Copertina
Autore Maria Rosaria Marella
CoautoreL. Coccoli, E. Conte, G. Ficarelli, L. Nivarra, G. Dallera, T. Seppilli, A. Ciervo, L. Paoloni, S. Vezzani, A. Petrillo, F. Treggiari, R. Pompili, A. Amendola, F. Greco, N. Parra, L. Cruciani
Titolo Oltre il pubblico e il privato
SottotitoloPer un diritto dei beni comuni
Edizioneombre corte, Verona, 2012, Culture 86 , pag. 336, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-97522-14-0
CuratoreMaria Rosaria Marella
PrefazioneStefano Rodotà
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe beni comuni , diritto , politica , lavoro , copyright-copyleft , economia politica
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Indice


  7 Presentazione
    di Maria Rosaria Marella

  9 Introduzione. Per un diritto dei beni comuni
    di Maria Rosaria Marella


    PARTE PRIMA: BENI COMUNI VS. PROPRIETΐ INDIVIDUALE:
                 IDEOLOGIE (E GENEALOGIE)

 31 Idee del comune
    di Lorenzo Coccoli

 43 Beni comuni e domini collettivi tra storia e diritto
    di Emanuele Conte

 61 "The Tragedy of the Commons". Guida a una lettura critica
    di Lorenzo Coccoli e Giacomo Ficarelli

 69 Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune
    di Luca Nivarra

 88 La teoria economica oltre la tragedia dei beni comuni
    di Giuseppe Dallera


    PARTE SECONDA: L'ESPLOSIONE DEI BENI COMUNI, DALL'ACQUA ALL'IMMATERIALE

110 Sulla questione dei beni comuni: un contributo antropologico
    per la costruzione di una strategia politica
    di Tullio Seppilli

126 Ya basta! Il concetto di comune nelle costituzioni latinoamericane
    di Antonello Ciervo

139 Land Grabbing e beni comuni
    di Lorenza Paoloni

149 I saperi tradizionali e le culture popolari nel prisma dei beni comuni
    di Simone Vezzani

161 Appendici

    A. I beni comuni nella proposta della Commissione Rodotà
    B. La categoria dei beni comuni trova riconoscimento in Cassazione
    C. Common rights e nuove enclosures in India
    D. La brevettazione del genoma umano: Il caso Myriad Genetics.


    PARTE TERZA: LO SPAZIO URBANO COME COMMONS

185 Introduzione. La difesa dell'urban commons
    di Maria Rosaria Marella

203 Ombre del comune: l'urbano tra produzione collettiva e spossessamento
    di Agostino Petrillo

121 Bene comune: la città medievale
    di Ferdinando Treggiari

230 Safety or Security? Femminismo, città biopolitica e produzione
    del commonfare
    di Roberta Pompili

242 La metropoli come dispositivo
    di Roma disambientata


    PARTE QUARTA: LAVORO = BENE COMUNE?

255 Introduzione. Le ragioni di una riflessione
    di Maria Rosaria Marella

258 Il lavoro è un bene comune?
    di Adalgiso Amendola

277 Una mattina davanti alle fabbriche
    di Federico Greco

281 Una panoramica sul lavoro oggi: dai tirocini al capitalismo cognitivo
    di Giacomo Ficarelli

292 La disciplina dei tirocini formativi e d'orientamento nel tempo
    dell'istruzione messa al lavoro
    di Nunzia Parra

301 Sperimentare il comune nelle facoltà di diritto: le law clinics
    di Luca Cruciani


311 POSTFAZIONE
    Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide
    di Stefano Rodotà

333 Gli autori e le autrici


 

 

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Presentazione

di Maria Rosaria Marella


Questo libro trae origine da un ciclo di quattro seminari organizzati lo scorso anno nella facoltà giuridica di Perugia per gli studenti del mio corso di diritto privato, e nella struttura ne rispecchia grosso modo la sequenza. Vi hanno partecipato accademici, ricercatori precari e studenti di varia formazione e provenienza. I loro contributi riflettono sensibilità, orientamenti culturali e tendenze politiche talora notevolmente diverse fra loro, col risultato di offrire delle questioni trattate una lettura complessivamente problematica, che sottrae il tema dei commons al rischio di banalizzazioni eccessive.

Le prime due parti del volume hanno carattere generale. La prima parte è dedicata alla ricostruzione della genealogia della proprietà privata, da un lato, e dei beni comuni, dall'altro, quali modelli istituzionali contrapposti che nella tradizione occidentale si contendono il campo sul terreno del governo delle risorse e del rapporto fra forme di appartenenza e comunità politica. Θ una analisi che si avvale tanto della prospettiva filosofica, quanto di quella giuridica e economica, e si sviluppa sul piano diacronico come su quello sincronico, mettendo in questione il dominio assoluto della proprietà individuale.

Nella seconda parte, la riflessione antropologica mette a fuoco l'ampiezza e la complessità delle questioni che oggi si agitano intorno ai beni comuni e al loro governo, con ciò introducendo la discussione di temi specifici, come la tutela costituzionale del diritto all'acqua, i meccanismi giuridici che sono alla base del land grabbing, la protezione delle risorse materiali e immateriali dei popoli indigeni. Ipotesi di resistenza contro lo spossessamento dei beni comuni sono esemplificate nei materiali giurisprudenziali e legislativi raccolti in appendice.

La terza e la quarta parte del libro sono dedicate all'approfondimento di temi specifici e offrono l'opportunità di verificare la correttezza della tassonomia proposta nell'introduzione. La terza parte tratta dello spazio urbano come commons, tema che pienamente si iscrive nel dibattito attuale sui beni comuni. A una campionatura dei principali problemi giuridici che si affollano intorno ad una raffigurazione della città come bene comune seguono riflessioni di carattere sociologico, storico e antropologico, che mettono al centro l'influenza dell'organizzazione dello spazio urbano sui rapporti sociali e di genere. Il tema del controllo sulle relazioni e sui corpi tende ad emergere come filo rosso dei contributi presentati.

La quarta e ultima parte del volume affronta la questione della qualificazione del lavoro in termini di bene comune. La praticabilità politica di una tale soluzione è sottoposta ad analisi critica anche alla luce delle trasformazioni che attraversano la nozione stessa di lavoro nella fase del capitalismo cognitivo. La discussione che ne nasce è l'occasione per riflettere sulla commistione fra istruzione e lavoro gratuito che va affermandosi nelle università italiane in ossequio all'ideologia della formazione professionalizzante, uno fra i molti sottoprodotti della privatizzazione del comune.

Roma, 31 gennaio 2012

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Introduzione

Per un diritto dei beni comuni

di Maria Rosaria Marella


1. Il comune oltre il pubblico – I processi di privatizzazione imposti dal progressivo smantellamento dello stato sociale e dalle politiche neoliberiste hanno accresciuto enormemente l'interesse per i beni comuni e la loro difesa.

La battaglia contro la privatizzazione dell'acqua vinta in Italia nel giugno 2011 con uno strepitoso esito referendario, non esaurisce la tensione politica che anima movimenti e soggettività varie attorno all'emblema dei beni comuni: nelle mobilitazioni che hanno accompagnato l'approvazione della c.d. riforma Gelmini dell'università e lo stesso referendum dei lavoratori dell'auto a Mirafiori si è parlato di sapere bene comune e di lavoro bene comune.

Tuttavia la lotta per l'acqua bene comune resta centrale in questo panorama: l'acqua quale simbolo forte di un legame stretto e imprescindibile fra risorse naturali e comunità umane, che non ammette l'interferenza di terzi beneficiari, né di natura pubblica, né di natura privata. La vicenda italiana della gestione delle risorse idriche, d'altra parte, simboleggia pure il fallimento di quelle politiche che contrapponendo il privato al pubblico (così come in passato il pubblico al privato) hanno di fatto trascurato l'interesse ultimo della collettività, vera e unica destinataria della risorsa e della sua gestione.

