Copertina
Autore Michele Martelli
Titolo Senza dogmi
SottotitoloL'antifilosofia di papa Ratzinger
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2007, Primo piano , pag. 160, cop.fle., dim. 14x21x1 cm , Isbn 978-88-359-5878-9
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe filosofia , religione , relativismo-assolutismo
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Indice


  9  I. Dittatura del relativismo?

     1. L'offensiva antimodernista, p. 10
     2. Il wojtyl-ratzingerismo, p. 11
     3. Relativismo, agnosticismo, scetticismo, p. 13
     4. Relativismo e assolutismo, p. 15
     5. Dittatura e relativismo, p. 16
     6. Quale relativismo?, p. 17
     7. Relativismi novecenteschi, p. 18
     8. Ancora sui relativismi, p. 20
     9. Il caso Dupuis, p. 22
    10. Eutifrone e Ratzinger, p. 24
    11. La «vera religio», p. 25
    12. Una risposta paradigmatica, p. 27
    13. «Razionalità del cristianesimo»?, p. 29
    14. Deus Caritas, p. 31
    15. Questioni di teodicea, p. 32

 35 II. Evoluzionismo e creazionismo

     1. Qualche cenno storico, p. 36
     2. Due opposte concezioni del mondo e dell'uomo, p. 38
     3. Dio, mondo, creazione, p. 40
     4. L'Intelligent Design, p. 41
     5. Conciliare creazionismo ed evoluzionismo?, p. 43
     6. Correggere Darwin?, p. 44
     7. Non sempre lo scienziato è il filosofo
        della sua scienza, p. 46
     8. Scienza moderna e fede religiosa, p. 47
     9. Darwin scettico e razionalista, p. 49
    10. Natura e società, p. 51
    11. L'antropologia darwiniana, p. 52
    12. Relativismo scientifico, p. 55
    13. Darwin, Dio, la religione, p. 57

 61 III. Credere o comprendere? Il Dio nascosto

     1. Credo per comprendere, o comprendo per credere?, p. 61
     2. L'«ateo è stolto»?, p. 63
     3. «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e
        follia per i Gentili». p 64
     4. Il cristianesimo è antifilosofia,
        e la filosofia anticristiana? p. 66
     5. Celso, Origene e la «dottrina verace», p. 68
     6. Il manifesto teologico di Ratisbona, p. 70
     7. «So di sapere» o «di non sapere»?, p. 73
     8. Il «Dio nascosto», p. 74
     9. «Adoro perché ignoro», p. 76
    10. Una teologia congetturale?, p. 77
    11. Quale pace religiosa?, p. 79
    12. Lo scetticismo cristiano, p. 82
    13. Un nuovo accordo di fede e ragione?, p. 83
    14. «La filosofia del non filosofare», p. 86

 87 IV. La fede dubbiosa

     1. Fede e sapere, p. 87
     2. La «fede dubbiosa», p. 89
     3. Il «salto mortale» della fede, p. 90
     4. I cinque tropi di Agrippa, p. 92
     5. Scetticismo, agnosticismo, ateismo, p. 94
     6. Una «filosofia del limite», p. 95
     7. La nuova scepsi costruttiva-decostruttiva, p. 97
     8. Il «ragionevole» e il «probabile», p. 99
     9. L'«ultima parola» contro il relativismo, p. 101
    10. Il Dalai Lama, il dubbio, la religione, la scienza, p. 102

105  V. Dio e Cesare

     1. Teocrazia del terrore e saggezza scettica
        di Qohélet, p. 105
     2. A Cesare e a Dio, p. 107
     3. Guerra, monoteismi, politeismi, p. 109
     4. Stato e religioni, p. 112
     5. Ratzinger, l'Illuminismo, l'Europa, p. 113
     6. Lo «Stato della Chiesa»: un paradosso anticristiano, p. 115
     7. L'Europa e la laicità dello Stato, p. 117
     8. I due «discorsi tedeschi» di Benedetto XVI, p. 119
     9. Bilancio dell'Occidente e «guerre di civiltà», p. 121
    10. Il «filosofo» con l'elmetto, p. 123
    11. La «religione civile» tra Stato e Chiesa, p. 125
    12. Etica pubblica o religione civile?, p. 126
    13. A proposito di Pacs ed eutanasia, p. 129
    14. Relativismo e democrazia, p. 130

133 VI. Vademecum filosofico del relativista


141 Note
149 Bibliografia
157 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 9

I. Dittatura del relativismo?


        Ratzinger non vuole la molteplicità dei colori nell'unità
        dell'arcobaleno, ma solo il predominio imperativo del
        colore nero, quello della triste gerarchia vaticana.
                        Leonardo Boff, Un papa difficile da amare

        Democrazia è relativismo filosofico.
                       Hans Kelsen, I fondamenti della democrazia



