Copertina
Autore Roberto Marrone
Titolo Parole strappate alla notte
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2012 , pag. 206, cop.fle., dim. 14x21x1,3 cm , Isbn 978-88-7937-589-4
LettoreGiangiacomo Pisa, 2013
Classe narrativa italiana
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Indice


Nota dell'Autore                             5

    LA PASSIONE NON OTTIENE PERDONO

Un posto o l'altro                          11
Di nuovo in viaggio                         14
Il coro greco                               23
Reminiscenze                                27
Clinica 1                                   29
Da bambino                                  34
In libertà                                  36
Clinica 2                                   40
Il terreno di coltura. 1972                 42
La Piazza                                   45
Una giornata ordinaria                      52
Erotica                                     61
Clinica 3                                   64
Ritratti in galleria                        69
Porta Capuana                               72

[...]



 

 

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Pagina 11

Un posto o l'altro



Niente lasciava presagire quanto sarebbe accaduto. Nemmeno il cielo gravido di nubi. La sirena dell'ambulanza che udiva lontana stava per entrare nella sua vita. Il suono si avvicinava fino a diventare un rumore lancinante che risuonò amplificato nell'atrio del palazzo. L'urlo metallico che a intervalli uguali si era fatto largo nel reticolo di vicoli, cercava proprio lui.

«Ha del miracoloso» bisbigliò lanciando un'occhiata piena di nostalgia agli oggetti e alle cose che gli avevano tenuto compagnia per tutto il tempo.

"È tutto quello che son riuscito a salvare nel corso dei miei trasferimenti", pensò, e la sua immaginazione percorse altri luoghi.

"Un posto o l'altro... non cambia mai niente", considerò con stupore.

Da circa cinque mesi l'ampia stanza ovale, il cucinino, il bagno e quel piccolo terrazzo rappresentavano il suo spazio vitale.

Da lassù, si era abituato ad avvertire ogni cosa ovattata. Le voci della strada salivano lente come venissero da un mondo, che non era più il suo. Allargò istintivamente le braccia, rimanendo in piedi in mezzo alla stanza.

«In attesa che accada quello che deve accadere», sussurrò.

Avvertì un vago tramestio e subito dopo un vuoto durante il quale riuscì a captare solo un leggero fruscio. Cambiò posizione, sedendosi a terra, le gambe divaricate e le spalle poggiate alla parete. Abbassò il respiro per capire da dove arrivava il pericolo, ansimando come una preda sfuggita a lungo al suo destino. Percepì un silenzio denso, irreale, interrotto da uno sferraglio meccanico. Pensò ai singulti di un grosso animale intento a raccogliere le forze necessarie a sferrare l'attacco finale. Poi all'improvviso un tonfo: come se un grosso oggetto di metallo fosse scivolato dalle mani di qualcuno e immediatamente ripreso prima che si trasformasse in un rumore ostile.

Sentì dei passi davanti la porta; un calpestio tra il pianerottolo e le scale. Ancora voci concitate e bisbiglii... poi di nuovo la quiete innaturale che fu interrotta dal suono gracchiante del campanello della porta.

«Ci siamo... tutto finisce in un baleno», mormorò tra sé.

«Un momento!», urlò nel tentativo di prendere tempo.

"Negli spazi stretti le vicende umane si manifestano così: prima il clamore e poi l'assenza, che prende quasi sempre la forma di un silenzio minaccioso", si concesse ancora il tempo di pensare.


Il campanello gracchiò di nuovo.

«Un momento», ripeté.

Si riassettò gli abiti dandosi una ravvivata ai capelli, mentre si guardava soddisfatto nello specchio dell'ingresso. L'attività fisica quotidiana l'aveva mantenuto tonico. Peccato che quella mattina non si era rasato. Aveva tenuto duro fin al punto di abituarsi a quella condizione; l'unica che adesso gli appariva autentica.

«I1 viaggio è finito», sussurrò.

Giocò d'anticipo nel tentativo di darsi un contegno, emise un respiro e aprì. Sorrise, appena, prima di consegnarsi.

«Salve... cercate qualcuno?», esordì Carlo nascondendo l'angoscia che gli spezzava il respiro.

La piccola folla di curiosi, dopo un lieve ondeggiamento, ammutolì. Si levò solo una voce, che cercò di apparire rassicurante.