Questo è dunque il punto. La lotta per i beni comuni non è semplicemente una reazione al c.d. mercatismo in favore della restaurazione della potestà dello stato sulle risorse comuni. Essa al contrario dà voce all'insoddisfazione e all'insofferenza per quelle politiche pubbliche che hanno generato l'attuale crisi di fiducia nelle istituzioni e nella rappresentanza politica.

Quando si afferma il carattere di bene comune delle aree urbane, ad esempio, non ci si schiera tanto contro la privatizzazione, intesa quale "trasferimento della proprietà di compendi produttivi dalla sfera pubblica alla sfera privata"', quanto piuttosto contro la gestione del territorio ad opera di amministrazioni pubbliche che hanno pianificato cementificazione, gentrafication, creazione di quartieri-ghetto, e con esse isolamento, securitarismo, rottura dei legami sociali, devastazione culturale, certo a vantaggio di pochi imprenditori privati, ma usando pienamente della loro potestà pubblica. Il 'tramonto' dello spazio pubblico urbano, il mutamento della morfologia stessa delle città è, in altre parole, anche il frutto di politiche neoliberiste giocate in favore di interessi privati, ma testimonia di una relazione pubblico/privato assai complessa, rispetto alla quale il recupero della centralità dello Stato o dell'autorità pubblica locale diventa un progetto inattuale e incongruo, e forse persino irrealizzabile. Pubbliche – cioè gestite dalla mano pubblica – sono ugualmente le politiche che segnano l'arretratezza dell'Italia nella produzione e nell'impiego di energie rinnovabili, altro punto assai dolente nel dibattito politico recente; ed esprime la volontà dello Stato e degli enti pubblici territoriali l'incredibile tolleranza italiana verso l'abusivismo edilizio, per citare soltanto due snodi cruciali della compromissione del bene ambiente ai danni della collettività.

La stessa gestione pubblica della ricerca fallisce la sua missione se 'segrega' la conoscenza, non assicurando l'accesso e la condivisione dei saperi, così come fallisce la propria missione l'università pubblica se non realizza il diritto allo studio, non crea mobilità sociale, non privilegia la ricerca e dissipa risorse per alimentare l'autoreferenzialità del ceto accademico. La strisciante privatizzazione di università e ricerca pubbliche è dunque solo parte del problema.

L'enfasi sul comune, infatti, non è l'auspicio di un ritorno al pubblico ai danni del privato, ma piuttosto la tensione verso un'alternativa in termini sociali, economici ed istituzionali, che si ponga oltre la contrapposizione pubblico/privato.

In termini politici questa tensione, e l'aspirazione alla riappropriazione del comune ad essa inerente, trova una prima espressione nell'esigenza di assicurare la partecipazione delle comunità alla gestione delle risorse materiali come alla fruizione della conoscenza, ciò che significa anche recuperare legami di solidarietà sociale attualmente affievoliti o compromessi e instaurarne di nuovi: la direzione in cui ci si muove è dunque esattamente contraria a quella percorsa dal sistema messo in piedi dal capitalismo globalizzato.

Sullo sfondo un'idea forte, non sempre resa esplicita: l'idea che i beni comuni appartengano originariamente alla collettività – perché conservati e custoditi dalle comunità di generazione in generazione, perché prodotto di una creazione inevitabilmente collettiva, ecc. – e siano costantemente riprodotti nel quadro di una cooperazione sociale che dal potere pubblico non vuole concessioni, ma pretende riconoscimento.


2. Le radici di un possibile statuto giuridico – La traduzione di tutto questo in termini giuridici non è ovviamente cosa semplice. La pervasività della dicotomia pubblico/privato, tuttora struttura portante, insieme alla dicotomia soggetto/oggetto, di un diritto che è in larga parte il prodotto del pensiero liberale, rende la dimensione del comune una sorta di missing view dei sistemi giuridici. Una dimensione occultata, appunto, ma non assente: in questo senso forse la riscrittura del comune può trovare nel diritto una via inaspettatamente più aperta di quanto ci si potrebbe immaginare.

Se infatti è vero che le proprietà collettive tuttora presenti in molte parti d'Europa sono state percepite dal diritto liberale come corpi estranei e in larghissima parte ridotte nell'estensione e nel contenuto sotto la pressione della forza espansiva della proprietà privata individuale, da una parte, della proprietà pubblica, dall'altra, neppure può trascurarsi la presenza di altre traiettorie all'interno del sistema.

Non si tratta solo di valorizzare le fratture introdotte con le costituzioni del dopoguerra, che già adottano un'idea di proprietà privata che "obbliga" e la sottopongono a politiche redistributive tali da sottrarre utilità al singolo proprietario a vantaggio della collettività: non sempre è possibile o indiscusso riconoscere in questo i sintomi del superamento del dominio pubblico/privato, sebbene la funzione sociale cui la costituzione italiana subordina la tutela della proprietà privata (art. 42 cost.) sia spesso sinonimo di tutela del comune – come nel caso ad es. dei vincoli paesaggistici che limitano le facoltà dei proprietari in nome della tutela del paesaggio fruibile da tutti. E certamente è significativa un'altra norma costituzionale, l'art. 43, riportata alla ribalta dalle mobilitazioni finalizzate a ridare all'acqua lo statuto giuridico di bene comune, secondo cui imprese di preminente interesse generale che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio possono trasferirsi a comunità di lavoratori o utenti. Non solo enti pubblici, dunque, ma anche comunità di cittadini divengono i potenziali gestori di imprese d'interesse generale, al di là dell'opposizione pubblico/privato.

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Sul terreno dell'immateriale, forme di resistenza all'appropriazione esclusiva, dall'accesso alle risorse cognitive in rete alla tutela delle culture indigene, sono quotidianamente messe a punto con successo, spesso facendo ricorso – in una prospettiva di commodification rovesciata – allo stesso strumentario messo a disposizione dal diritto della proprietà intellettuale, con l'esito di far apparire obsoleto, almeno in alcuni casi, l'uso consueto del brevetto e la stessa retorica dell'autore. Ci si riferisce qui a strategie anche differenti fra loro. Messa da parte – per una scelta di politica del diritto ampiamente condivisa – la proprietà sui propri geni, che pur muovendosi dentro l'ordine proprietario avrebbe o avrebbe avuto una qualche possibilità di successo rispetto alla prospettiva di rovesciare il rapporto medico-paziente e soprattutto la marginalità del singolo individuo fornitore di materiale biologico/genetico di fronte al potere economico che gestisce e trae profitto dalla ricerca più lucrosa, il giurista può comunque muoversi in una logica trasformativa pur utilizzando gli istituti convenzionali del diritto liberale (e le sue articolazioni neoliberiste). Le pratiche riconducibili al c.d. copyleft (General Public License, Creative Commons, ecc.) sono alquanto significative al riguardo: predispongono una sorta di via di fuga dalla – ovvero uno svuotamento dall'interno della – logica del diritto d'autore, senza formalmente contestare l'esistenza della sua disciplina.

Il progetto Creative Commons, in particolare, pur nascendo da una critica serrata al concetto di authorship e agli effetti negativi della superprotezione garantita dalle norme sul copyright, si basa sul riconoscimento di un diritto di esclusiva dell'autore, ma combina property rights a opzioni di natura contrattuale consentendo infine accessibilità e riproducibilità dell'opera per scopi non commerciali (e non solo). Anche nel settore della proprietà industriale, la reazione agli abusi derivanti dall'ampliamento senza freni della brevettabilità assumono talora proprio le forme della tutela, sia pur sui generis, della proprietà intellettuale a vantaggio delle comunità indigene (first nations), che imprese e enti di ricerca tendono a spossessare dei saperi e delle pratiche da loro tramandati di generazione in generazione.


