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| << | < | > | >> |Indice7 Avvertenza Passaggio a Occidente 11 1. Nostalgia del presente 1. Mundus e globus, 11 2. Globalizzazione e secolarizzazione, 25 3. Congiunzioni e disgiunzioni, 34 4. Theatrum Orbis, 43 5. Asse del mondo e dissesto globale: «Orienti» e «Occidenti», 56 6. Il paradigma nostalgico, 72 Riferimenti bibliografici, 77 84 2. Identità e contingenza. Zone di confine 1. Un'ambigua «attualità», 84 2. Confini, 86 3. Valori, 88 4. Linguaggio, 94 5. Tecnica, 96 101 3. Dämmerung: nel crepuscolo della sovranità. Stato, soggetti, diritti fondamentali 1. Le due metà dell'Occidente: «modello continentale» e «modello oceanico», 101 2. Esperienza giuridica e immaginario statuale, 104 3. Common law e civil law: diaspora e contaminazione, 115 123 4. L'esilio del Nomos. Carl Schmitt e la globale Zeit 1. Un giurista ai confini del diritto, 123 2. La teologia politica, 126 3. Il concetto di «politico», 133 4. Contro Weimar: spoliticizzazione e dominio della tecnica, 135 5. La teoria del Nomos come «ordinamento concreto»,139 143 5. Dono, scambio, obbligazione. Karl Polanyi e la filosofia sociale 1. Al di là di Stato e mercato, 143 2. Economia e società: Karl Marx e Max Weber, 150 3. «Aristotele aveva ragione»: la critica all'individualismo moderno, 157 4. Paradossi del dono: Polanyi, Mauss e le «scienze diagonali», 162 Riferimenti bibliografici, 169 172 6. Universalismo e politiche della differenza. La democrazia come comunità paradossale 1. La differenza occidentale, 172 2. Il «grande freddo», 175 3. La dimensione dimenticata, 177 4. Pluralismo e conflitto di valori, 182 5. Bene comune e self-refuting prophecy, 185 193 7. Lo specchio orientale. Voltaire e le radici dell'intolleranza 1. Dopo il terremoto, 193 2. Civile intolleranza, 197 3. Dalla tolleranza al rispetto, 200 202 8. Cifre della differenza 1. Confine e limite, 202 2. Oltre il dualismo natura-cultura, 205 3. Multiple self: differenza e identificazione, 211 Riferimenti bibliografici,216 219 9. L'Europa dopo il Leviatano. Tecnica, politica, Costituzione 1. Il futuro dell'Europa: dalla società protetta alla «società del rischio», 219 2. Stato e Costituzione: la controversia tra Dieter Grimm e Jürgen Habermas, 222 3. Le insidie del potere costituente, 225 4. L'Unione europea e l'«ordine post-hobbesiano»: il multilevel system of government, 232 5. L'Europa e la «costellazione postnazionale»: la tenaglia del glocal e le nuove tendenze all'universalizzazione, 234 6. Pluriverso politico e «Costituzione senza Stato» (Conclusioni provvisorie), 239 Riferimenti bibliografici, 241 245 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 7AvvertenzaIl libro è organizzato a raggiera. Il primo capitolo intende fornire una mappa teorica del globale che si conclude, dopo una critica delle diverse posizioni in campo, con l'enunciazione della tesi del passaggio a Occidente. Tutti gli altri capitoli rappresentano delle «circumnavigazioni» di epicentri tematici specifici: identità/differenza, politica/diritto, sovranità/èra globale, dono/scambio, democrazia/comunità, tolleranza/riconoscimento, Europa/sfera pubblica postnazionale. | << | < | > | >> |Pagina 121.
Nostalgia del presente
1. Mundus e globus I fenomeni politici della nostra epoca sono accompagnati e resi più complessi da un mutamento di scala senza precedenti, o piuttosto da un mutamento nell'ordine delle cose. Il mondo al quale cominciamo ad appartenere, uomini e nazioni, è soltanto una controfigura del mondo che ci era familiare. Il sistema delle cause che governa il destino di ognuno di noi, estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa a ogni scossa riecheggiare tutto quanto: non esistono più questioni delimitate, anche se possono esserlo in un singolo punto. Queste considerazioni, che paiono uscite appena ieri, all'inizio del XXI secolo, dalla penna di un filosofo della nostra era globale, sono state scritte nel 1928 da Paul Valéry e poi raccolte con i suoi straordinari pensieri sulle grandi trasformazioni del periodo tra le due guerre in Regards sur le monde actuel (trad. it., pp. 36 sg.). È essenziale partire da esse, se si vuole sperare di fare chiarezza sul complesso di eventi, processi ed esperienze implicati dal termine globalizzazione: lemma ubiquitario, la cui semantica ha ormai oltrepassato l'ambito economico-tecnologico per investire le dimensioni della società e della politica, della religione e della cultura. La filosofia occidentale ci ha insegnato sin dai suoi esordi a diffidare del linguaggio, delle sue false evidenze, della potenza racchiusa nell'ingannevole trasparenza delle parole. Il monito dovrebbe valere a maggior ragione nell'attuale società della comunicazione: dove il ricorso a un'espressione allusiva e polisemica consente, per un'arcana taumaturgia, di evitare il «lavoro del concetto» con i suoi indispensabili correlati di analisi e sintesi, scomposizione e ricostruzione, differenziazione e confronto. [...] Nel primo caso, l'odierna globalizzazione, pur nella sua indiscutibile ampiezza e rilevanza, non sarebbe che l'ultimo (provvisorio) capitolo della serie di globalizzazioni successive che caratterizzano il processo di civilizzazione: La globalizzazione - ha osservato di recente Amartya Sen - non è un fatto nuovo e non può essere ridotta a occidentalizzazione. Per