«Siamo qui per darle una mano», disse il signore con gli occhiali che doveva essere il capo.

Lui tentò di darsi forza, pensando che nel corso della sua esistenza aveva affrontato situazioni più scabrose. Per un attimo immaginò si trattasse di uno scherzo degli amici, che sapevano di quello strano isolamento.

Esercizio inutile. L'ansia non gli passò.

Nella realtà tutto stava andando a carte quarantotto!

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Pagina 14

Di nuovo in viaggio



Un finale quasi scontato. Carlo si trovò al cospetto di un medico, un vigile urbano e una donna dallo sguardo obliquo, che si qualificò assistente sociale del Comune. Li aveva accolti con un sorriso di circostanza e loro adesso erano immobili a osservarlo.

Il pericolo oscuro che immaginavano oltre quella porta adesso aveva un volto, tutto sommato, rassicurante. L'ignoto era svanito nel più classico dei modi: all'improvviso! A Carlo sembrò sfumasse la loro diffidenza, lasciando il posto a una sorta di disarmo emotivo misto a disillusione.

A eccezione dell'assistente sociale che invece continuava a guardarlo di soppiatto, limitandosi a chiedergli le generalità e a trascriverle su di un foglio. Sembrava infastidita dal comportamento di Carlo e assegnava all'atto della compilazione la sua freddezza. Si vedeva lontano un miglio che quella situazione non la convinceva e non le riusciva di fare a meno di lanciare occhiate sospettose in giro.

Marcò le distanze, coprendosi dietro una frase di circostanza: «Abbiamo risposto a una richiesta di intervento».

«Perché cosa ho fatto?» si limitò a domandarle Carlo.

«Non siamo certo qui di nostra iniziativa» aveva risposto la donna, alzando lo sguardo per chiedergli una firma. Poi, senza pronunciare nessun'altra parola, si girò di scatto, affrontando claudicante la discesa della scala sconnessa del palazzo, seguita dal vigile urbano. Sulla soglia era rimasto solo quel signore, un po' goffo, dai modi signorili che indossava un camice bianco.

«Salve! Sono Giulio De Crescenzo. Sono uno psichiatra e lavoro al Dipartimento di Salute Mentale».

«Prego, si accomodi» aveva risposto Carlo, facendogli strada.

Per qualche secondo, si erano osservati in silenzio, poi il dottore aveva preso posto nel piccolo salottino ricavato ai piedi del letto.

«Sa, in questi casi siamo obbligati per legge a intervenire», pronunciò quelle parole con l'intento di superare ogni diffidenza.

«E poi cosa altro accadrà?» domandò Carlo senza riuscire a nascondere la sua irritazione.

«Lei vuol sapere se sarà costretto a rivedermi di nuovo?» aveva provato a scherzare il medico.

«Esattamente», fu la risposta secca di Carlo.

«Ebbene sì. Potremo incontrarci al Centro oppure concordare con lei delle visite a domicilio, come preferisce».

Carlo osservava la sua faccia da bravo ragazzo. Era colpito dalla differenza tra la postura bonaria e la velocità con la quale agitava la testa e le mani. Si soffermò sul suo corpo imbolsito e pensò: "Diffidare di chi in gioventù è stato grasso e da adulto ha raggiunto il peso forma. Hanno subito troppo da bambini e trovano sempre una giusta motivazione per far pagare agli altri le angherie sofferte".

«È d'accordo o sta pensando ad altro?» il medico continuava a parlargli senza che lui l'ascoltasse.

«Mi scusi. Mi ero distratto... sa tanto tempo da solo, uno si disabitua ai dialoghi» si giustificò Carlo.

«Appunto è quello che le stavo dicendo mentre non ascoltava. In fondo si tratta di ritornare a parlare con un altro che ascolta, tutto qui».

«Va bene! Io però, se è possibile, preferirei averli qui questi colloqui. Questa condizione mi è costata tanta fatica ed esercizio».

«Dunque lei reputa questa condizione... una conquista?» domandò il dottore in maniera interlocutoria.

«Ma certo! Che dubbio c'è?» aveva risposto convinto Carlo.

Il dottore sembrò cercare le parole giuste: «Iniziamo così. Poi in seguito potrà venirci a trovare, anche perché ritengo che le farà bene uscire ogni tanto!» disse a mo' di esortazione.