3. Un tentativo di tassonomia – Un primo problema da affrontare quando si parla di un possibile statuto giuridico dei beni comuni è dato dall'ampiezza e varietà, diciamo pure dall'estrema eterogeneità, delle situazioni in cui il sintagma è attualmente usato: si parla di acqua e ambiente come beni comuni, di sapere, di conoscenza, di genoma umano beni comuni, ma anche di sanità, di università, persino di lavoro e da ultimo di democrazia come beni comuni. Al di là della ovvia constatazione che un uso tanto ampio del termine può comprometterne l'efficacia espressiva e banalizzarne il senso, è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione beni comuni sia possibile costruire una categoria unitaria di risorse.

Intanto possiamo tentarne una classificazione.

a) Si definiscono beni comuni innanzitutto beni materiali come l'acqua, le risorse naturali, e beni che hanno un sostrato materiale ma evocano anche scenari più complessi come l'ambiente e il patrimonio artistico e storico-culturale di un paese.

b) La categoria dei beni immateriali, motore dell'attuale fase di sviluppo capitalistico, è investita da una tendenza fortissima all'appropriazione esclusiva e di converso se ne rivendica il carattere comune, cosicché rappresenta oggi la categoria di commons maggiormente ampia (e in continua espansione). Un elenco esaustivo è pressoché impossibile: si va dalle creazioni intellettuali (il giurista municipale le chiama opere dell'ingegno) ai geni, che proprio creazioni intellettuali non sono, dall'immagine dei beni (di edifici pubblici o privati, di auto, cavalli da corsa, imbarcazioni rese celebri da vittorie in competizioni sportive) ai saperi tradizionali e alle tradizioni popolari, i quali peraltro possono trovare un sostrato materiale nel patrimonio artistico o nella biodiversità di un luogo, ecc.

c) Di recente l'espressione bene comune si trova riferito anche a istituzioni erogatrici di servizi che sono oggetto di diritti sociali: è il caso della sanità come organizzazione pubblica strumentale alla realizzazione del diritto fondamentale alla salute e dell'università e dell'istruzione pubblica complessivamente intesa, funzionali alla realizzazione del diritto allo studio.

d) Anche un luogo e in particolare la città, lo spazio urbano, è definibile come bene comune (un uso del termine ormai diffuso nella pratica politica: ad es. a Roma è nato un movimento di cittadini intitolato a "Roma bene comune"). L'espressione rinvia qui ad un complesso di piani discorsivi che a loro volta trovano la loro ragion d'essere in forme diversificate di spossessamento: da una parte è bene comune il territorio urbano nel suo complesso, che dev'essere preservato dalla cementificazione e da altre forme di sfruttamento giustificate unicamente da finalità speculative, dall'altra possono considerarsi beni comuni i quartieri cittadini, soggetti, insieme al loro specifico culturale, a spossessamento attraverso strategie proprie del mercato immobiliare e del mercato delle locazioni (gentrification), infine l'idea del comune implica uno sguardo critico nei confronti del fenomeno della privatizzazione dello spazio pubblico urbano, con il mall (centro commerciale) che prende il posto della piazza e riduce gli spazi della democrazia.

e) Da ultimo l'espressione bene comune si trova associata a "lavoro", a "informazione" (nel senso di diritto di cronaca) e a "democrazia". Qui l'uso dell'espressione è svincolato dallo sfruttamento e/o dalla gestione di una risorsa e evoca piuttosto complessi di istituzioni, relazioni politiche e/o rapporti economici che hanno dignità costituzionale e funzione costituente un dato ordine sociale e politico.


4. Alla ricerca di una fisionomia comune – Questa approssimativa mappatura conferma l'eterogeneità delle accezioni e dei contesti in cui l'espressione bene comune è impiegata. Evidentemente è impossibile ricondurre alle diverse categorie uno statuto giuridico generale del comune.

Anzi uno stesso statuto giuridico è da escludersi pure in riferimento alle prime due categorie. L'espressione "proprietà intellettuale", comunemente usata per indicare diritti di esclusiva sull'immateriale, infatti, non ha molto a che vedere con il diritto di proprietà, che è diritto di godere e disporre di beni materiali. Lo statuto giuridico del comune che emerge da questa varietà di contesti è dunque da individuare di volta in volta, ma si può già anticipare che esso non necessariamente si lega a forme giuridiche di appartenenza (individuale o collettiva) in senso tecnico.

Possiamo però individuare alcuni caratteri che queste diverse facce del comune condividono. Nel corso di una serie di seminari che, grazie al sostegno del mio Dipartimento (un bene comune anch'esso?), ho potuto organizzare nel passato anno accademico, abbiamo tentato di farlo rivolgendoci soprattutto ad interlocutori provenienti da altre discipline: l'antropologia, la filosofia politica, la sociologia, l'economia, la storia del diritto, ecc.

i) Un primo carattere si definisce, dunque, in negativo, nella mancanza di un regime giuridico comune ai beni che definiamo come commons. Ciò implica la diversità delle strategie da eleggere caso per caso nell'affermare e difendere la natura di commons di una risorsa.

[...]


ii) Un tratto sicuramente condiviso da tutte le accezioni del comune prima individuate è invece il legame fra risorsa (o servizio) e comunità. La definizione di comune implica infatti una domanda: comune a chi? Ora l'individuazione della comunità di riferimento, elemento chiaro ad es. nelle proprietà collettive tuttora esistenti in molte regioni d'Italia, è un problema chiave nella definizione di uno statuto giuridico per i beni comuni. La comunità si definisce in ragione dei legami sociali di solidarietà che esistono o dovrebbero instaurarsi in relazione alla fruizione del bene comune: il discorso è volutamente circolare poiché fra commons e comunità esiste una relazione per cui l'uno risulta costitutivo dell'altra e viceversa. Inoltre i legami di solidarietà e l'individuazione della comunità che insistono sul bene comune hanno anche una necessaria dimensione diacronica: quasi per definizione, la gestione di un bene comune deve tener conto degli interessi delle generazioni future.

[...]


iii) Si arriva così al terzo decisivo elemento di un possibile statuto giuridico dei beni comuni: la gestione. O, più esattamente, la gestione collettiva e/o partecipata del bene comune. Diciamo subito che, anche qui, la questione non è affatto semplice. L'idea di gestione partecipata incontra le stesse obiezioni cui va incontro l'idea di democrazia diretta: ad es. quella di presupporre un'entità omogenea preposta alla gestione, la comunità, che nella maggior parte dei casi non è affatto omogenea, date le ovvie differenze culturali, sociali, di genere al suo interno (ritorna in termini rovesciati la problematicità dell'elemento della comunità).

D'altra parte uno strumento sia pur collaudato come quello cooperativo, ove applicabile, non assicura affatto la gestione partecipata, dato il vizio dell'abuso di delega da cui è tendenzialmente afflitto.

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Idee del Comune

di Lorenzo Coccoli


Questo contributo vuole proporsi come un tentativo di tracciare la genealogia di due narrazioni contrapposte in tema di proprietà, due narrazioni che attraversano, in maniera spesso conflittuale, buona parte della tradizione filosofica occidentale. Prima di cominciare sarà perciò bene chiarire i due termini principali di seguito utilizzati: genealogia e narrazione.

[...]

In poche parole, nessun ordine giuridico possiede un significato in sé, indipendentemente da una narrazione che glielo fornisca. Questo vale anche per il diritto di proprietà: il suo senso cambia radicalmente a seconda che sia inserito in una narrazione che gli dia legittimità e validità universale (appunto, una narrazione proprietaria), o che invece sia interpretato a partire da un racconto che lo rappresenti come violento e ingiusto.