migliaia di anni, la globalizzazione ha contribuito al progresso del mondo attraverso i viaggi, il commercio, le migrazioni, la diffusione delle culture, la disseminazione del sapere (incluso quello scientifico e tecnologico) e della conoscenza reciproca. Il movimento delle influenze ha preso direzioni di volta in volta diverse. Per esempio, nella parte finale del millennio appena trascorso il flusso è stato in larga misura dall'Occidente verso l'Oriente, ma al suo inizio (attorno all'anno Mille) l'Europa stava assimilando la scienza e la tecnologia cinese e la matematica indiana e araba. Queste interazioni sono un'eredità mondiale, e la tendenza contemporanea è coerente con questo sviluppo storico (Sen 2002, p. 4). Nel secondo caso, la globalizzazione rappresenterebbe al contrario una rottura tale da rendere obsolete le categorie classiche della modernità filosofica e politica (Stato, popolo, sovranità, nazione, centro/periferia, pubblico/privato, ecc.), che sarebbero ormai di venute parole-zombie o, per dirla con una perentoria definizione di Theodor W. Adorno, eccellenti «cadaveri concettuali»: mere sopravvivenze e resistenze inerziali di un paradigma irrevocabilmente passato. Per i sostenitori di questa tesi «discontinuista» - Martin Albrow in testa - non si dovrebbe a rigore parlare più di un processo di globalizzazione, quanto piuttosto dell' avvento di un'età globale strutturalmente e qualitativamente diversa dall'età moderna. The Global Age has arrived: e, «paradossalmente, [...] nell'Età Globale "globalizzazione" già comincia a perdere il suo significato di processo storico complessivo» (Albrow 1996, p. 107). È difficile prevedere in che misura gli argomenti presentati dall'una e dall'altra parte siano in grado di dar luogo a due veri e propri paradigmi teorici concorrenti. Allo stato attuale, essi sembrano soltanto dar voce a due mezze verità: lasciando impregiudicata la possibilità di fare interagire un aspetto a mio avviso decisivo della tesi «continuista» di Sen, ossia la critica dell'equazione globalizzazione = occidentalizzazione, con l'esigenza, avanzata dalla tesi «discontinuista» di Albrow, di una caratterizzazione differenziale del Global Age. Su questa base intendo prospettare - lo si vedrà in seguito - la mia tematizzazione filosofica della globalizzazione come passaggio a Occidente: dove «passaggio» adombra, a un tempo, il continuo e il discontinuo, il processo e la svolta. Ma qui sorge - per chi non sia disposto ad appaesarsi nella presunta autoevidenza degli idola fori che affollano la comunicazione pubblica - una questione preliminare: in che senso e a quali condizioni il termine globalizzazione è effettivamente in grado di «comprendere» la pletora di fenomeni di cui, con maggiore o minore pertinenza descrittiva, indubbiamente dà conto? E inoltre: l'ambivalenza sottintesa nel suo uso - ora come oggetto d'indagine, dinamica «fattuale» di eventi, ora come criterio metodologico di interpretazione - non tradisce forse la sua natura di mero slogan, di «parola senza concetto»? | << | < | > | >> |Pagina 22Tutta la terra abitabile è stata ai giorni nostri perlustrata, rilevata e divisa tra le nazioni. L'èra delle lande disabitate, dei territori liberi, dei luoghi che non appartengono a nessuno, ovvero l'èra della libera espansione, è chiusa. Non vi è roccia che non rechi una bandiera; non vi sono più vuoti sulla carta, né regioni senza dogane e senza leggi, né una tribù le cui vicende non producano un qualche dossier e non dipendano, per via dei malefici della scrittura, da vari umanisti lontani nei loro uffici. Comincia l'èra del mondo finito (Valéry 1931; trad. it., p. 23).Riesaminata in controluce, la diagnosi di Valéry reca nelle sue pieghe l'intuizione preziosa di una segreta corrispondenza tra i due richiami simbolici della globalizzazione: mundus e globus, espansività e compiutezza. Ma, tradotta sul piano del concetto, quella geniale intuizione pare introdurci a una direzione obbligata: la necessità di fare interagire fra loro le costellazioni semantiche sottese alle categorie di globalizzazione e secolarizzazione, evidenziandone le interferenze e i campi di tensione. Si tratta, in altri termini, di allestire un dispositivo teorico estremamente delicato e complesso, di cui il presente libro vuole essere soltanto il primo avvio. Considerare la dinamica secolarizzante della mondializzazione in rapporto alla nuova dimensione globale impone innanzi tutto una riformulazione radicale del «teorema della secolarizzazione». Se in senso lato, infatti, la secolarizzazione denota ogni processo di desacralizzazione, come per esempio quello operato dal logos filosofico greco nei confronti del mito o dal profetismo ebraico nei confronti delle precedenti forme magico-rituali di religiosità, in senso stretto essa designa un tratto caratteristico della modernità europea: la separazione di religione e politica sancita alla metà del XVII secolo (con la Pace di Westfalia del 1648) dalla fine delle guerre civili confessionali e dall'affermazione della sovranità «intramondana» dello Stato. Dobbiamo adesso chiederci: quale catena di effetti, quale circuito di azioni-reazioni questa peculiare acquisizione della civiltà europeo-occidentale - da cui discende in linea diretta la conquista evolutiva rappresentata dalla differenziazione funzionale tra