perché queste caratteristiche sono il frutto di un processo di ibridazione con il mondo e quindi esorbitano i contenuti del retaggio filogenetico e li trascendono in un modo qualitativamente differente rispetto ad altri processi ontogenetici presenti nelle specie non umane. L'antropopoiesi è quindi un evento che si differenzia da altri processi ontogenetici presenti nei primati non tanto perché implica quella particolare trasmissione ontopoietica che chiamiamo cultura, quanto perché dà luogo a una dimensione instabile e ibrida dove l'umano non è più contenuto nel retaggio di Homo sapiens. Pertanto per la zooantropologia i predicati vanno oltre le caratteristiche del retaggio filogenetico perché esito dell'introiezione (interazioni, prestiti, emergenze) delle alterità. In altre parole, la natura umana ci può dare indicazioni sul perché sia emerso il processo antropopoietico non sul come si sia sviluppato e strutturato tale processo, né ci può fornire dati esaustivi sulle caratteristiche dei predicati di risulta, giacché questi ultimi sono il risultato della coniugazione con il non umano. Sotto questo profilo per la proposta zooantropologica vengono a decadere le pretese di autoesplicazione dell'umano partendo dalle caratteristiche della natura umana, sia in senso pregnante sia in senso carente. Possiamo dire pertanto che la zooantropologia persegue una terza strada esplicativa rispetto a quelle tradizionali, una lettura che da una parte sostiene la visione continuista e la validità delle ricerche etologiche rispetto al fondamento filogenetico della natura umana, letto non come impedimento o onere alla realizzazione dei predicati umani ma come sostrato in grado di dare risposte sull'evenienza antropopoietica, dall'altra non neglige il carattere non inerente alla semantica filogenetica dell'esito antropopoietico, come sottolineato dalla ricerca antropologica. E come collante a queste due ragioni la zooantropologia inserisce un nuovo attore, le alterità non umane, capaci di operare degli slittamenti ontopoietici e di mettere in moto un processo autoimplementante che disancora la dimensione umana dal semplice dimensionamento specie-specifico.

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