Un esempio può forse aiutare a comprendere meglio. Nel settembre 2002, Benetton intenta causa contro i Mapuche, una popolazione amerinda stanziata tra Cile e Argentina, rei secondo la nota azienda italiana di "occupazione violenta e occulta", per aver abbattuto di notte i recinti che delimitavano alcuni possedimenti argentini di Benetton, occupandoli poi "abusivamente". Il fatto era che quei terreni costituivano parte del territorio atavico dei Mapuche, svenduto nel 1896 dal presidente Uribe e acquistato nel 1991 dalla compagnia italiana, ma su cui gli indigeni continuavano a rivendicare i loro ancestrali diritti. Il loro appello è raccolto nel luglio 2004 dal premio Nobel argentino per la pace Adolfo Pérez Esquivel, che decide di scrivere direttamente a Luciano Benetton:


Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere la terra ai fratelli Mapuche [...]. Deve sapere che quando si toglie la terra ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all'oblio. Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perché sono i legittimi proprietari, di generazione in generazione, sebbene non siano in possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida a coloro che hanno denaro [...]. Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila ettari di terra in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa mentalità dei conquistatori [...]. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale [...]. Vorrei farle una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra a Dio? Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione e di potere nei loro latifondi.


Insomma, Esquivel contrapponeva ai diritti "legali" di Benetton i diritti "legittimi" dei Mapuche, evocando parallelamente lo spettro delle conquiste coloniali e quello delle recinzioni che, nel passaggio alla modernità, misero fine al regime delle terre comuni e inaugurarono il nuovo modello esclusivo di proprietà privata. La risposta di Benetton non si fa attendere:


Chiedendomi 'Chi ha comprato la terra a Dio?', lei riapre un dibattito sul diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento stesso della società civile [...]. Da parte mia credo che nel mondo terreno e ormai globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e il miglioramento degli altri [...]. La nostra era, ed è tuttora, una sfida di sviluppo [...]. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito per portare l'azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti [...]. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro.


Il ragionamento di Benetton si basa su alcuni assunti più o meno espliciti: la proprietà privata, fisica o intellettuale, "rappresenta il fondamento stesso della società civile", e come tale "è necessaria" al mantenimento e allo sviluppo produttivo dell'ordine sociale; viceversa, dove il regime proprietario è assente, ci sono solo "terre desertiche e inospitali". E questa serie di assunti che costituisce quel tipo particolare di narrazione che abbiamo definito proprietaria: il diritto di proprietà è associato a efficienza, lavoro, produttività; tutto il resto non è che abbandono, degrado e rovina.


L'idea della proprietà come luogo per eccellenza dell'efficienza e del buon funzionamento della società ha una storia antica, ma non antichissima. Per quanto una "lunga cottura" possa farcela apparire oggi come una verità oggettiva e, per così dire, naturale, essa si afferma in un momento preciso, in una fase storica ben determinata che coincide all'incirca col passaggio alla modernità. Semplificando al massimo, si può dire (pur con molta approssimazione) che prima della modernità il proprietario era limitato nei suoi diritti dal ruolo che si pensava egli dovesse svolgere nei confronti della collettività: come scrive per esempio Tommaso, la proprietà delle ricchezze può essere privata, ma l'uso che se ne fa deve necessariamente essere collettivo, e questo perché "secondo il diritto naturale tutto è comune, e la proprietà privata è incompatibile con tale comunanza". Viceversa, a partire almeno dalla seconda metà del Cinquecento, la proprietà tende a diventare un incondizionato ius utendi et abutendi, il diritto cioè di escludere chiunque dal godimento del bene in questione e di disporre di esso a pieno titolo (anche se nei limiti stabiliti dalle leggi civili).

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Per ragioni di brevità, non possiamo seguire nei particolari tutti i passaggi dell'analisi marxiana del fenomeno. Quel che però qui è interessante notare è che essa mostra come le due sfere d'azione che costituiscono la struttura del mondo moderno — e cioè la sfera privata e quella pubblica/statale — nascano a partire dalla rimozione violenta di una terza dimensione, alternativa a entrambe: quella, appunto, del Comune. In effetti, a partire almeno dalla fine del XVII secolo, i proprietari che portavano avanti il movimento delle recinzioni cominciarono a essere appoggiati direttamente dalle autorità del nascente Stato moderno, interessato a garantirsi il monopolio del potere sul territorio nazionale: un monopolio messo in questione dalla moltiplicazione dei centri di relativa autonomia rappresentati dalle varie comunità di villaggio. Si tratta dunque di un duplice movimento: assolutizzazione del diritto di proprietà privata, da una parte; assolutizzazione del potere statale, dall'altra. L'origine della modernità non ha nulla di idillico.


Abbiamo allora aggiunto un tassello importante alla nostra genealogia: lungi dall'essere un istituto eterno e immutabile dell'umanità, la proprietà privata moderna nasce, nel racconto di Marx, a partire da un momento originario di violenza, e paradossalmente finisce per assomigliare in modo inquietante a ciò di cui dovrebbe rappresentare il luminoso contrappunto: il furto. L'accumulazione originaria del capitale si configura come un vero e proprio furto dei commons.

Ora, tutto questo – che in realtà si riferisce alla "preistoria" del capitale – sembra però poterci dire molto anche sul nostro presente. Il fatto è che, almeno secondo alcuni autori (ascrivibili soprattutto, ma non solo, al cosiddetto post-operaismo), ci troveremmo oggi in una fase di transizione da un modo di produzione di tipo fordista (incentrato sul primato del lavoro astratto) a uno di tipo post-fordista, in cui la principale fonte di valore non è più il lavoro materiale ma quello immateriale: linguaggi, affetti, saperi, conoscenze. Senza entrare nel dettaglio, possiamo provare ad accennare brevemente alcuni dei tratti salienti di questa transizione. Il punto principale, sempre secondo i suddetti autori, è che il passaggio dal fordismo al postfordismo apre delle forti contraddizioni all'interno dei circuiti del capitale, perché quando il sapere diventa il principale fattore produttivo, i meccanismi normali di valorizzazione del valore (basati sullo sfruttamento della forza-lavoro materiale) entrano in crisi. Per valorizzarsi, il capitale non deve più sussumere sotto di sé solo il lavoro vivo dell'operaio, ma anche quell'insieme assolutamente eterogeneo di competenze e capacità che soltanto in modo improprio possiamo ridurre alla categoria unica di "conoscenza". Inoltre, nel caso del sapere, grazie soprattutto ai processi di virtualizzazione che permettono di separarlo e renderlo utilizzabile indipendentemente da ogni sostrato materiale (qual era per esempio la macchina nell'era fordista), il costo di produzione non coincide più col costo di riproduzione. Pensiamo alla progettazione di un nuovo software: una volta che una prima unità è stata realizzata, il costo di riproduzione delle sue copie tende a zero. Il che vuol dire che i beni cosiddetti immateriali non sono soggetti a scarsità, potendo essere riprodotti in numero pressoché infinito a costi trascurabili. Il risultato è che, indipendentemente dal suo valore d'uso, il valore di scambio della conoscenza (potenzialmente disponibile in quantità illimitate) tenderà a zero.

Come può allora il capitale valorizzare una merce tanto poco docile? L'unica soluzione è, appunto, creare artificialmente la scarsità. Nuove recinzioni, siano esse ottenute con strumenti legali o extralegali, consentono al capitale di appropriarsi della conoscenza, impedendo quindi che essa diventi bene comune. Ecco come funziona il nuovo processo di valorizzazione: i saperi, frutto dell'interazione e dello scambio collettivo, vengono espropriati tramite barriere artificiali o limitazioni imposte sui mezzi d'accesso (Internet in primis). Chi vorrà usufruirne dovrà pagare: il profitto diventa rendita. Ecco perché il racconto marxiano sull'accumulazione originaria (e in generale, la contro-narrazione che ho cercato di ricostruire) torna di attualità. Il capitalismo cognitivo opera oggi attraverso "predazione di esternalità": esso crea cioè le condizioni per appropriarsi gratuitamente dei frutti della cooperazione sociale, non più rinchiusa tra le mura dell'industria fordista e quindi non più gestibile secondo logiche e metodi fordisti. Brevetti, copyright, tasse d'accesso sono i nomi delle nuove enclosures che consentono al capitale di fare suoi i frutti della cooperazione sociale. Solo che oggi le recinzioni non colpiscono più esclusivamente i beni comuni materiali (terre, boschi, laghi) ma si rivolgono anche a quelli immateriali (saperi, affetti, relazioni). Non è un caso allora che il tema dei commons stia acquistando sempre più rilievo non solo a livello accademico, ma anche all'interno dei movimenti sociali che si oppongono al dilagare dell'ideologia neoliberista. Tornare oggi a rivendicare i beni comuni contro íl saccheggio sistematico del capitale significa, tra le altre cose, "espropriare gli espropriatori", riappropriarsi cioè di quei mezzi di produzione e sussistenza (tanto materiali quanto immateriali) che possano consentirci di riconquistare spazi di autonomia all'interno dei rapporti di produzione capitalistici. In un documento del 1847, Tocqueville profetizzava che "è tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono che verrà a prodursi un giorno la lotta politica; il grande campo di battaglia sarà la proprietà [...]". Oggi questa profezia pare esser divenuta realtà, e in un senso assolutamente radicale.