le sfere del diritto e della morale - determina con il passaggio dall'ordine internazionale fra Stati-nazione sovrani al nuovo (dis)ordine globale? Tale questione rappresenta un passaggio ineludibile per spostare il baricentro delle controversie intorno alla globalizzazione dal terreno tecnico-economico a quello politico-culturale: non per nulla il neologismo globalization fa la sua prima comparsa negli anni sessanta proprio nell'ambito del diritto internazionale, per indicare i nuovi termini del «problema hobbesiano dell'ordine» (secondo una celebre definizione introdotta da Talcott Parsons nella sua opera del 1937 The Structure of Social Action) dopo la fine del «modello Westfalia», ossia di un assetto delle relazioni internazionali orchestrato dalle potenze europee e fondato sull'esclusione di aree, paesi e popoli «non-sovrani» o a «sovranità limitata» (cfr. Friedmann 1964; Roling 1966). Il nodo nevralgico di questo passaggio è costituito dalla possibilità di ridefinire le categorie di modernità-mondo e di società-mondo (introdotte rispettivamente dai sociologi brasiliani Octavio Ianni e Renato Ortiz e dal teorico tedesco dei sistemi Niklas Luhmann) al fine di qualificare il paradosso soggiacente alla logica e alla struttura di una realtà globale che si presenta a un tempo come unipolare e multicentrica: una realtà planetaria, a voler essere rigorosi, non solo policentrica - malgrado l'indiscutibile egemonia tecnologico-economica e strategico-militare degli Stati Uniti - ma anche multidimensionale e pluridirezionale (cfr. in proposito Rosenau 1990). La crucialità e delicatezza dell'operazione teorica consiste nel fare interagire le due ottiche della globalizzazione e della secolarizzazione per sottrarle a due rischi opposti e speculari: a) il rischio dell'omologazione e dell'unificazione forzosa, latente nelle interpretazioni che assumono la modernità come un piano universale dato, precostituito, anziché come un campo problematico aperto e conflittuale; b) il rischio della separazione e della dissociazione, proprio degli schemi interpretativi dualistici che assumono l'idea della mondializzazione in funzione di un'immagine essenzialmente dicotomica della coppia globale/locale, intendendo il secondo termine come fattore meramente reattivo (sul piano socioeconomico o su quello cultural-identitario) rispetto alla dinamica espansiva della modernità. Il doppio versante del rischio è ben rappresentato dalle antitetiche letture della globalizzazione fornite da Francis Fukuyama (1992) e da Samuel Huntington (1996). Sottrarsi alla loro speculare unilateralità significa tentare di elaborare un modello teorico della modernità-mondo in cui i due lati del globale e del locale, dell'uniformazione tecnologico-comunicativa e della differenziazione cultural-identitaria, non si contrappongono in una statica alternativa ma si compenetrano dinamicamente in una relazione «interfacciale». In breve: se per un verso la globalizzazione non deve essere intesa come un'omologazione universale sotto il dominio onnipotente della Tecnica e del Mercato (Fukuyama) ma come una nuova interdipendenza economico-finanziaria e socioculturale dischiusa dalle tecnologie digitali del «tempo reale», per l'altro non può essere neppure letta, secondo un'ottica diametralmente rovesciata e altrettanto riduttiva, come uno «scontro di civiltà» (Huntington) ma come una faglia di tensioni conflittuali che attraversa tutte le civiltà tagliando trasversalmente tanto il globale quanto il locale (sotto questo profilo, il richiamo più perspicuo per intendere la natura dei contrasti interni alla modernità-mondo - emersi in modo eclatante con gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono potrebbe essere rappresentato, semmai, dalla scena influente delle guerre di religione: salvo rarissimi casi, infatti, i conflitti religiosi non si identificano sic et simpliciter con «civiltà» intese come blocchi omogenei e compatti, ma tendono piuttosto ad attraversarle, scompaginando le identità etniche o culturali precostituite). Una volta che ci saremo lasciati alle spalle la discordia concors tra la tesi dell'omologazione individualistico-mercantile e la tesi dello scontro tra civiltà, la globalizzazione si presenterà nei suoi caratteri effettivi: non come «occidentalizzazione del mondo» (Latouche 1989), e neppure come mera «deoccidentalizzazione» e «desecolarizzazione», ma come passaggio a Occidente di tutte le culture come un transito verso la modernità destinato a produrre trasformazioni profonde nell'economia, nella società, negli stili di vita e nei codici di comportamento non solo delle civiltà «altre» ma della stessa civiltà occidentale. | << | < | > | >> |Pagina 434. Theatrum OrbisA questo punto occorre compiere un passaggio fondamentale. Glocal non designa soltanto il fenomeno dell'interdipendenza, bensì del cortocircuito, della «interpenetrazione» contrastivo-compulsiva delle due dimensioni del globale e del locale: della saldatura dei due movimenti - intimamente intrecciati - della globalizzazione del locale e della localizzazione del globale. Ma - e qui veniamo al punto - in che senso si parla di «cortocircuito»? Il cortocircuito è determinato dal fatto che è saltato l'anello intermedio dell'ordine internazionale moderno, rappresentato dallo Stato-nazione e dalla struttura che finora lo