Dopo un paio di giorni il dottore tornò.

Fuori pioveva.

La presenza degli altri nella sua vita l'irritava profondamente.

Carlo si fece forza e chiese al suo ospite l'impermeabile.

In fondo, poteva essere utile scambiare quattro chiacchiere con un altro. Decise di assumere un atteggiamento collaborativo e l'invitò a leggere la frase che aveva trascritto sulla lavagnetta. Poi, senza lasciare il tempo di spostarsi aveva aggiunto:

«È un po' questa la mia ossessione» si affrettò a precisare, «ho vissuto una condizione di muta eccitazione e mi è sembrato di assaporare gli attimi come se fossero piccole opere d'acqua destinate ad apparire, ricomparire e poi svanire. Come se il tempo avesse perso la sua unitarietà e i miei pensieri non mi appartenessero più. I ricordi sgorgavano senza attraversare la mia comprensione. Mi sono sentito come liberato. Niente doveva più passare al vaglio della razionalità».

Adesso conteneva a stento la voglia di parlare. Conosceva quello stato di agitazione e tentò di frenare l'euforia, accendendosi una sigaretta.

Il dottore, investito da quella strana confessione, era rimasto interdetto. Si avvicinò alla lavagna vicino al grosso tavolo di legno per leggere la frase da vicino: «Rari e preziosi cristalli finalmente liberi e lucenti. Il tempo non esiste più. Restano le durate che servono a misurare l'intensità delle sensazioni».

Rimase immobile come se stesse riflettendo, poi si voltò lentamente all'indirizzo di Carlo. Chiese di accomodarsi. Posò gli occhiali sul tavolino, mentre lentamente si passava le mani tra i capelli come se attraverso quel gesto volesse raccogliere i pensieri. Rivolse lo sguardo fuori dalla porta a vetro che dava sul terrazzo. Sembrava osservasse un punto lontano, dentro quel cielo pieno d'acqua che sovrastava ogni cosa.


Erano seduti uno di fronte all'altro, assorti, si sentiva distintamente il ticchettio della pioggia che batteva sul lastrico.

Il dottore parlò a fatica: «Bella frase. Quando l'ha scritta?».

«Stanotte. All'improvviso. Mi sono svegliato di soprassalto», aveva risposto Carlo con voce spezzata, restando ansiosamente in attesa.

«Penso dia il senso di una condizione» si limitò ad affermare il dottore.

«È per questo che gliel'ho fatta leggere» proseguì Carlo che aveva voglia di raccontare. «Ho vissuto una sospensione in cui le cose esterne sembravano immobili e facevano da contrappunto all'accelerazione che mi pervadeva dall'interno. Sentivo le pulsazioni del mio cuore e avvertivo il formarsi dei pensieri che erano troppo veloci. Ho pensato di aver ritrovato il battito originario della vita nel luogo che mi ero scelto. Mi è sembrato che tutto quello che mi circondava, anche i muri, avessero ritrovato un'anima e si predisponessero a parlarmi, svelandomi il senso nascosto delle cose. Pure questo posto, dentro il quale mi sono rinchiuso, mi preesisteva e chiedeva solo di essere abitato. Percepivo gli istanti come piccoli segmenti staccatisi dal disegno finale. Ho sentito le voci e i sapori che qui erano sempre esistiti. Mi sono confuso».

«Mi rendo conto», era stata la prudente considerazione del dottore che aveva aggiunto: «Adesso però credo che siamo in un'altra condizione».

«Bah! Provi a mettersi nei miei panni. Tutto quel casino fuori la mia porta di casa!».

«Posso essere anche d'accordo, ma mi dia fiducia altrimenti è tutto più difficile», esortò il dottore.

Provava a definire una relazione, cercando di inquadrare la situazione senza darlo troppo a vedere. Intanto continuava a tamburellare con le dita sul vecchio tavolino. Non gli sembrava sussistessero i sintomi classici dello "stato di necessità" tali da giustificare un trattamento sanitario obbligatorio.

La stanza era in ordine, il pavimento era pulito, il letto rifatto e l'angolo cucina abbastanza ordinato.

Nel frattempo Carlo aveva ripreso a raccontare. Era ormai un fiume in piena.