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INTRODUZIONE

La difesa dell'urban commons

di Maria Rosaria Marella


In Italia il dibattito recente sui beni comuni ha una coloritura politica che altrove manca. Anche nella scarsa letteratura giuridica dedicata al tema, la difesa dei commons dallo spossessamento per mano pubblica o privata è sempre avvertita come radicalmente trasformativa del sistema politico e economico attuale. I lavori pubblicati negli ultimi mesi da giuristi noti e meno noti ne sono una chiara testimonianza.

Questo incoraggia ad affrontare il tema dello spazio urbano in chiave di bene comune e a metterne in evidenza il rilievo giuridico, raccogliendo attorno a un'idea di per sé percepita come militante una serie di problemi apparentemente disparati, sebbene tutti determinati da scelte 'di sistema': il diritto all'abitare e la costruzione dei centri commerciali nelle periferie metropolitane, la gentrification e l' enclosure di porzioni di spazio pubblico nelle gated communities, la gestione degli orti urbani e l'informalità come risposta alle occupazioni e all'abusivismo edilizio, la sicurezza e il controllo nella organizzazione dello spazio urbano.

Nell'analisi giuridica la prospettiva dei commons può qui contribuire in misura rilevante a rinnovare l'interesse per temi, che pur essendo di bruciante attualità, sono ora lasciati al margine della riflessione. Non che la declinazione in termini di bene comune dello spazio urbano serva a rompere l'integrità di un diritto di proprietà adamantino, come pensato dai codificatori ottocenteschi. Che la proprietà immobiliare urbana sia sempre stata incisa dall'interesse generale è cosa nota. Nell'epoca in cui la disciplina civilistica della proprietà ha conosciuto l'impatto della costituzione repubblicana, il principio della funzione sociale (art. 42, 2°co. Cost.) proprio in riferimento alla proprietà edilizia ha trovato le applicazioni più significative: si pensi alla legge Bucalossi del 1977 e precedentemente allo scontro fra legislazione, corte costituzionale e dottrina in tema di jus aedaficandi; oppure alla legge Galasso del 1985 sui vincoli paesistici. Ma certamente oggi la funzione sociale della proprietà non è più al centro dell'agenda del legislatore nazionale, e d'altra parte le ultime sue applicazioni più che dar chiaro segno della volontà di piegare la proprietà privata a programmi di redistribuzione della ricchezza hanno dato voce ad una attitudine statalista che tendeva a sconfinare nell'abuso, come la vicenda della c.d. occupazione acquisitiva dimostra. A ciò si aggiunga il mutare d'asse segnato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, dalla Carta di Nizza e dalle rispettive corti, che tendono a proporre un'idea di proprietà più vicina al diritto liberale classico che non alle costituzioni del dopoguerra, tanto da annoverare, come fa la Carta di Nizza, il diritto di proprietà fra le libertà, anziché fra i rapporti economici. Ciò incoraggia a reinterpretare la funzione sociale all'interno della razionalità del sistema civilistico e, in armonia con la tradizione liberale, che ne costituisce pur sempre la struttura portante, a rileggere la proprietà conformata in vista delle esigenze di una efficiente circolazione dei beni, cioè del mercato. Con il che la parabola trasformativa della funzione sociale della proprietà potrebbe ritenersi conclusa.

Ora, il ricorso al paradigma dei beni comuni non va inteso come la via per continuare in altre forme quella politica redistributiva delle utilità dei beni che la funzione sociale ha ormai smesso di ispirare. Predicare come commons lo spazio urbano – ma il discorso vale per ogni altro ambito – non significa certo invocare un intervento del pubblico potere che limiti o conformi la proprietà urbanistica in funzione dell'utilità sociale, ma invece contestare in radice la legittimità di ogni atto di governo del territorio, ovvero di uso dello stesso, che sottrae utilità alla collettività in termini di salute, libertà, socialità, dignità del vivere, felicità. E ciò può riguardare l'uso e la destinazione che il proprietario privato imprime al proprio bene (il proprietario che trasforma lo storico teatro di quartiere in sala scommesse), ma riguarda tanto più la potestà pubblica di pianificazione e governo del territorio (il piano regolatore del comune che prevede nuova edilizia e ulteriore saccheggio del verde pubblico anziché decidere per il riutilizzo di quella abbandonata). Poiché il modo in cui lo spazio urbano si struttura, per l'interazione di pubblico e di privato, determina i modi di vita e le relazioni sociali che in esso si sperimentano, come i saggi raccolti in questa parte del volume bene chiariscono. E dunque non c'è nulla di più comune dello spazio nel quale l'andamento delle nostre vite si definisce.

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Pagina 197

Diritto all'abitare c. gentrification – La gentrification costituisce la forma più diffusa e nota di spossessamento dell' urban commons a livello globale. Sebbene il termine inglese e la sua traduzione italiana, gentrificazione, risultino poco familiari ai più, la trasformazione dei centri urbani per effetto dell'estromissione delle classi lavoratrici e il subentrare dei ceti agiati è sotto gli occhi di tutti. Di esso trattano in questo volume i contributi di Petrillo e Roma disambientata. Posso pertanto limitarmi ad accennare all'interazione di fattori culturali, politici, economici e giuridici che è alla radice del determinarsi del fenomeno e della sua diffusione.

Vari gli elementi che hanno contribuito ovunque all'affermarsi dei processi di gentrification. Fra essi un orientamento politico divenuto dominante almeno dagli anni Ottanta: la retorica neoliberale della privatizzazione quale risposta 'efficiente' alle disfunzioni del pubblico ha favorito i progetti di riqualificazione dei centri urbani attraendo nuovi e ricchi residenti e cercando così di porre rimedio, col danaro dei privati, al c.d. degrado urbano che lo Stato non era riuscito ad evitare. La stessa logica nel contempo ha comportato il ridursi drastico degli interventi di edilizia pubblica anche nelle forme del recupero degli edifici dei centri storici già adibiti ad edilizia popolare e di edifici dismessi da destinare allo stesso uso. Anche in questo caso si osserva una convergenza fra poteri privati e poteri pubblici, un lavoro in partnership volto a trasformare la città in senso gentrified. A queste ragioni d'ordine generale si somma uno specifico clima culturale che a partire dagli anni Settanta e Ottanta favorisce l'insediamento della borghesia nei centri urbani e, in particolare, nei vecchi quartieri popolari, alla ricerca di un ambiente 'autentico', di luoghi capaci di evocare un' ambiance, cioè un'atmosfera culturalmente significativa. In architettura il postmodernismo rivaluta infatti molti elementi stilistici del passato che il modernismo aveva rigettato in quanto d'ostacolo ad una concezione razionale dell'abitare, il che – a livello di mercato immobiliare – si traduce nel recupero di tutto quanto richiami un'atmosfera d'epoca e, ancor più, soddisfi il desiderio di contaminazione fra vecchio e nuovo proprio dell'eclettismo postmoderno. Il binomio riqualificazione urbana- gentrification risponde dunque perfettamente alle aspirazioni e al gusto dei ceti emergenti.