sorreggeva: l'isomorfismo tra popolo, territorio e sovranità. Il paradosso della produzione globale di località fa tutt'uno con i tratti tipici che contraddistinguono questa globalizzazione da tutte le fasi che l'hanno preceduta. Il tratto principale va individuato nel nuovo assetto politico del mondo, definito da Habermas «costellazione post-nazionale» e da Philippe Schmitter «ordine post-hobbesiano»: con connotati semantici per certi versi analoghi all'espressione da me adottata «dopo il Leviatano». L'attuale mondializzazione non consiste né in una generica interdipendenza, né in una pura e semplice apertura transcontinentale dei mari: entrambe queste condizioni si erano infatti realizzate nelle «ondate» precedenti con la scoperta del Nuovo Mondo e con la creazione del mercato moderno. La novità va dunque rintracciata altrove: nella rottura del «modello Westfalia», ossia del sistema di relazioni internazionali imperniato - a partire dalla fine delle guerre civili di religione del XVI-XVII secolo - sulla figura dello Stato-nazione sovrano territorialmente chiuso. Da questo punto di vista, l'odierna globalizzazione innesca, se non la fine (poiché, sotto il profilo strutturale, la forma-Stato appare per il momento destinata a durare, mentre, sotto il profilo strettamente quantitativo, il pianeta ha conosciuto negli ultimi anni un vero e proprio boom delle nascite di Stati nazionali o subnazionali), certo un declino del Leviatano e un'erosione costante delle sue prerogative sovrane. Questo processo si è sviluppato a un ritmo esponenziale a partire dal 1989, in seguito alla caduta del muro divisorio del mondo su cui si reggevano le sorti del sistema bipolare (cfr. Ohmae 1990; Id. 1995). Ma la massa critica degli effetti determinati da quella frattura, lungi dall'innescare un trend di unificazione e uniformazione in direzione di uno «Stato mondiale» (secondo la prognosi di Junger) o di una «repubblica cosmopolitica» (secondo gli auspici di Kant), ha dato luogo a una sorta di iperspazio contratto, internamente squilibrato e costituzionalmente refrattario a qualsivoglia reductio ad unum improntata alla logica esclusivistica della sovranità. Come si atteggia, allora, l'ossimoro del glocale dopo il Leviatano: nel nuovo ordine (o disordine) «post-hobbesiano»? | << | < | > | >> |Pagina 2003. Dalla tolleranza al rispettoÈ il caso di riflettere - avviando ci alla conclusione - sul rigore e sull'eleganza di questa formula: La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibiti e inclini all'errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani. Il fatto che un filosofo come Karl Popper abbia, in anni recenti, avvertito il bisogno di ritrascriverla più o meno in questi termini, assimilandola al suo «fallibilismo», testimonia della straordinaria vitalità della definizione volterriana di tolleranza. Vitalità straordinaria, ma al tempo stesso dal sapore paradossale, in quanto pienamente comprensibile solo oggi: dopo la crisi delle idee di Progresso e di Storia orientata, maturate in una fase successiva a quella in cui Voltaire visse e operò. E tuttavia Popper è consapevole che la ripresa di quella formula deve fare i conti con uno scenario radicalmente mutato: nelle odierne società democratiche, al problema della tolleranza religiosa si affianca il problema della tolleranza politica e ideologica. Voltaire, inoltre, non poteva prevedere che in tali società «sarebbero sorte delle minoranze che accettano il principio di intolleranza». Muovendo da queste premesse Popper (e, sulla sua scia, tutta una nutrita schiera di autori) pone una questione cruciale per il funzionamento dei sistemi democratici: la questione dei limiti della tolleranza. Problema cruciale, ma per nulla nuovo: se lo ponevano già con chiarezza Locke e Rousseau; e cos'altro adombrava, se non la questione dei limiti, il finale dell'articolo Tolérance dell' Encyclopédie, con il monito a non confondere tolleranza politico-religiosa e tolleranza speculativa, ossia la «perniciosa indifferenza» di cui parlava Bayle (e che Popper chiamerebbe invece «relativismo»)? Ma a questo punto occorre porsi un ulteriore, e più radicale, interrogativo: se è vero che lo scenario è mutato nei termini sopra indicati, ha ancora un senso mantenere il termine «tolleranza»? Abbiamo tutti presente il dibattito suscitato sul finire degli anni sessanta dalla tesi della «tolleranza repressiva» prospettata da Herbert Marcuse. Pochi si sono accorti, però, che il nucleo centrale di quella tesi era stato già compiutamente enunciato nel 1789 da Mirabeau all'Assemblea nazionale francese: «La parola tolleranza mi sembra essa stessa tirannica [...] poiché l'esistenza dell'autorità, che ha il potere di tollerare, attenta alla libertà di pensiero per il fatto stesso che essa tollera, e che dunque potrebbe non tollerare più». Un passo avanti verso un ulteriore approfondimento del tema ci porterebbe ad affermare che la tolleranza presuppone sempre un'autorità fuori discussione: se io ti tollero, ti «sopporto», ciò significa che vi è da parte mia un atteggiamento di tacita condiscendenza, dietro il quale si cela una radicale svalutazione della portata di «verità» della tua posizione. Lungo questa via, i gruppi sociali che operano all'interno delle società democratiche dell'Occidente sono venuti gradualmente spostando l'asse delle proprie