A che cosa attribuire, sul piano filosofico e ideologico, la causa dei major events d'inizio millennio (Twin Towers e guerra in Iraq, stragi terroriste e bombardamenti preventivi, ma anche lo scandalo dell'aumento vertiginoso di ricchezza e povertà, e dunque delle differenze sempre piú abissali tra Nord e Sud del mondo)? Ad un presunto trionfante mix postmoderno di relativismo, agnosticismo e scetticismo, livellatore e distruttore di valori, ordine e civiltà, o all'arroganza di un «pensiero unico» assolutista, esclusivista e dogmatico, antimoderno, che pretende di porsi dal punto di vista di Dio? Data l'inimmaginabile potenza distruttiva dell'attuale tecno-scienza civile e militare (dalle centrali nucleari all'atomica alle armi chimiche e batteriologiche), come possiamo sperare di salvare le sorti dell'umanità e del pianeta? Con la strategia dogmatica del muro contro muro, acutizzando i conflitti fino a farli esplodere, impugnando la mitica «spada di fuoco (dell'angelo) di Dio», incondizionatamente persuasi della propria verità assoluta, o col confronto dialogico, etico-discorsivo, interculturale e interreligioso, senza dogmi, ma guidati dalla regole razionali della pari dignità degli interlocutori, alla paziente ricerca di valori e verità relativi, parziali, provvisori, e nel contempo universalmente accettabili e condivisibili?

Due opposte strategie, inconfondibili, con esiti altrettanto opposti e inconfondibili. Sinteticamente, in termini storico-teorici, si tratta di scegliere, ancora una volta, tra dogmatismo e antidogmatismo, o tra assolutismo e relativismo. Forse solo in un rinnovato relativismo planetario può trovare il suo argine l'attuale tendenziale deriva della nostra civiltà, causata dal prepotente ritorno di ideologie dogmatiche, assolutiste e metafisico-religiose. Se per filosofia si intende non un'attività di evasione e fuga dal mondo in un immaginario mondo al di là del mondo o di ripiegamento e introversione nella propria interiorità e purezza soggettiva, bensí un pensiero critico e autocritico, radicato nella propria contingenza storica, la scelta dell'una o dell'altra opzione non è senza serie conseguenze pratiche. In un caso, la logica antitetica e manichea dello scontro religioso e di civiltà (il Bene contro il Male, gli eletti contro i dannati, la civiltà contro la barbarie) ci porterebbe pericolosamente verso il precipizio dell'apocalisse, dell'autoannientamento atomico e/o ambientale. Nell'altro caso, lo scambio dialogico e comunicativo faciliterebbe la costruzione di un mondo piú pacifico, meno ingiusto e lacerato, piú integrato e autoriflessivo, piú rispettoso delle sue molteplici differenze e componenti interne, sociali, etniche, di genere, culturali, religiose.

Ne va, è difficile negarlo, del destino stesso dell'umanità e della Terra.


1. L'offensiva antimodernista

Si inserisce in questo quadro la recente offensiva antimodernista di alcuni potentati politici e religiosi conservatori, soprattutto statunitensi (i cosiddetti teocon e neocon), a cui vanno aggiunti i gruppi religiosi radicali dell'ebraismo e dell'Islam. Negli Stati Uniti, tale offensiva da un lato si concentra sull'opposizione tra creazionismo e darwinismo, visto, quest'ultimo, come la piú intollerabile negazione odierna della fede e della verità cristiana, negazione le cui radici risalirebbero all'Illuminismo, alla scienza e all'ateismo scientifico moderno; dall'altro si incarna in una politica estera aggressiva ed espansionistica, di tipo imperiale, nella strategia delle «guerre preventive infinite». Nel Medio Oriente, la condanna contro il Moderno e i processi di modernizzazione, respinti in quanto negazione dell'Islam e del Corano, è stata pronunciata dal radicalismo politico-religioso del Novecento, a cominciare dal primo Programma dei Fratelli musulmani fino alle teorizzazioni estreme di Sayyid Qutb e alle degenerazioni terroristiche dei gruppi jihadisti attuali del tipo Al-Qaeda. Anche nell'ebraismo odierno, l'estremismo dei sionisti nazional-religiosi si esprime in modo duplice, da un lato con un'improbabile interpretazione letteralista della Bibbia (onde la rivendicazione per «diritto divino» del possesso della Terra promessa, il programma di attuazione del Grande Israele, ecc.), dall'altro con la difesa-aggressione manu militari contro gli arabi e i palestinesi (dalle azioni belliche aeree e terrestri dei vari governi israeliani agli attentati terroristici di singoli fanatici sionisti).

Si capisce subito, dunque, che teoricamente anche il radicalismo religioso islamico e quello sionista sono spiegabili in chiave assolutistica e antirelativistica.