Naturalmente è possibile rintracciare ragioni più propriamente strutturali a questa trasformazione: non per nulla il new urbanism è associato dai suoi critici alla globalizzazione dei mercati. Il passaggio di fase del capitalismo, le condizioni dell'economia post-industriale e post-fordista sono generalmente messi in connessione coi processi di gentrification e con le trasformazioni del mercato immobiliare che ad essi si accompagnano. Ma un fattore determinante è considerato pure il ricorso generalizzato allo zoning quale tecnica privilegiata di governo del territorio per mano pubblica, che senza dubbio prepara e accompagna sul piano legislativo la trasformazione del tessuto urbano nel senso descritto. La pianificazione dell'uso del territorio per zone, introdotta negli Stati Uniti e poi adottata nei paesi europei, ha determinato una netta differenziazione e separazione fra aree urbane all'interno della stessa città a seconda della destinazione individuata dallo strumento urbanistico – fosse essa commerciale, residenziale o industriale – con l'esito di consentire, da una parte, la preservazione dell'omogeneità sociale nei singoli quartieri e di creare, dall'altra, accanto alla settorializzazione dello spazio urbano, segregazione razziale e marginalizzazione sociale. In realtà la zonizzazione costituisce il presupposto tanto dello sviluppo dei suburbs del nord America quanto del diffondersi dei mall nelle cinture periferiche delle metropoli di tutto il mondo. Quando le dinamiche del mercato immobiliare e le nuove tendenze culturali invocano un ritorno alla città e ai centri storici, quella stessa separazione sociale e razziale è conservata in virtù dei programmi di riqualificazione urbana e dei processi di gentrification.

In concreto l'espulsione dei ceti popolari dai centri urbani è 'aiutata' da legislazioni che, sull'onda delle politiche di riqualificazione urbana, impongono ai proprietari nuovi standard di abitabilità riguardanti vuoi la sicurezza degli impianti, vuoi il riordino dell'ornato edilizio. I piccoli proprietari che non hanno mezzi economici sufficienti per "mettere a norma" la propria casa sono costretti a venderla o a lasciarla alla banca, per l'impossibilità di restituire il danaro avuto a credito. I grandi proprietari immobiliari delle zone in odore di riqualificazione, invece, agiscono per lo più come agenti della gentrification: in risposta alle nuove misure imposte dalla legislazione, o a prescindere da esse, lasciano andare in rovina gli immobili concessi da decenni in locazione a conduttori di norma poveri e socialmente marginali fino a provocarne l'allontanamento. Questa pratica, detta del milking, è motivata da intenti speculativi ed è ovviamente attuata in violazione delle norme contrattuali. Il locatore è infatti tenuto a garantire l'abitabilità dell'immobile e a provvedere all'opere di manutenzione di carattere straordinario; ma in questi casi il singolo conduttore è troppo debole per fronteggiare il proprietario sul piano legale.

L'esito complessivo di tutto questo è un enorme fenomeno di spossessamento ai danni dei ceti popolari, che accresce, fra l'altro, il numero dei senza tetto, visto che ai progetti di riqualificazione urbana non si accompagnano politiche dell'abitare all'altezza del problema che quelli hanno generato. D'altra parte, in ogni processo di gentrification íl diritto all'abitare che è in gioco riguarda non solo la disponibilità di una casa in cui vivere, ma anche e soprattutto i legami sociali e affettivi, i ritmi di vita, la dimensione collettiva dell'abitare, ciò che è peraltro parte di quell' atmosfera che la gentrification depreda insieme agli immobili.

Le possibili risposte nascono allora dalla consapevolezza dello spossessamento del comune e hanno necessariamente carattere collettivo, che si tratti di pratiche di resistenza materiale, come nel caso delle uglyfication strategies, ovvero di risposte più propriamente giuridiche. Ad esempio la possibilità di imporre ai proprietari il rispetto degli obblighi contrattuali di manutenzione a tutela del diritto all'abitare dei conduttori si traduce in una forma verosimilmente efficace di resistenza contro un'incipiente gentrification, poiché frena gli effetti speculativi del milking sia in senso temporale sia in termini di ritorno economico; ciò a patto che i residenti del quartiere gentrifying si organizzino per condurre insieme questa strategia contrattuale contro la comune controparte. Analogamente, la rivendicazione del valore giuridico dell'uso collettivo di un'area urbana contro le ragioni di chi – allo scopo di avviare un processo di gentrificazione – afferma di esercitare legittimamente un diritto di proprietà su di essa assume consistenza solo ove vi sia una comunità che si organizza per farlo valere. Quando si progetta un'opera di lottizzazione su uno spazio in disuso che la gente del quartiere utilizza abitualmente da tempo come spazio di socialità, l'effetto sarà intanto quello di sottrarre ai residenti il loro spazio comune, ma anche quello di colpire il diritto all'abitare di ciascuno, poiché la lottizzazione innescherà un processo di gentrification che condurrà in breve all'aumento del valore degli immobili della zona e perciò dei canoni locatizi, con la conseguenza che i poveri non potranno più continuare ad abitarvi. La rivendicazione del comune come della dimensione comune del diritto all'abitare richiedono dunque necessariamente un momento di organizzazione collettiva.

Sulla base di questo presupposto si potrà poi discutere se in termini giuridici sia più corretto o strategicamente più opportuno rompere il monopolio del paradigma proprietario e dare una consistenza giuridica autonoma all' uso come forma di appartenenza non esclusiva e intrinsecamente comune, o invece forzare lo stesso paradigma proprietario dall'interno e teorizzare la sussistenza di un property interest in capo al gruppo o alla comunità che di un certo bene (di un certo spazio) fa uso e si prende cura, e che confida sulla possibilità di far proprie alcune delle utilità che da esso derivano, pur non essendone proprietario; un interesse protetto che presuppone un diritto di proprietà disaggregato e scomponibile in utilità e interessi pertinenti a soggetti diversi, e perciò tale da inibire l'esercizio della facoltà di disposizione del proprietario medesimo quando questo possa minacciare la sua stessa esistenza.

Θ una discussione che coinvolge ogni forma di enclosure dello spazio urbano e merita di essere proseguita in altra sede.

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Pagina 255

Introduzione

Le ragioni di una riflessione

di Maria Rosaria Marella


L'espressione bene comune associata a lavoro non ha un significato immediatamente comprensibile, non la stessa nitidezza che il sintagma assume quando è riferito all'acqua, al sapere, allo stesso spazio urbano.

Compare per la prima volta, che io sappia, come slogan della Fiom durante la manifestazione nazionale del 16 ottobre 2010, in risposta alla politica industriale messa in campo da Marchionne. E appare subito problematica: in una fase un cui l'espressione "bene comune" è adoperata per la sua capacità di evocare un modello di società e di economia alternativo a quello attuale, la formula lavoro bene comune suona per contro come una sorta di idealizzazione del lavoro, quasi si trattasse di un bene di cui tutti devono giovarsi, come l'acqua, appunto. Ma il lavoro non è un fattore neutro, o almeno non è questa la visione maggiormente condivisa nella tradizione politica europea, non è questa la lettura che ne danno i maggiori interpreti della modernità, da Karl Marx, a Hanna Arendt, a Michel Foucault; e si tratterebbe, ove non altrimenti esplicitata, di una concezione tutto sommato nuova rispetto alla stessa cultura politica del sindacato italiano, che classicamente interpreta il lavoro come termine di un conflitto - col capitale, col padronato, o comunque con una controparte che dallo sfruttamento di quel lavoro trae il proprio potere economico, sociale e, fra l'altro, contrattuale.

Del resto questa idealizzazione – se di ciò si tratta – non trova una sponda neppure nella costituzione repubblicana la quale, nel fondare la repubblica sul lavoro (art. 1), pragmaticamente marca un mutamento antropologico, cioè il superamento del modello del cittadino borghese proprio dello stato liberale e l'avvento dello stato pluriclasse, che dei lavoratori promuove la partecipazione politica (art. 3, 2° co.) oltre a garantirne la condizione sociale (art. 36).