rivendicazioni dal piano «verticale» della lotta per la tolleranza al piano «orizzontale» della politica del riconoscimento. Ma, nel frattempo, è radicalmente mutata la natura dei «soggetti»: non più soltanto gruppi religiosi o aggregazioni sociali e politiche di interessi, ma identità collettive (etniche, culturali, di genere), il cui agire sottopone a tensione le tradizionali sfere liberaldemocratiche della «cittadinanza». Esse non si limitano a rivendicare maggiore partecipazione e inclusione procedurale negli istituti dell'universalismo democratico, ma chiedono di essere riconosciute nella loro irriducibile autonomia e differenza specifica. Percorrendo questo asse - si diceva - il baricentro del conflitto si è sempre più decisamente spostato (in specie negli Stati Uniti e nel Canada del politically correct) dal tema della tolleranza a quello del rispetto. Sarebbe un'acquisizione rilevante, se dietro la preoccupazione per il riconoscimento non si annidassero i rischi di una nuova intolleranza: indotta, questa volta, non da un potere assoluto, paternalistico o illiberale, ma dalla latente ostilità tra differenze «blindate», che si rapportano le une alle altre come monadi senza porte né finestre. Per questa via paradossale il problema della tolleranza, superato sotto il profilo di una logica verticale dell'autorità, sembra ritornare di attualità nei termini inediti di un'orizzontalità del conflitto interculturale, che minaccia di assumere gli accenti fondamentalistici delle vecchie guerre di religione. E, in questa temperie, rileggere il vecchio Voltaire, riacclimatarsi con la suprema ironia che alimenta la sua rilevazione impietosa del potere, delle ingiustizie e dei mali del mondo, equivale a una salutare boccata d'ossigeno. | << | < | > | >> |Pagina 206Vorrei adesso considerare la seconda accezione di differenza. Anche in questo caso, mi riferirò per comodità a una versione particolarmente esplicita e radicale, tratta dagli esiti più recenti della riflessione nordamericana: la proposta postfemminista di Donna Haraway. Si tratta, com'è noto, della formulazione provocatoria di un cyborg al femminile. Per la Haraway, il dualismo sex/gender non era null'altro che la riproposizione della vecchia dicotomia natura-cultura. Dobbiamo dunque insistere, dice la Haraway, sul gender come su una nozione che si emancipa sempre più dalla fissità del sesso. In breve: il gender come differenza sessuale è anch'esso una differenza costruita. Potremmo aggiungere a questo punto: una differenza culturalmente costruita. Ma una precisazione siffatta sarebbe legittima solo qualora avessimo deciso di restare all'interno della dicotomia natura-cultura. Si dà il caso, invece, che proprio tale dicotomia venga fatta esplodere dalla riflessione di Haraway. Il gender non è un mero costrutto culturale. È piuttosto il prodotto di una costruzione che non può essere indifferente, per esempio, alla rivoluzione dell'immagine del mondo fisico, dell'immagine del bios, della vita, e quindi non può essere indifferente all'effrazione della logica identitaria determinata dall'avvento delle biotecnologie. Esse fanno del corpo, di quello spazio-corpo da cui partiva il primo pensiero femminista, un'entità per l'appunto costruibile: un artificio scientifico ma al tempo stesso anche estetico. Nel costruttivismo della Haraway i confini tra l'estetico e il biologico tendono a contaminarsi, anzi letteralmente a con-fondersi, in una plateale condivisione. Abbiamo quindi, in questa riflessione estrema del postfemminismo (in cui rientrano - detto per inciso - altre posizioni significative che non posso qui analizzare: come per esempio quella di Judith Butler), una crisi irreversibile delle matrici identitarie: crisi che si proietta decisamente in direzione del postumano, dell'ibridazione del corpo con la macchina. I corpi appaiono sempre più come dei testi codificati.Per afferrare il senso di questo passaggio occorre prendere atto della rivoluzione silenziosa che negli ultimi decenni ha investito in Occidente il concetto di natura. Per essere molto sintetico, dirò che nella tradizione del pensiero occidentale abbiamo fino a non molto tempo fa operato sulla base di due concetti di natura dominanti, che schematizzerei nel modo seguente. La natura come tempio, come kósmos: spazio perfettamente delimitato, e in sé perfettamente conchiuso e armonico («cosmo» e «cosmetica» derivano, non per nulla, dallo stesso etimo), all'interno del quale ricorrevano gli eventi. Ogni hybris, ogni violazione della sacralità dei confini del Kosmos dava luogo a una reazione, a un contraccolpo di violenza uguale e contraria, che ripristinava l'ordine infranto. È l'idea di natura che ha dominato nell'età classica e che dall'epoca greca e romana si è trasmessa (con sensibili emendamenti che non è qui il caso di specificare) lungo tutto il Medioevo, fino all'insorgere della prima rivoluzione scientifica della modernità: quella galileiano-newtoniana. Varcata la soglia della «rivoluzione copernicana», vediamo subentrare un altro concetto di natura. Lo definirò, insistendo nel ricorso alle metafore, natura come laboratorio. Non più kósmos, non più tempio, spazio sacro precostituito, predelimitato, «a somma zero», ma universum: termine che - sin dal suo significato letterale di «volgimento unidirezionale» - esprime la potenza omologatrice