2. Il wojtyl-ratzingerismo

In Italia, in prima linea in questa battaglia contro la modernità, di cui l'antirelativismo sta sempre piú diventando la cifra teorica, oltre a uno sparuto gruppetto mediatico di «atei devoti», troviamo schierata gran parte delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, a cominciare dall'ex cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI. In questa battaglia il nuovo papa, dal 1981 al 2005 Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Sant'Uffizio dell'Inquisizione), è stato ed è in perfetta sintonia col suo predecessore Giovanni Paolo II. Non sembra eccessivo parlare, in proposito, di una vera e propria «dottrina Wojtyla-Ratzinger», di una sorta di «wojtylismo senza Wojtyla», o di wojtyl-ratzingerismo (soltanto in riferimento, si capisce, agli aspetti centrali della Dottrina della Fede cattolica, non alle singole scelte politiche dei due pontefici, che vanno valutate singolarmente e autonomamente). Riportiamo in merito tre fra i brani più significativi che portano la loro firma. Il primo è tratto dalla Lettera enciclica Fides et ratio di papa Wojtyla, pubblicata il 14 settembre 1998; il secondo, dalla Dichiarazione Dominus Jesus dell'ex Sant'Uffizio, resa nota il 6 agosto 2000, sottoscritta dall'allora Prefetto cardinale Ratzinger e ratificata da Giovanni Paolo II; il terzo, dall'ormai famosa omelia del 18 aprile 2005, Pro eligendo Romano Pontifice, pronunciata da Ratzinger in qualità di cardinale decano poco prima del conclave che lo avrebbe eletto papa.

La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono [...]. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione [...]. Di conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell'essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza piú tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. È venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.

Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesú Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura [...]. Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica [...]. Se ne possono segnalare alcuni: [...] l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri [...]; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa «incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere» [...]; l'eclettismo [...]. In base a tali presupposti [...] vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione cristiana e il mistero di Gesú Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi un'ombra di dubbio e di insicurezza.

Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero [...]. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo ad un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e cosí via. Ogni giorno nascono nuove sette [...]. Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di dottrina», appare come l'ultimo atteggiamento all'altezza dei tempi moderni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura soltanto il proprio io e le sue voglie.


3. Relativismo, agnosticismo, scetticismo

Lasciamo da parte le eventuali finalità interne dei documenti da cui questi brani sono tratti: si vuole imporre ex cathedra il primato del magistero cattolico-romano ai movimenti e ai teologi scomodi e dissidenti, per non dire ereticali, dell'America latina e dell'Asia, come la «teologia politica della liberazione» e la «teologia pluralista delle religioni», Leonardo Boff e Jacques Dupuis? Porre fine alle interpretazioni e alle teorie piú estreme del conciliarismo? Relegare in un rango teologico di secondo ordine le Chiese sorelle protestanti e ortodosse? E tralasciamo anche i problemi concernenti le eventuali finalità esterne: innalzare il cattolicesimo romano a religione egemone mondiale, in un rapporto ambivalente di critica-alleanza con la globalizzazione neoliberista? Creare un «pensiero unico» vaticano da affiancare al «pensiero unico» neoliberista, per correggerlo e integrarlo spiritualmente? O addirittura dar corpo alle aspirazioni neocostantiniane di chi vorrebbe, come qualcuno ha detto con una frase a effetto, trasformare il papa nel «cappellano della Casa Bianca»?

Concentriamoci sul significato concettuale dei tre termini, relativismo, agnosticismo, scetticismo, che con piú insistenza ritornano nei brani citati, dove sembra che gli ultimi due termini dipendano strettamente dal primo.

Che cosa i nostri due pontefici intendono per relativismo? Nient'altro che: a) un malinteso pluralismo filosofico e teologico meramente quantitativo e livellatore, la riduzione della verità a opinione e l'equivalenza indifferenziata di tutte le posizioni; onde segue che debbano e possano esistere o soltanto pseudo-verità parziali e provvisorie (per cui non ci sarebbero verità assolute e definitive: ciò che è vero non lo sarebbe totalmente e per sempre), o soltanto pseudo-verità soggettive e contingenti (per cui non ci sarebbero verità oggettive e necessarie: ciò che è vero oggi e per alcuni non lo sarebbe domani e per altri); b) la rinuncia a porsi le domande radicali sul senso, l'essenza e il fondamento ultimo della vita umana e del mondo, ovvero l'abbandono definitivo delle problematiche metafisiche, o metafisico-religiose; onde segue che l'ammissione di verità piattamente livellate, indifferenziate, provvisorie e soggettive, equivalga in realtà alla negazione nichilistica della verità, poiché la verità o è (assoluta, definitiva, oggettiva, necessaria), o non è.

E l'agnosticismo? Probabilmente i nostri due pontefici lo intendono nel senso riduttivo della filosofia positivistica e naturalistica di fine Ottocento, per cui esso sarebbe tutto contenuto nel precedente punto b): le domande metafisiche sono senza possibili risposte, perché l'Oltremondo è umanamente sconosciuto e inconoscibile: ignoramus et ignorabimus, ignoriamo e ignoreremo, affermava il fisiologo tedesco Du-Bois Raymond nel 1880, riferendosi alle insolubili questioni dell'origine prima e del fine ultimo della vita, del mondo, della coscienza. Il neopositivismo logico novecentesco poi dirà che le domande metafisiche sono assolutamente prive di senso, mere intuizioni poetiche, espressione di «poesia concettuale», non categorie conoscitive della filosofia, della scienza, o della filosofia della scienza (che è neopositivisticamente l'unica filosofia accettabile). Ma vedremo che l'agnosticismo, se meglio analizzato, è molto meno semplicistico di quanto potrebbe apparire. Lo è per Kant, ma anche per Darwin (il termine «agnosticismo», come è noto, fu coniato nel 1860 dal seguace di Darwin Thomas Huxley per difendere il maestro dall'accusa di ateismo). In questo contesto, lo scetticismo – ridotto e degradato a quella sorta di dogmatismo in forma negativa per cui, se non si dà verità assoluta e definitiva, non si dà verità – non solo viene scambiato in toto con l'agnosticismo o col relativismo, ma diventa la cifra nichilistica della distruzione e dell'insussistenza totale e radicale di qualsiasi verità e valore costituito. Ma anche qui vedremo che le cose, sia storicamente sia teoricamente, stanno in ben altro modo.