Allora perché parlare del lavoro come di un bene comune?

L'uso dell'espressione non è qui evidentemente riferito allo sfruttamento e/o alla gestione di una risorsa, e evoca piuttosto – come per formule simili invalse nella cronaca politica: democrazia bene comune o informazione bene comune – un'istituzione o un complesso di istituzioni, di relazioni politiche e/o di rapporti economici che hanno dignità costituzionale e funzione costitutiva di un dato ordine sociale e politico che si intende preservare.

Più semplicemente l'idea di bene comune richiama in questo contesto la dimensione generale, più che collettiva, dell'interesse della società alla tutela del lavoro. Nella lingua inglese l'espressione più appropriata sarebbe qui non quella di commons, ma di public good, concetto economico, più che giuridico, che indica un bene dal quale derivano utilità non suscettibili di appropriazione esclusiva. L'aggettivo public non richiama in questo caso lo Stato, ma dà invece il senso di quella dimensione generale, dell'essere di tutti, del riguardare l'interesse di tutti. Uno schema forse analogo si ritrova nella rivendicazione ad opera di una giurista liberal americana, Anne Alstott, del carattere di public good della cura e dell'istruzione dei figli. Ci si chiede: corrisponde all'interesse di tutti, cioè dell'intera società, la crescita e l'educazione delle nuove generazioni? Θ un qualcosa di cui l'intera società beneficia? Se così è, allora non possono essere i singoli genitori a farsene esclusivamente carico in senso tanto economico quanto organizzativo come se fosse solo un loro interesse, cioè un interesse individuale e privato. Parimenti – si potrebbe ragionare – la difesa del lavoro interessa tutta la società e non devono essere perciò solo quegli operai colpiti dal peggioramento delle condizioni di lavoro (e le loro famiglie) a farsi carico del problema. Con una differenza: che dall'idea della cura dei bambini come public good emerge il tentativo di dar risalto ad una importante componente della riproduzione sociale, che è di regola ignorata, travisata e nascosta, ancorché sia normalmente tradotta in valore dal sistema attuale (e qui davvero il comune si impone all'attenzione); mentre una sollecitazione analoga non emerge dalla difesa in quanto bene comune del lavoro (materiale) salariato, quale lavoro produttivo per antonomasia.

Ed infatti la visione che l'espressione lavoro bene comune evoca impedisce uno sguardo critico sul lavoro stesso, uno sguardo che colga le sue odierne articolazioni e i suoi cambiamenti (è un bene comune il lavoro precario? Il lavoro che invade la vita e i suoi tempi?), che si interroghi, fra l'altro, sul lavoro gratuito e su quelle attività comunemente percepite come non-lavoro. Un esempio per tutti, il lavoro domestico svolto in favore dei propri familiari: che cos'è, a quale statuto giuridico risponde? E, prima ancora, qual è il modo in cui è concettualizzato rispetto alla categoria lavoro? quale, di conseguenza, il suo apprezzamento sociale? Θ non-lavoro? Θ invece lavoro gratuito? E il tirocinio di uno studente come si qualifica? Θ lavoro gratuito o invece apprendimento professionalizzante?

Si noti peraltro come queste, come altre situazioni lavorative, ponendosi fuori dal lavoro salariato, si pongano altresì fuori dal progetto costituzionale, ossia da quel corredo di garanzie che riguardano non soltanto le condizioni materiali di vita del lavoratore (la garanzia del diritto al lavoro degli artt. 4 e 35; la retribuzione atta ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa dell'art. 36, la proprietà accessibile a tutti dell'art. 42, 2° co.), ma qualcosa di più e di ulteriore: l'accesso o, meglio, la partecipazione attiva alla sfera pubblica, cuore della (promessa della) pari dignità sociale dell'art. 3, 1° co., poi esplicitata nel comma successivo, dove si prescrive l'obiettivo della rimozione degli ostacoli di natura economica e sociale che "impediscono l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" ed è assicurata nella sua effettività dal riconoscimento dell'organizzazione sindacale (art. 39) e del diritto di sciopero (art. 40). Essendo questi – l'attività sindacale, lo sciopero - strumenti che contribuiscono alla dimensione della vita activa, il solo fatto che essi non riguardino oggi milioni di persone, interroga la democrazia nelle sue strutture profonde e pone questioni la cui soluzione non può essere affidata a formule facili.

Questa parte del volume vuole gettare sulla corrente nozione di lavoro e sulla sua declinazione in termini di bene comune il necessario sguardo critico. Per farlo si avvale del contributo delle diverse figure di lavoratore che popolano oggi il mondo dell'università: il professore, il precario, la neolaureata, lo studente; soggetti tutti immersi nella realtà lavorativa su cui riflettono, sebbene per lo più esclusi dall'universo del lavoro convenzionalmente inteso.

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Pagina 311

POSTFAZIONE

Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide

di Stefano Rodotà


Nel 1964 un professore della facoltà giuridica dell'università di Yale, Charles Reich, pubblica un saggio dal titolo "The New Property", destinato ad influenzare assai la discussione scientifica e l'orientamento delle corti. L'assunto è semplice e prende le mosse dalla constatazione del ruolo dello Stato come diretto dispensatore di ricchezza, non solo distribuendo risorse finanziarie, ma soprattutto creando in capo a singoli soggetti situazioni economicamente vantaggiose – sussidi, sgravi fiscali, incentivi, licenze, autorizzazioni all'esercizio di attività, concessioni di servizi. Tutto quest'insieme di largess, di attribuzioni provenienti dal pubblico, rimaneva tuttavia nella sfera delle "elargizioni", affidate ad una discrezionalità politica e amministrativa nella quale si rifletteva, distorto, quel passaggio dalla proprietà al lavoro, a "quel nuovo perno della stratificazione sociale che è l'occupazione", indagato con tanta profondità e sottigliezza da Wright Mills. Sembrava a Reich che in questo passaggio "dalla proprietà alla non proprietà" si fossero perdute le garanzie che devono accompagnare la persona nel momento in cui affida le proprie scelte e il proprio futuro a "beni" di incerta stabilità, che possono essergli sottratti da una decisione del pubblico potere. La strada indicata nell'affrontare le "non proprietà" era quella di attribuire anche ad esse le medesime prerogative costruite intorno allo storico modello proprietario. Da qui "la nuova proprietà", proiezione nel mondo nuovo di un passato rassicurante.

[...]


Se rivolgiamo l'attenzione alle diverse categorie di beni in proprietà, e le consideriamo in chiave storica e non ideologica, è forse possibile avviare una analisi più adeguata delle realtà che abbiamo di fronte. Sappiamo tutti che pure i diversi trionfi della proprietà privata nella modernità occidentale individuale non hanno lasciato dietro di sé solo «reliquie» degli altri regimi, dal momento che non sono mai state eliminate del tutto le aree nelle quali è possibile ritrovare gestioni pubbliche o collettive di beni. E pure l'imposizione di un regime di proprietà di Stato o comunitario non ha potuto del tutto cancellare l'attribuzione esclusiva di taluni beni ai singoli, fossero pure soltanto quelli legati alla vita quotidiana. Ma è appunto questa alternante logica binaria ad essere ormai inadeguata, intersecata com'è sempre più intensamente dall'attribuzione di una molteplicità di beni alla diversa categoria della proprietà comune. Che, tuttavia, non deve essere considerata con lo sguardo nostalgico di chi vede in questo fenomeno il semplice ritorno ai tempi che precedettero, in Inghilterra, le "enclosures" delle terre comuni e, altrove, il predominio della proprietà solitaria. Non è tanto il ritorno a "un altro modo di possedere", ma la necessaria costruzione dell'"opposto della proprietà".