di uno spazio uniforme, matematico, non più qualitativo (come nell'Antichità) ma quantitativo e misurabile. La natura si trasforma così in laboratorio: sezione dello spazio-universo omogeneo ritagliabile ed estrapolabile per l' experimentum: passaggio necessario a carpire alla natura i suoi segreti e a formularli in leggi. È questa l'idea-prassi di natura invalsa fino a poco tempo fa: fino all'esaurirsi dell'epoca della rivoluzione industriale. Natura come tempio, natura come laboratorio. Rispetto a queste immagini della natura così influenti e di lunga durata, lo scenario appare oggi radicalmente mutato. Non solo per la rottura determinata da eventi come la relatività einsteiniana e la meccanica quantistica e dai loro sviluppi contemporanei (di cui ho cercato di scorgere le implicazioni filosofiche nei miei libri sulla questione del tempo: Minima temporalia e Kairós). Ma anche per la silent revolution, per il rivolgimento subcutaneo del paradigma scientifico moderno che si è prodotto negli ultimi decenni e che ha fatto ormai il suo Durchbruch ins Freie, la sua irruzione all'aperto, attraverso la funzione egemonica della biologia, delle scienze della vita. L'esito prorompente di questa rivoluzione silenziosa ha posto al centro della scena un nuovo concetto di natura: la natura come codice. Nell'idea di natura come codice abbiamo, rispetto alle due precedenti intuizioni della natura, lo scompaginamento di un altro dualismo tradizionale che aveva attraversato tutto il pensiero antico e poi quello moderno: il dualismo di soggetto e oggetto. È un caso eclatante di esperienza-limite e di dissolvimento delle linee di confine tradizionali. Nell'odierna visione della natura soggetto e oggetto, lungi dal configurare un'antitesi, appaiono formalmente omologhi: isomorfi nel codice. Il soggetto indagante e sperimentante è informato da un codice esattamente come l'oggetto dell'indagine e della sperimentazione. Con-fina con esso nel senso della condivisione piuttosto che dell'estraneità e della separazione. Il limite si pone nel senso che nessuno può osservare il codice in base al quale osserva. In filosofia questo tipo di paradosso era stato genialmente prefigurato - in termini logico-filosofici - dal «primo» Wittgenstein, e pragmaticamente superato poi dal «secondo» Wittgenstein. Come per il Wittgenstein del Tractatus noi non possiamo fuoriuscire dal linguaggio, che coincide in tutto e per tutto con la latitudine del «nostro» mondo - come non possiamo «dire» i limiti del linguaggio o, che è lo stesso, non possiamo descrivere la totalità del linguaggio-mondo, ma soltanto «mostrarne» il bordo - così per il paradigma scientifico oggi dominante non è possibile evadere dal codice, ma soltanto forzarne i limiti dall'interno: manipolandolo e riproducendolo. In una parola: facendo della natura stessa un prodotto dell'artificio. Ancora una volta, dunque, confini violati. E, con lo scompaginamento dei confini, revoca di un altro blasonatissimo e classicissimo dualismo: natura/artificio. Attenzione, però: il dualismo è in tanto revocato - la natura appare in tanto «artificializzata» - in quanto l'artificio stesso partecipa del carattere-di-codice della natura. Biologia dell'artificio: nessuna formula pare adattarsi meglio alla temperie di questo passaggio di millennio. Soggetto e oggetto sono similari in quanto appartengono allo stesso codice. Osservatore e osservato sono dentro il great code. L'ombra del Grande codice sovrasta e abbraccia ormai non solo il bíos, non solo quel dispositivo circolare e autoreferenziale, quello «strano anello d'eterna ghirlanda», che è il codice del DNA, ma lo stesso concetto di materia: non ci ha forse detto la fisica delle particelle subatomiche che alla base della materia e dei corpi opera un'energia informazionale? | << | < | > | >> |Pagina 2324. L'Unione europea e l'« ordine post-hobbesiano»: il multilevel system of governmentLa questione cruciale che attende ancora una risposta investe la natura politica di quell'oggetto misterioso chiamato Unione europea nella «costellazione postnazionale». In alcuni recenti interventi, Giuliano Amato ha definito l'Europa «un UFO, un unidentified flying object, la cui natura non è accertabile, e che tuttavia vola». L'Unione europea, quale si è venuta delineando nel corso del dopoguerra, rappresenta un modello istituzionale assolutamente inedito nella storia politica e costituzionale: «Il modello di un'autorità superiore agli Stati, che adotta regole che acquisteranno efficacia diretta all'interno degli Stati stessi». Dal punto di vista teorico, per Amato - prossimo in questo alle posizioni di un Havel o di un Giddens - sarebbe «del tutto irrealistico vedere nel nostro futuro una megasovranità europea». Gli Stati nazionali hanno certamente perso buona parte della loro sovranità, senza che però essa sia stata trasferita a nessun altro. Vi è stata, in altri termini, una «dispersione di sovranità»; o meglio - per riprendere la chiave di lettura socio-istituzionale di Alessandro Pizzorno - una dispersione dei poteri. Nessuno potrebbe certo definire i paesi membri dell'Unione Stati sovrani, come lo erano mezzo secolo fa: «Non hanno sovranità monetaria [...], in moltissimi ambiti le regole che i giudici applicano sono regole che vengono dall'alto e non da loro, quindi non hanno più lo jus superiorem non