4. Relativismo e assolutismo

Nel brano dell'omelia dell'allora cardinale Ratzinger, quasi un piccolo affresco fenomenologico della cultura contemporanea, i molti termini che compaiono, raggruppati non casualmente, ma per antitesi, per coppie di opposti (marxismo-liberalismo, collettivismo-individualismo, ecc.), sembrano volere riassumere le principali correnti ideologiche del nostro tempo, giudicate a torto o a ragione non- o anti-cristiane. Ma va detto subito che non tutte possono rientrare nel concetto di relativismo (almeno come è inteso nei testi qui citati).

Se sincretismo (attitudine a conciliare superficialmente idee e credenze eterogenee e contrastanti), eclettismo (accostamento piú o meno forzato di idee scelte da varie dottrine e teorie filosofiche o teologiche), libertinismo (riduttivisticamente: malcostume in cui la libertà degenera in sfrenata licenziosità), edonismo egoistico e consumistico («l'io e le sue voglie», espressione che in realtà fa pensare ai personaggi del marchese de Sade: ma credo che nessuno, nemmeno papa Ratzinger, vorrà scambiare l'etica sessuale odierna col sadomasochismo), possono essere ricondotti al relativismo solo in quanto ne sono manifestazioni deteriori e degenerate, marxismo e liberalismo (soprattutto nella loro versione forte, rispettivamente stalinista e conservatrice) esulano invece dal suo campo. Il primo perché dogmatizza la lotta di classe, il collettivismo proprietario, la futura società comunista, soluzione finale e definitiva di tutte le contraddizioni della storia. Il secondo perché assolutizza come insuperabile realtà storica la libertà individuale, la proprietà privata capitalistica, la società di mercato. Dunque, due forme contrapposte di assolutismo, di cui l'uno nega l'altro, o stabilisce come verità ultima e definitiva l'opposto contraddittorio dell'altro.

Che cosa nasconde allora l'evidente volontà di Ratzinger di fare «di tutte le erbe un fascio»? Forse precise, per quanto surrettizie, finalità politiche, culturali e religiose? In tal caso saremmo di fronte a una metaforica «dichiarazione di guerra» contro tutto ciò che (idee, politiche, costumi) è ascrivibile al Moderno, ai suoi sviluppi e alle sue conseguenze. Se si suppone verosimile il progetto di un «pensiero unico vaticano» che voglia affermarsi globalmente (ricordiamoci che «cattolico» significa universale, e che il papa romano non parla urbi et orbi soltanto il giorno di capodanno, o di Pasqua!), ne consegue che per le gerarchie cattoliche sarebbe imprescindibile sconfiggere, emarginare, liquidare i suoi veri o presunti ostacoli, resistenze, antagonisti.

Relativisti o assolutisti che siano!


5. Dittatura e relativismo

Che cosa c'entra in tutto questo la «dittatura del relativismo»? Se assumiamo il termine relativismo nell'accezione piú comune (la verità è sempre relativa, cioè parziale, provvisoria, soggettiva), l'espressione ratzingeriana appare teoreticamente insostenibile. Dittatura implica coercizione della libertà di espressione e di pensiero, volontà di imporre la propria verità, ritenuta universale e indiscutibile da chi la professa. Ma il relativista, per la stessa definizione che sembrano darne i due pontefici (colui che, che non ammette nessun tipo di certezza assoluta), non ha verità, dogmi da professare, difendere, diffondere, imporre. Non può dunque esercitare una dittatura. Può semmai subirla. Dall'assolutismo. O può premunirsi per evitarla. E qui siamo evidentemente nel campo della legislazione statale e del diritto pubblico. Dove il problema centrale da discutere è quello della laicità e aconfessionalità dello Stato, della separazione tra Stato e Chiesa (ne parleremo dopo).

Nella sfera della ricerca e del dibattito culturale, filosofico, religioso, dove non vige il principio d'autorità (l' «ipse dixit»), ma quello del confronto razionale e paritario di idee, proposte e prospettive, il termine «dittatura» è improprio, equivoco. E andrebbe evitato per la sua equivocità. La differenza tra relativismo e assolutismo, sempre restando all'interno del quadro concettuale di Wojtyla-Ratzinger, è semmai di tipo metodologico. Si può cogliere la verità assoluta? Per il relativista non è possibile, perché ogni presunta verità assoluta è relativa, relativizzabile, riconducibile alla condizionatezza, contingenza e parzialità storica di chi la enuncia o ne è seguace. E che non può dunque pretendere all'infallibilità. Oppure bisogna ammettere, in alternativa, che quella presunta verità assoluta è verità di fede. E, in quanto tale, non-razionale, non-argomentabile, non-esprimibile nel linguaggio della conoscenza e della ragione umana.