«Sfuggire agli altri non è stato per niente semplice. Questa storia è iniziata quando ho deciso di ritirarmi e chiudermi in casa. L'ho fatto per difendermi dal susseguirsi banale della mia vita, ma questa scelta mi ha fatto precipitare dentro di me. Ho compreso che la mia esistenza ruotava su dei cardini che cominciavano a scricchiolare e non ho voluto continuare a far finta di non sentirne il cigolio assordante».

«Interessante..., ma è stata questa l'unica spiegazione che si è data?» domandò il dottore, accavallando le gambe e distendendosi sulla vecchia poltrona nella quale fino a poco tempo prima stava accovacciato.

«Spiegazioni? Non le cerco e non sono in grado di trovarle. Non è sempre utile mettere ogni cosa al suo posto».

«E allora, cosa pensa? Possiamo farlo insieme?», aveva di nuovo forzato il dottore, nel tentativo di scuoterlo.

«Bah! Questo non lo so!».

Carlo si alzò di scatto e a larghi passi descrisse un cerchio nella stanza, poi si sedette di nuovo e, cominciando a sfregarsi le mani lentamente, continuò: «Ho tentato di viverla la realtà. Per un periodo ho avvertito anche una certa soddisfazione a trovarmi impigliato nelle questioni normali che riempiono la vita. Ho goduto di piccole felicità pensando di essere pervenuto alla piena maturità e di aver superato i traumi del passato. Finalmente nessuna grande speranza, nessuna ideologia. Vede, in un tempo della mia vita, mi sono ritenuto un comunista e credo di dover molto a quella liturgia con la sua fatale conseguenza di teoria e pratica. Poi col tempo tutto è mutato, anche la fede politica è divenuta una camicia di forza che non mi aiutava più a comprendere anzi, quasi mi comprimeva. Adesso...», pronunciò le parole sospirando: «Adesso rimango legato a quella visione del mondo in maniera più distaccata, ma paradossalmente, più intima e intensa. Le definizioni sono sempre, come dire, operazioni ambiziose, ma se dovessi definire la mia attuale condizione direi che sono un marxista con una spiccata propensione alla religiosità».

Carlo era di fronte al balcone e volgeva le spalle al dottore. Sembrava sfinito per lo sforzo di raccogliere le parole giuste.

La domanda lo colse di sorpresa e gli suonò insolente: «E questo rappresenta per lei una riduzione? Una specie di passo all'indietro della sua coscienza? O cos'altro?».

«Che altro mi resta da fare? Tornare indietro e buttare veramente tutto! Guardi che se anche volessi non potrei farlo! Adesso cerco solo di dare un senso al dolore dato e ricevuto, alle assenze e ai sogni. Un'esistenza non è un programma che si può cambiare, ma sono le cose che col tempo si sono sedimentate dentro e intorno a noi; a volte anche nonostante noi», poi si lasciò cadere sulla sedia. Reclinò lievemente il capo, fissando la trama del pavimento e continuò con un filo di voce: «Non si può giocare a nascondino perché quando meno te l'aspetti gli accadimenti ricompaiono e reclamano un senso. Ci danzano davanti come falene nella notte... e devi lasciarli liberi, anche a rischio di perdere i passi nel tentativo di seguirli», sospirò di nuovo: Carlo e le sue parole somigliarono a un flebile suono.

Cominciava oramai ad avvertire lontano il dottore. La sua postura e il fatto che per tutto il tempo era rimasto immobile nella poltrona, mentre lui si agitava, gli procurava fastidio. Dovette concentrarsi per afferrare spezzoni di frasi pronunciate da quest'ultimo: «Credo che lei debba liberarsi dalle sensazioni che le gravano addosso. Le conviene sgomberare dal tavolo le scommesse esistenziali, che la spingono a proseguire in quella che io non esito a definire una sfida pericolosa. Lei non deve dimostrare niente a nessuno. Deve solo vivere».

Una sonora risata di Carlo spazzò via l'accorto suggerimento del dottore: «Vivere. Sfida. Come se potessimo scegliere con lucida volontà! No, non è così! Se però lei ha bisogno di sintomi le posso dire che avverto un flusso di calore che mi attraversa fisicamente il corpo. D'altronde il pericolo non viene dall'esterno; il pericolo siamo noi che non leggiamo la vita. Continuiamo a inventarci artifizi banali, che ci si ritorcono contro e diventano incubi».