recognoscens sul loro territorio». Ma ciò non significa affatto che l'Unione europea sia un'organizzazione sovrana, neppure nel senso di uno Stato federale in fieri: a rigore, anzi, essa «non è uno Stato, non ha neppure personalità giuridica e il trattato di Maastricht è stato ben attento a non dargliela». Come definire, allora, il nostro oggetto misterioso? L'Unione, risponde Amato, costituisce l'esempio forse più analiticamente identificabile e più esplicativamente chiaro di quel fenomeno del nostro tempo che alcuni studiosi definiscono come multilevel systems of government, «sistemi di governo multilivello» che corrispondono a una fase di interrelazioni umane esorbitate dai confini nazionali, che trovano, perciò, la loro regola in livelli diversi. L'«inedito» che il modello istituzionale dell'Europa rappresenta rispetto a tutte le precedenti tipologie, classiche e moderne, delle forme di governo, appartiene dunque alla nuova dimensione che Philippe Schmitter ha definito «ordine post-hobbesiano». Un ordine che, se per un verso apre al futuro, a una prospettiva del dopo-Leviatano, per l'altro presenta - almeno in alcuni suoi tratti caratteristici - analogie non trascurabili con la fase che precede il «modello Westfalia» e la formazione dei moderni Stati sovrani: la società europea ha già vissuto in schemi non statualistici, «ha già conosciuto il multilevel system of government prima di chiudersi nello Stato nazionale», nella forma di un «disancoraggio del diritto dallo Stato». Si aprono qui, indubbiamente, nuove e importanti prospettive, non solo sul terreno teorico ma anche su quello politico. A patto però - aggiungiamo noi - di accogliere un'avvertenza preliminare all'intero discorso sul «sistema di governo multilivello»: l'analogia storico-strutturale tra il «prima» e il «dopo» non va né presa alla lettera, né assolutizzata. Se analoghe, infatti, possono essere le forme, diversa è la natura dei soggetti. Le differenze dopo il Leviatano, dopo lo Stato moderno, non sono le differenze che lo precedevano: poiché tra le une e le altre si è inserito dinamicamente il cuneo del diritto eguale e dell'universalismo politico (sconosciuto all'ordine giuridico medioevale, dove le differenze implicavano necessariamente gerarchia). Di qui un ulteriore interrogativo: come può l'Europa, muovendo dal nuovo assetto plurale e multilivello, giocare un ruolo politico unitario, autonomo e chiaramente riconoscibile? Non possiamo nasconderci che una delle questioni cruciali è rappresentata oggi dall'assenza dell'Europa come soggetto attivo e autorevole nelle ultime fasi della politica internazionale. Ancora una volta - come sempre - la faccia interna e la faccia esterna della politica appaiono intimamente interconnesse. Ragion per cui il problema della nuova forma istituzionale dell'Unione viene a coincidere con quello del suo ruolo in un mondo globalizzato. Nella stessa direzione mi pare muoversi, del resto, un'esigenza posta con forza da Habermas: la stessa unità economica dell'Europa rischia l'implosione se non si pone all'ordine del giorno il problema della sua natura politica. E ciò - si badi - non per ragioni etiche, per una sorta di ripugnanza verso un'economia di mercato che pretendesse di estendersi fino a divenire società di mercato. Ma piuttosto per una ragione realistica, rigorosamente strutturale-funzionale: una società puramente economico-mercantile è sul piano teorico un perfetto controsenso, sul piano politico-ideologico la più illusoria delle utopie. | << | < | > | >> |Pagina 2345. L'Europa e la «costellazione postnazionale»: la tenaglia del glocal e le nuove tendenze all'universalizzazione[...] In questa situazione, il Vecchio continente si affaccia sulla scena del mondo globale senza una fisionomia politica precisa: non si tratta di una transizione, ma di un tempo sospeso e gravido di incertezze che minaccia di disarticolare o addirittura di inibire la formazione di una società civile e di una sfera pubblica europea. La sfida della globalizzazione pone oggi l'Europa di fronte a tre nodi cruciali: 1) Nella sua triplice natura di entità non solo economica ma anche politica e culturale, l'Europa si trova stretta nella morsa degli altri due colossi dell'età globale: il colosso americano e il colosso asiatico. L'America - che non è solo sinonimo di egemonia politico-militare, avanguardia tecnologica e new economy, ma anche di crisi dell'individualismo acquisitivo, «politiche della differenza» e «lotte per il riconoscimento» - fornisce un esempio lampante di un fenomeno che è destinato a segnare il futuro della società occidentale nei prossimi anni: il dissidio tra la situazione di stallo di un sistema democratico ormai divenuto macchina autoreferenziale di riproduzione delle oligarchie e il pluriverso di linguaggi e di esperienze di gruppi umani coinvolti in un mutamento di civiltà - anche antropologico - che investe la gerarchia dei valori, la struttura del desiderio e la dimensione del bíos, della corporeità e della vita, in un mondo-ambiente planetario. L'Asia non è solo sinonimo di «miracolo economico» e di «tigri del Pacifico», ma rappresenta anche la sfida degli asian values; di quei «valori asiatici» che - come ci ha spiegato Amartya Sen - pretendono di spezzare l'equazione occidentale di capitalismo ed etica individualistica, fondando lo sviluppo e la produttività su strutture associative di stampo gerarchico-comunitario: sulla subordinazione degli obiettivi (e, naturalmente, dei diritti) individuali a quelli delle entità collettive (dalla famiglia all'azienda, dal gruppo allo Stato). Alla tenaglia costituita da queste sfide, l'Europa è chiamata a fornire una sua autonoma risposta, un proprio modello etico e culturale alternativo che non può essere né schiacciato su uno dei due corni del dilemma, né tantomeno risolversi in una mediazione compromissoria. 