Ma, obietta l'assolutista, se tutto è relativo, l'affermazione che tutto è relativo non è relativa, ma assoluta. Dunque il relativista o dice il falso, o si contraddice, in quanto afferma il suo opposto nel momento stesso in cui lo nega (è l'obiezione classica, platonica e aristotelica, al relativismo, ripresa oggi dal cardinale Ruini). Il fatto è, si può facilmente replicare, che il relativista non ragiona nei termini assolutistici e assolutisticamente dicotomici tutto-niente, vero-falso, di cui egli, come Socrate, non sa, sa di non sapere, e sa di non poter sapere alcunché. Sa soltanto che l' ab-solutum, ciò che è sciolto da ogni vincolo, legame, limite, condizione o relazione, è umanamente e razionalmente inattingibile. Quindi non afferma che «tutto è relativo», ma che relative sono le nostre conoscenze: mai perciò incontrovertibili, ma sempre rivedibili, sostituibili, integrabili, migliorabili.

Per il relativista non è assoluto nemmeno il relativismo.


6. Quale relativismo?

Quello dei papi Woityla e Ratzinger è per alcuni aspetti un concetto polemico costruito ad hoc, un'immagine approssimativa, distorta, caricaturale, contraffatta, riduzionistica ed estremistica del relativismo.

Tutto si equivale? Le formule matematico-scientifiche di Newton o Einstein e quelle magico-alchimistiche di Mago Merlino o di Maga Magò? Le leggi della termodinamica o le tavole periodiche di Mendeleev e la mantica dei tarocchi o l'oroscopo astrologico propinato quotidianamente dai media?

È chiaro che nessun relativista dotato non dico di ragione, ma di buon senso, affermerebbe assurdità del genere. A meno che, novello Orlando impazzito, non avesse per l'appunto smarrito il suo cervello sulla luna ariostesca!

Altro è criticare la pretesa alla verità assoluta, altro è respingere in assoluto (il che per un relativista sarebbe contraddittorio) ogni verità o criterio di verità. Immanuel Kant, in forza del suo agnosticismo, ha dichiarato l'impossibilità e l'illegittimità della metafisica come scienza, non della scienza come conoscenza. I neo-scettici antichi, gli accademici Arcesilao e Agrippa, e persino il neopirroniano Sesto Empirico, hanno respinto il dogmatismo di stoici ed epicurei, ma indicato (lo vedremo dopo) nell' eulogon (ragionevole) e nel pithanon (probabile) i due criteri-guida della conoscenza umana. Ai giorni nostri, l'epistemologia relativistica di Paul Feyerabend ha messo in discussione l'assoluta certezza oggettivistica e universalistica della scienza (o tecno-scienza occidentale), ma non l'ha demenzialmente equiparata al pensiero magico o animistico, né ha deprivato totalmente di validità le tradizioni filosofiche e culturali occidentali. Rifiutare la gerarchizzazione delle culture non è ritenere che tutto si equivalga, che vero e falso, verificabile e falsificabile (in termini non assoluti, si capisce, ma relativi), probabile e improbabile siano improponibili e indistinguibili. O che scienza e magia siano reciprocamente permutabili, in ogni tempo e luogo.

Altrettanto dicasi per i valori morali e religiosi.

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VI. Vademecum filosofico del relativista


                L'unica cosa che l'uomo del labirinto ha appreso
                dall'esperienza è che vi sono strade senza uscite:
                l'unica lezione del labirinto è la lezione della
                strada bloccata.

     Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace



Si potrebbe cercare di riassumere le tesi principali discusse finora abbozzando una sorta di vademecum filosofico del relativista, un breve compendio in dieci proposizioni, semplici e facili da memorizzare. Che non espongono né una concezione né un sistema filosofico, vecchio o nuovo che sia, ma sono simili a una segnaletica stradale, che indica le vie percorribili o no, con i suoi simboli di divieti e permessi, di corsie, dossi e sensi di marcia, strade interrotte, ecc. Naturalmente, la segnaletica non è fissa e immutabile, ma convenzionale e provvisoria; può essere liberamente modificata, sostituita o reinventata, a condizione della ragionevolezza dei percorsi e della riduzione al minimo dei rischi per gli utenti. Per restare ancora nella metafora, la mappa delle strade percorribili è come la mappa di un paesaggio labirintico, con le sue montagne, le sue valli, i suoi fiumi e i suoi mari, le sue città e i suoi deserti, ma del quale non è possibile vedere i confini dall'esterno, né sapere se esistono. L'Occhio di Dio non ci appartiene. Solo il fanatico religioso, o il mistico, può illudersi di possederlo. L'uomo razionale, al limite del conoscibile, può solo imbattersi in aporie insormontabili.