Senza rendersi conto, Carlo l'aveva urlata la risposta. Parole nervose e visionarie sparate a raffica e annacquate dalla pioggia che continuava a cadere.

Gli strappò il block-notes dalle mani e lesse ad alta voce: «Il paziente mostra una frequente alterazione d'umore, una prossemica alterata prodotta da stati d'animo che mutano di continuo: alternando eccitazione a uno stato depressivo. A prima vista, una sintomatologia ascrivibile a una sindrome classica nei soggetti affetti da disturbo bipolare. Devo convincerlo a venir fuori da qui. Stanarlo. Invitarlo presso il Centro...». L'ultima frase era sottolineata.

«È questo il nostro colloquio?», domandò Carlo alterato, rimanendo all'impiedi. Si sentì tradito ancora una volta. Era scosso da un tremito che a stento riusciva a controllare. Poi, dopo un po', sembrò acquietarsi e si rivolse con un tono pacato: «Forse ha ragione lei. Ma la mia non è una fuga dalla realtà».

«Io non credo questo e gli appunti li prendo sempre per ricordare anche le mie sensazioni!», aveva provato a giustificarsi il dottore visibilmente impaurito.

«Allora sta qui a colloquiare con me perché trova piacevole farlo o per spirito di cortesia?», affermò sferzante Carlo.

«No! Naturalmente c'è anche un dovere professionale che me lo impone, ma le assicuro che l'ascolto con vivo interesse, perché le sue affermazioni scaturiscono da una condizione di realtà», aveva tentato una disperata virata logica, il dottore, con l'intento di riafferrare il dialogo.

«Invece non è così. Io voglio essere lontano dalla realtà e continuare a irriderla senza alcuna paura e questo non può essere che follia. Caro dottore, lei lo sa bene. Magari quello che lei non comprende appieno è il grado della mia patologia!».

«Mi sembra che lei voglia d'improvviso gettare tutto all'aria», reagì il dottore notando l'agitazione di Carlo, la cui voce cominciò a trasformarsi in un sibilo.

«Il mio tempo si è rotto e non è più riavvolgibile. Non riesco più a contenere i ricordi. Anzi! Mi si stanno presentando tutti davanti senza rispettare la fila. I miei pensieri rovinano in un abisso senza fine... e senza inizio».

«La prego si calmi! Mi dia una mano a esserle utile», aveva quasi implorato il dottore, tralasciando, per un momento, il comportamento professionale.

«L'utile non è il giusto, dottò! Se lei vuole fare una cosa giusta, deve sparire e lasciarmi solo, altrimenti mi danneggia e la cosa grave è che danneggia anche se stesso, mentre immagina di fare il suo dovere».

«Si rende conto che non posso abbandonarla così al suo destino? Capisce che non sarebbe corretto da un punto di vista umano né da quello deontologico?», aveva per la prima volta alzato la voce il dottore, fissandolo dritto negli occhi.

«N000! Non voglio più rendermene conto... ho altro da fare adesso!». Era stato l'urlo disumano che accompagnò il pugno che spezzò in due il tavolino di legno. Carlo si era accasciato sfinito sul divano e d'improvviso tutto quello che gli stava intorno gli apparì lontano. Non riusciva più a sentire ciò che il dottore si affannava a dirgli. Le sue frasi gli arrivavano ovattate nella testa e del tutto incomprensibili. Trovò ancora il tempo di pensare che non sempre la follia può salvare dai ricordi e che l'inaspettato, alla fine, si era manifestato, facendosi beffa dei suoi calcoli e di quelli degli altri.

«Dottore, la sfida con la passione costa cara; farla persistere nelle nostre vite ci espone a troppe incertezze. Adesso mi toccherà andare su e giù con il peso della conoscenza, che mi porterà sempre più lontano». Furono le ultime parole che aveva pronunciato sotto forma di dialogo prima di un lungo silenzio.

Forse le aveva solo pensate. Notò il terrore negli occhi del dottore, la sua espressione di paura e sentì lontano il rimbombo della porta sbattuta e il rumore dei vetri in frantumi.

Così almeno gli era parso.

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