Questo è un punto da considerare con attenzione, non per liberarsi del passato, ma perché talune ricostruzioni in materia di beni comuni portano con sé, espliciti o impliciti, chiari riferimenti alla premodernità, di cui talora si propone una rivalutazione. "Nel nuovo medioevo i tempi sembrano maturi per rivolte ed insurrezioni". Si coglie qui una consonanza con il "neomedievalismo istituzionale", al quale si è riferito insistentemente, e con maggiore determinazione di altri, Manuel Castells , partendo dalla premessa che "la rete, per definizione, ha dei nodi, ma non ha un centro", con effetti di policentrismo, di dispersione "dei poteri sovrani fra attori diversi tra loro non gerarchizzati e che non insistono sul medesimo territorio". La genealogia di questa vicenda ci porta a constatare che la categoria del "Nuovo Medioevo" è stata coniata negli anni della guerra fredda e ha conosciuto una crescente fortuna negli anni recenti, soprattutto in relazione al processo di costruzione dell'Unione europea. Ora, senza poter qui esaminare in dettaglio una questione così complessa e culturalmente sfaccettata, si deve comunque osservare che essa ha costituito il riferimento forte per una ricostruzione delle dinamiche della globalizzazione in termini di pluralità di "costituzioni civili", con due possibili indicazioni per quel che riguarda i beni comuni, solo nelle apparenze contraddittorie. Se, infatti, il neomedievalismo induce a mettere l'accento piuttosto sull'esistenza di una pluralità di centri, irriducibili a logiche "comuni" e ciascuno governato da portatori di interessi diversi, il rischio dell'impossibilità di una fondazione unitaria del "comune" diviene evidente. Se, invece, la molteplicità dei contesti all'interno dei quali si collocano i diversi beni permette di coglierne la specificità, questa analisi realistica consente di sprigionare le potenzialità di cui ciascun bene è portatore. In modo efficace si è detto che un uso estremamente lato dell'espressione beni comuni "può comprometterne l'efficacia espressiva e banalizzarne il senso", sì che "è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione beni comuni sia possibile costruire una categoria unitaria di risorse". Un lavoro di analisi, dunque, e di ricomposizione, che porta anche a esaminare in forme differenziate il rapporto tra accesso e gestione, dunque lo stesso significato della partecipazione.

Se, ad esempio, si considera la conoscenza in Rete, uno dei temi centrali nella discussione, ci si avvede subito della sua specificità. Luciano Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale. Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo ad una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si estrae questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet? Di nuovo una sfida alle categorie abituali. La tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l'individuazione di un gestore, ma attraverso la definizioni dalle condizioni d'uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti minimi resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. Θ il modo stesso in cui il bene viene "costruito" a renderlo accessibile a tutti gli interessati.

Sono dunque le caratteristiche di ciascun bene, non una sua "natura", a dover essere prese in considerazione, dunque la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l'attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell'interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell'umanità" e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.

Θ aperta una essenziale partita sulla distribuzione del potere. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una "società idraulica", che consentiva un controllo autoritario dell'economia e delle persone. Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l'acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, dunque ancora una volta "l'opposto della proprietà".

Molte sono le divaricazioni da considerare nella loro storicità, sfuggendo così alle trappole ideologiche di cui è disseminata la riflessione sui beni comuni. Tra utilizzazione del bene e produzione di profitto. Tra disponibilità di un bene e sua "recinzione", che impedisca utilizzazioni da parte di altri. Tra diritti di proprietà e creatività intellettuale. Tra beni materiali e beni comuni virtuali. Tra valore economico e riduzione a merce. Tra sguardo locale e proiezione globale. Un punto chiave della discussione è rappresentato dalla conoscenza, bene comune globale, per il quale si continua a ripetere che non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l'argomento della accresciuta produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l'oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l'accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell'irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sosteníbilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall'innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l'effetto ben può essere quello di "un'erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo.

In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s'erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell'estrema individualizzazione degli interessi, s'incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell'uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell' eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell'accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, stanno divenendo, o rimangono, più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d'ogni persona.

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Il punto culturalmente e politicamente più significativo di questa rinnovata fondazione non proprietaria consiste nel ridare centralità al legame sociale, mettendo in discussione il modello individualistico senza però negare le libertà della persona che, anzi, conquistano più efficaci condizioni di espansione e inveramento per il collegamento con i diritti fondamentali. Ma la luce dei beni comuni rischia di abbagliare, lasciando intendere che quasi ci si può disinteressare di proprietà pubblica e proprietà privata. Contemplando solo íl loro orizzonte, infatti, spesso si trascura poi l'effetto di sistema che essi producono. Da una parte, anche la proprietà pubblica deve essere liberata dai tradizionali schemi astratti che ancora la imprigionano, demanio e patrimonio, a vantaggio di una classificazione che muova dalle funzioni proprie dello Stato e delle sue articolazioni fino a contemplare beni di cui deve essere garantita la miglior utilizzazione sociale e economica possibile. La proprietà privata, dal canto suo, non soltanto è stata relativizzata rispetto agli schemi esclusivi d'ogni interesse diverso da quello del proprietario, ma appunto deve essere intesa e regolata in funzione delle attitudini dei beni che la costituiscono, anch'essi riportati, sia pure con modalità peculiari, al fatto che anch'essa "vive in società", con una rilevanza sempre più marcata di sue componenti "pubbliche" e "comuni", messe in evidenza da una molteplicità di strumenti giuridici, dai piani regolatori alle discipline sull'ambiente.

La proiezione della persona nel mondo, infatti, non passa soltanto attraverso i beni comuni, né la rilevanza dei diritti fondamentali, per quanto riguarda il rapporto con i beni, si esaurisce in quella sola dimensione. La specialità della relazione istituita dai beni comuni, come già è stato sottolineato, risiede nell'attitudine di questi beni, storicamente accertata attraverso il raccordo con i diritti fondamentali, a soddisfare bisogni della persona costituzionalizzata, dunque non di un soggetto astratto, costruito nell'indifferenza per la materialità del vivere. Si va così oltre una sorta di contemplazione dell'orizzonte dei diritti fondamentali, lontano e talvolta irraggiungibile. L'intreccio tra beni comuni e diritti fondamentali produce un concreto arricchimento della sfera dei poteri personali, che a loro volta realizzano precondizioni necessarie per l'effettiva partecipazione al processo democratico. Si potrebbe dire che, per tale via, si costruisce una rinnovata opportunità di ricongiungimento tra l'uomo e il cittadino. Si individua così uno spazio appunto "comune" tra individuo e Stato con la creazione di una categoria di beni metastatuale e metaindividuale.

Ma i beni comuni si distendono pure in una dimensione più larga dove, accanto al riferimento ai diritti fondamentali, compare quello riguardante un governo del cambiamento inteso come salvaguardia dell'ecosistema e della stessa sopravvivenza dell'umanità. Anche qui, evidentemente, compaiono diritti, come quello alla tutela dell'ambiente, e soggetti ai quali sono riferibili — l'umanità, le generazioni future.

"I processi ipermoderni e globali sono intrisi di beni virtuali, cognitivi e normativi". Non tutti necessariamente comuni, ovviamente. E tuttavia proprio in questa dimensione il "comune" è riferimento ineludibile per identificare le risorse necessarie per governare il cambiamento globale, il "global change" - un processo in continuo divenire, non un assetto consolidato. Queste risorse, però, possono presentarsi esse stesse come i beni da salvaguardare: le diverse forme della conoscenza, prodotte non soltanto dall'innovazione tecnologica, ma precipitato storico di culture, tradizioni, esperienze, "saper fare" sedimentato nei secoli; le risorse naturali; i beni culturali, ambientali, archeologici, paesaggistici. Per quest'insieme di beni si pongono, insieme problemi di tutela, per sottrarli a nuove "chiusure", a logiche che costruiscono le condizioni istituzionali per la loro entrata nel circuito mercantile; e problemi di "messa in valore", per evitare una tragedia degli "anticommons", della sottoutilizzazione delle loro potenzialità.

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