Siamo tutti «uomini del labirinto». Dentro di esso viviamo, pensiamo, agiamo, ci muoviamo. Senza possibilità di uscirne.


1. «So di non sapere» ( Socrate )

È la definizione stessa del filosofo. Chi non sa, può accontentarsi di non sapere, o disperare di poter sapere, e perciò, in ambedue i casi, non cerca di sapere. La sua è una condizione subumana. Anche chi sa di sapere, di possedere la verità ultima, assoluta, non cerca, non ha bisogno di cercare. La sua è una condizione sovrumana. Solo chi sa di non sapere, proprio perciò cerca di sapere, e (si) interroga e arrovella, costruisce e modifica schemi, linguaggi, congetture e ipotesi di ricerca, fallibili e falsificabili, senza posa e senza fine. La sua è la condizione propria dell'uomo. Il filosofo socratico sa che ci sono vie di ricerca, ma si interroga criticamente sui problemi relativi alla loro effettiva percorribilità.

Lessing, filosofo illuminista tedesco, amava dire che se Dio gli avesse offerto in una mano tutta la verità e nell'altra la ricerca infinita della verità, egli avrebbe fatto la seconda scelta. «Solo il dio è sapiente», ripeteva Socrate. Ammesso che esista, e che possiamo saperlo. All'uomo è concesso ricercare la sapienza, non possederla. Altrimenti sarebbe infallibile. Ma quale uomo ragionevole può pretendere di essere infallibile?


II. «Dubita di tutto, anche del tuo stesso dubitare» (Scettici antichi)

Se la filosofia è sapere di non sapere, dotta ignoranza, il dubbio è la sua struttura portante. Chi non dubita, non può nemmeno distinguere il sapere dal non-sapere, né sapere se sa o non sa. Si muove, se si muove, nel buio, nella notte della ragione. La soppressione del dubbio è la soppressione della ragione. Il dubbio non è la negazione della verità, ma soltanto della possibilità per noi di cogliere la verità assoluta. La verità del dubbio, che il dubbio consente, è la verità congetturale e fallibile conforme al «principio di incertezza», al criterio dell' eulogon-pithanon, il «ragionevole-probabile» di Arcesilao e Carneade. Il filosofo scettico vive con circospezione nel labirinto, dubitando che si ciano strade assolutatamente facili e piane, e con una meta definitiva.

Il dubbio non è tale se non è autoriflessivo. Bisogna dubitare di dubitare, per non trasformare il dubbio in una certezza, per non assolutizzarlo. Colui che obietta che chi dubita, poiché non dubita di dubitare, si contraddice e autoconfuta, dimentica che per chi dubita nessuna verità è assoluta, nemmeno quella del dubitare. Sarebbe pronto a rinunciare al dubbio, se fosse dimostrabile il contrario. Ma non lo è. I tropi scettici, svolta la loro funzione critico-terapeutica, vanno accantonati.


III. L'uomo di ragione, se crede, crede in una «fede dubbiosa» ( Kant )

Se la fede (la fede religiosa) è certezza, non è fede, ma sapere, cioè negazione di se stessa. Alla fede è connaturato il dubbio: credo perché non so; se sapessi, non avrei bisogno di credere, perché sarei certo della verità che posseggo. Alla fede dubbiosa si può contrapporre o la fede assoluta, assolutamente razionale, che perciò coincide col sapere e con la ragione assoluta, ossia con l'arrogante e impossibile pretesa di trascendere le nostre limitate capacità conoscitive. O la fede come conoscenza immediata, «salto mortale» nella trascendenza, il che nientifica la ragione. In questo caso, l'uomo di fede è simile al giovane e borioso sfidante di James Dean nel film Gioventú bruciata: dinnanzi alla strada interrotta, non riesce a frenare e vola nel precipizio dentro la sua auto lanciata a folle velocità. Il filosofo kantiano è colui che è capace di arrestarsi allorché la strada è interrotta, prima del precipizio della ragione.

L'uomo della fede dubbiosa sa di essere dentro il labirinto, e tuttavia anela a una via di fuga, pur non sapendo se esista o no una via che conduca al di là del mondo.


IV. «Il mondo non ha bisogno di dogmi, ma di libera ricerca» ( Russell )

I dogmi sono pregiudizi indiscussi che si fanno verità assoluta, ostacolando la ricerca, la scoperta, la conoscenza. Assunti da autorità con potere coercitivo, producono tribunali, carceri, torture, roghi e morte di chi la pensa diversamente. Si oppongono alla libera ricerca. Se nel Libro sacro è scritto: «Fermati, o sole», e Galilei ha le prove scientifiche e matematiche che è la terra a girare intorno al sole, il Libro ha ragione e la scienza ha torto. Altrettanto dicasi se in esso è scritto che Dio ha creato l'uomo, e Darwin dimostra scientificamente che l'uomo discende dalle scimmie: lo scienziato è un impostore, che pretende di contraddire la parola divina. I dogmi, e ancor piú i dogmi sacri, sono arbitrari e assurdi divieti di transito, sbarramenti nel cammino interminabile della conoscenza. Il libero ricercatore, filosofo o scienziato, è colui che percorre ogni possibile via di ricerca, autonomamente e responsabilmente guidato dalla sua ragione.