2) Un altro nodo cruciale è rappresentato per l'Unione dall'allargamento ai paesi dell'Europa orientale. Si tratta, certo, di una decisione importante, che in nessun caso va posta in concorrenza con il vettore (a ben vedere complementare) dell'Europa mediterranea. Ma sarebbe insensato nascondersi i notevoli problemi che una tale scelta comporta. E qui l'indiscutibile circostanza che le realtà di quei paesi sono state per secoli componenti costitutive di prima grandezza del «patrimonio culturale europeo» non deve indurre a facili ottimismi. Se è vero che Budapest e Praga, Pietroburgo e Kaliningrad appartengono allo «spirito dell'Europa» quanto Parigi e Londra, Berlino e Roma, è almeno altrettanto certo che i contesti sociali e istituzionali da cui esse emergono appaiono nel medio periodo difficilmente «sincronizzabili». L'inclusione di quei contesti, qualora dovesse attuarsi secondo la logica annessionistica di un Anschluss è pertanto destinata a comportare problemi e difficoltà enormi: almeno pari a quelli costituiti per la Germania dagli Ostländer. Un tale rischio può essere evitato solo a tre condizioni: a) di non sottovalutare le fratture economiche, culturali e socialpsicologiche che la «contemporaneità del non-contemporaneo» reca necessariamente con sé; b) di concepire (e praticare) l'Europa non come una «fortezza», uno spazio d'integrazione a geometria chiusa, ma come uno spazio a geometria variabile dai confini elastici e dinamicamente aperti; c) di non porre l'apertura ai paesi dell'Est in alternativa all'altro vettore, costituito dal pluriverso delle culture mediterranee in cui consiste la vocazione originaria dell'Europa. 3) L'ultimo nodo è rappresentato dalla variante britannica. Dal punto di vista della cultura giuridica e istituzionale, essa rappresenta - con la sua tradizione di common law - una vera e propria alterità rispetto alla tradizione di civil law dominante nel continente. Non a caso, nel corso del convegno della Fondazione Basso, abbiamo sentito un comparatista come Mads Andenas mettere in guardia dall'uso indifferenziato dei termini: parole come «Stato», «Costituzione», «Società civile» hanno in Inghilterra un significato diverso da quello che viene loro attribuito nei dibattiti continentali, segnati dalla dogmatica dello jus publicum. Le resistenze britanniche a un pieno coinvolgimento nel destino istituzionale dell'Unione europea non sono certo di ordine economico o genericamente politico, ma in ultima analisi di natura culturale. Per superarle, occorrerà dar mano non a una mera contaminatio, ma a un duro e intenso lavoro di «traslazione» e di confronto tra le due tradizioni di common law e di civil law proprio in relazione al tema dei diritti e della loro traduzione costituzionale. | << | < | > | >> |Pagina 240In conclusione, quell'opera di «ricostruzione della nave in mare aperto» che è il processo di costituzionalizzazione dell'Europa dovrà delinearsi sempre meno - come ha indicato Erhard Denninger nei suoi lavori - in termini di sovranità e sempre più in termini di equilibrio dinamico e di limitazione reciproca tra una pluralità di istanze e di poteri. Sempre meno secondo il modello classico del trasferimento di sovranità e sempre più come spostamento verso l'Unione non solo di competenze tecniche (e tecnocratiche) ma di effettive procedure legittimanti. In questa prospettiva, la forma del patto e del trattato potrà e dovrà fungere da tappa essenziale per la costituzionalizzazione dei diritti fondamentali (come già era avvenuto, del resto, nella nascita della prima democrazia dell'Occidente, la democrazia americana). Solo il trinomio costituito da un Parlamento dotato di effettivi poteri, da una Commissione trasformata in esecutivo effettivo e da una Corte di giustizia divenuta a pieno titolo Corte costituzionale può fare in modo che la nave dell'Europa - come la nave della repubblica di Platone - si tenga equidistante dalle opposte insidie del proceduralismo tecnocratico e dell'appello mitologico o populistico alla sovranità e al potere costituente del Popolo, salvaguardando i diritti e le garanzie fondamentali dalle prevaricazioni della maggioranza.
Solo tenendo questa rotta sarà possibile saldare i diritti
alle forme di vita e di esperienza dei soggetti sociali: di donne e uomini
concreti, che contribuiranno con la loro prassi a costruire su scala europea una
sfera pubblica politica, capace di collocarsi - secondo l'indicazione di Hannah
Arendt - al di là di Stato e mercato. Fuori da ogni ossessione identitaria.
Senza nessuna nostalgia di
reductio ad unum.
E soprattutto senza mai dimenticare il monito - a un tempo postliberale e
antitotalitario - dei vecchi maestri della Teoria critica francofortese: il
potere buono è solo il potere limitato. Il
totum
è il totem.
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