Per le menti incatenate (d)ai dogmi, l'impensato, ossia ciò che non è stato ancora pensato ma che è tuttavia pensabile, diventa impensabile (Muhammad Arkoun). Il dogmatismo è un accumulo spaventoso di impensato-impensabile. È l'artrosi e il rachitismo della ragione.


V. «La verità è congetturale» ( Cusano, Popper )

Se la verità assoluta, assolutamente immodificabile e indubitabile, è al di sopra delle possibilità dell'uomo, che è un essere limitato e finito, la nostra attività conoscitiva non può che produrre verità parziali, relative, provvisorie, modificabili e sostituibili, verificabili e falsificabili. Ossia congetture, schemi, progetti, ipotesi di comprensione razionale e di trasformazione del mondo, la cui validificazione non è mai certa né definitiva. Se potessimo costruire o produrre una legge, teoria o concezione scientifica o filosofica di validità assoluta, incondizionata, la nostra mente sarebbe simile alla Mente di Dio. E forse anche superiore, se persino il Dio biblico, vedendo la malvagità umana, si pente della creazione, e manda il diluvio; anche la Sua conoscenza, come la nostra, sembra procedere per prove ed errori, per anticipazioni, smentite e rettifiche. Il sapere congetturale è tipico dell'uomo della conoscenza, che tenta, saggia, prova con ogni mezzo e in ogni direzione le vie della ricerca, sapendo di non possedere il filo d'Arianna che potrebbe condurlo fuori del labirinto.

Ma la conoscenza non è un lavoro di Sisifo, un inutile affannarsi per tornare eternamente da capo. È invece simile al viaggio di Ulisse, affascinante, pieno di affanni e pericoli, ma anche di continue novità e scoperte, inarrestabile e senza destinazione finale, definitiva (Ulisse ripartirà da Itaca).


VI. «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» ( Wittgenstein )

Ciò di cui non si può parlare nel linguaggio della conoscenza sono i tre oggetti della metafisica tradizionale: Dio, anima, mondo. Ogni tentativo di averne scienza e conoscenza si risolve in antropomorfismo. L'anima? Il soffio vitale dell'uomo elevato a sua sostanza spirituale e immortale. Il mondo? L'opera di un Dio-demiurgo, creatore, artigiano, costruttore, designer divino. Dio? La causa prima, il costruttore del mondo, per l'appunto. Dice Montaigne che se un papero potesse pensare Dio, lo penserebbe come un «Dio papero»; i teologi che disquisiscono su Dio, i suoi attributi, la sua natura, ecc., sono dogmatici tracotanti secondo i quali «non ci è permesso di ignorare quel che ignoriamo». Le strade che sembrano poterci illusoriamente condurre alla realtà ultima, all'Oltremondo, sono strade interrotte, bloccate, vicoli ciechi. Il filosofo critico è un agnostico, che sulle questioni di metafisica sceglie il silenzio, perché non ci sono percorsi o vie praticabili e ragionevoli di accesso.

Colui che discetta su Dio e le sue facoltà (Somma Bontà, Onnipotenza, Onniscienza, ecc.), rompe imprudentemente quel silenzio, pretendendo di accedere a ciò che accessibile non è; chi lo richiama alla cautela, l'ateo, l'agnostico o il non credente, viene etichettato come stolto. Per Qohélet, stolto è il teologo presuntuoso, che, pur non conoscendo Dio, e non potendo conoscerlo, ne chiacchiera con sicumera.


VII. Pensare per aporie ( Derrida )

La metafisica può e deve essere criticata per le sue pretese conoscitive, ma non può essere abolita per decreto. Le sue domande su Dio, l'uomo e il mondo, non hanno risposte, ma tornano continuamente a riaffacciarsi. Il mondo è finito o infinito, causato o incausato? C'è un mondo dietro il mondo? Dio esiste, è onnipotente o impotente, onnisciente o no? Tutto per noi finisce dopo la nostra morte? L'agnostico sceglie il silenzio, ma le domande non scompaiono. Chissà! Forse il nostro anelito all'Assoluto è insopprimibile. Ma è tale anelito che ci conduce sull'orlo, sul limite, sul bordo mobile e sfrangiato tra il conoscibile e l'inconoscibile. Dove ci imbattiamo o in antinomie (di due proposizioni opposte, l'una nega l'altra con la stessa forza e validità logica), o in aporie (difficoltà estreme, cul de sac, in cui la logica annega, le stesse antinomie non sono chiaramente formulabili, e non resta che il fascino impenetrabile del mistero). Il filosofo aporetico è colui che porta all'estremo l'analisi dei presupposti, metodi e risultati delle nostre ricerche, giungendo fino al loro fondo insondabile e indicibile.

L'aporeticità insuperabile dei nostri pensieri ultimi è il segno dell'impossibilità sia di sbarazzarci della metafisica, sia di configurarla come scienza. In quest'ultimo caso, il metafisico ricorda la figura mitologica del giovane Icaro, che finisce col precipitare miseramente al suolo per essersi avvicinato troppo al sole (metafora della verità assoluta) svolazzando nel cielo con le sue ali di cera che il calore solare ineluttabilmente scioglie.


VIII. «Vanità delle vanità, tutto è vanità» (Qohélet)

Vanità, inconsistenza, impermanenza: questo contraddistingue tutto ciò che esiste «sotto il sole», nel mondo del relativo in cui viviamo, dove nulla è assoluto, e se lo fosse, nessuno potrebbe saperlo. Anche noi siamo enti intramondani; non sappiamo se l'universo o il pluriverso sia creato o increato, ma sperimentiamo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della nostra vita le condizioni intrascendibili della nostra finitezza, fragilità e contingenza. Per vivere con saggezza, dovremmo dare non troppa importanza a noi stessi, alle nostre idee e azioni, al nostro ruolo nella società e nel mondo. Guardarci dal delirio di onnipotenza, per non cadere nella tentazione biblica dell' eritis sicut Deus (sarete come Dio), nella tracotanza del voler essere (simile a) Dio. Il saggio qohéletico vive nel disincanto del mondo, persuaso che Dio è inattingibile, la vita è fatta forse piú di dolori che di gioie, del tutto scarseggia il senso.

Un tipo di saggezza molto diffuso nelle civiltà antiche. Come in quella greca, dove si credeva che gli dèi punissero il peccato della hybris, della tracotanza di chi ardiva gareggiare con la divinità oltrepassando i limiti dell'umano. O come nella civiltà sumerica e babilonese, dove, nella Saga di Gilgames, la brama d'immortalità doveva essere deposta dall'eroe alla fine delle sue imprese, finalmente persuaso che la morte è parte ineludibile della condizione umana.


IX. Prendersi cura dell'altro ( Jonas )

La differenza tra assolutismo e relativismo etico è certamente di metodo, non di merito. Il relativista non rifiuta per principio i valori etici dell'assolutista, ma li sottopone al dubbio, alla discussione, alla verifica. È pronto a modificarli e migliorarli, perché li ritiene non discesi dal cielo, ma prodotti dalla storia, dal rapporto intersoggettivo ed etico-discorsivo tra gli uomini. In questo senso, un principio etico ragionevole è quello del prendersi cura dei piú deboli, di chi è (stato reso) incapace, impossibilitato a difendersi. Il relativista etico non è un indifferentista o un nichilista etico, ma concepisce l'etica come un processo di costruzione di valori comuni e condivisibili, perfettibili, mai cristallizzabili in dogmi e verità assolute.

Tali valori, se incentrati sulla cura dell'altro, non riguardano solo il prossimo, ma anche la natura, la ricchezza e varietà delle sue forme di vita. Se l'uomo degrada e depaupera l'ambiente e la natura, degrada e depaupera anche se stesso, perché non può prescindere dalla sua naturalità. In questo senso, la cura dell'altroimplica il potenziamento e l'integrazione dell'etica privata e individuale con un'etica pubblica, politica, statale e interstatale, capace di affrontare i grandi problemi della globalizzazione (gigantesco aumento di povertà e distruzione dell'eco-sistema). Il noto spot televisivo di Pubblicità Progresso (chi getterebbe irresponsabilmente i rifiuti nel box del suo bambino?) è istruttivo, ma non si eleva, come forse purtroppo ancora la maggioranza dei nostri contemporanei, alla dimensione pubblica e mondiale dei problemi dell'etica della cura.


X. «Democrazia è relativismo» ( Kelsen )

In politica, l'assolutista, proprio perché non è disposto a mettere in dubbio e in discussione le sue verità, rifiuta per principio il confronto, la negoziazione, il compromesso, ossia tutto ciò che costituisce l'anima della democrazia. Se si assume l'autocrazia (potere dall'alto) come l'opposto della democrazia (potere dal basso), le sue preferenze vanno alle varie forme di regimi autocratici (dittatura di uno solo, della minoranza, della maggioranza, fino all'estremo delle dittature teocratiche). Chi ritiene relative, provvisorie e modificabili le sue opinioni e i suoi valori, sa invece che la verità, per esser condivisibile, deve nascere e rinascere dalla partecipazione attiva e paritaria al dialogo negoziale di tutti i co-interessati. In questo senso, la politica, piú che l'arte del possibile, è l'arte del com-possibile. Il relativista democratico è il politico che nel complesso labirintico delle opinioni, degli interessi, dei bisogni, garantisce il bene comune, soppesando e contemperando e controllando le forze e i poteri in gioco.

Se democrazia è com-possibilità di una pluralità di fattori diversi e irriducibili (ideologie, poteri, individui, gruppi, classi, sessi, etnie, ecc.), non si può imporla o esportarla col diktat della forza, della violenza, della guerra. Nessuno può costringere l'altro ad essere libero, anche perché la libertà è un concetto storico, plurale, plurivoco.

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