Copertina
Autore Michele Marziani
Titolo La trota ai tempi di Zorro
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2006, narrativa 14 , pag. 96, cop.fle., dim. 130x200x7 mm , Isbn 978-88-89969-07-6
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Avere un doppio cognome a volte è peggio che portare gli occhiali. Ecco i due crucci principali della vita di Stefano Baldazzi Morra. Il cognome e gli occhiali. Il cognome perché da bambini è già difficile averne uno di cognome, figuriamoci due, con maestra, supplenti, direttore e poi professori e presidi sempre a interrogarlo sull'esatta posizione di Morra e Baldazzi. Sei un Baldazzi Morra o un Morra Baldazzi? Quanto avrebbe voluto essere un semplice Rossi o un anonimo Bianchi. Stefano Baldazzi Morra è nato il sette dicembre del millenovecentosessantadue a Laigueglia, sulla Riviera di Ponente. Ed è lì che ha sempre vissuto, tra la spiaggia, la vecchia cittadina di pescatori e gli stabilimenti balneari per turisti sempre più stagionati. Papà e mamma a Laigueglia c'erano andati per il mare, perché a Emilia, sua madre, il mare scorreva nel cuore. Lei in fondo c'era nata sul mare, ma su un altro mare, da tutt'altra parte: a Trieste. Con papà si erano conosciuti all'università, a Milano. Papà era nato pure lui a Laigueglia, ma la sua famiglia veniva dal Piemonte, quello vero. Precisamente i Baldazzi Morra, badava a dire sempre papà, venivano dalle colline del Roero, da Priocca d'Alba. Papà però, era nato in Liguria ed era cresciuto in un altro Piemonte, dove già si parla lombardo, a Gozzano, sul piccolo lago d'Orta. A papà del mare non importava nulla, ma gli importava della mamma. Ecco allora che laureati di corsa, presa la prima supplenza ad Albenga, si trasferiscono al mare armi, bagagli e pancione della mamma. Già, stavo arrivando io.

Il doppio cognome insomma me lo sono beccato perché è quello di papà. Quanto agli occhiali non so bene a chi li devo perché sia papà sia mamma li ho visti sempre con gli occhiali inforcati. Addirittura papà ne ha tre o quattro diversi per leggere, scrivere, guardare lontano, vicino e guidare la macchina. Così a quattro anni sono stati la mia prima eredità: sono ipermetrope astigmatico (quasi un doppio cognome e come un doppio cognome non so mai se va prima ipermetrope o astigmatico). Beh, gli occhiali sono una sorta di calamità capace di attirare le battute e gli sghignazzi di tutti i miei compagni di scuola. Ma dai, dice papà, chi vuoi che negli anni Settanta faccia più caso agli occhiali? Orde di bambini, papà. Almeno alla mia scuola. Forse è anche per gli occhiali che mi è piaciuta l'idea di andare a vivere a Gozzano. Spero che lì ci facciano meno caso.

E poi Gozzano l'ho vista. Siamo andati a farci un giro per cercare casa. È un posto bellissimo, non c'è l'umido del mare, dice papà. Ci sono invece boschi e sentieri nei boschi e castagneti e il lago e i cavalli che sono degli Zucca, quelli che fanno il rabarbaro. E poi c'è un torrente, alberi di robinia dappertutto, da lontano si vedono le montagne, quelle vere, le Alpi. È un posto dove staremo bene, me lo sento.


Nel giugno del millenovecentosettantacinque, appena finita la scuola, ci trasferiamo da Laigueglia a Gozzano. La nuova casa è in fondo a via dei Grissini, lungo la strada che dalla Gozzano vecchia, da via Regina Villa, conduce a Bolzano Novarese.

La casa è un po' la somma dei sogni miei, di mamma e di papà. Io ho il giardino con la possibilità di tenere un cane, papà lo studio dove lavorare in santa pace e mamma una casa senza vicini con cui litigare. Già, la nuova casa è proprio una casa, una villetta, non un appartamento dove, come dice mamma, sul pianerottolo s'incontra chissacchì (di solito solo i signori Palladio, quelli che la mamma non sopporta proprio).

A me non piacciono le case, le esploro sempre con diffidenza, ma questa è grande, c'è tanto sole in giardino, le scale, la ringhiera, il garage che una volta era una stalla. Il garage è immenso, dovevano starci almeno tre o quattro mucche visto che oggi c'è posto per l'ottocinquanta, la lavatrice e le riviste che papà un giorno o l'altro butterà via. Da oggi ci metterò anche le canne da pesca. Già, ho deciso che diventerò un bravo pescatore. La canna e il mulinello li ho portati da Laigueglia, ma ho bisogno di spazio per quando comprerò gli stivali, il cestino e soprattutto per tenere i vermi che mamma assolutamente non vuole in casa. Come alla fine non vuole neppure il cane. A Laigueglia non avevamo il giardino e le mie promesse di portarlo a passeggio al mare tutti i giorni non erano valse a nulla. Qui il giardino ce l'abbiamo – talmente grande che ci tocca chiamare un signore a far ordine di tanto in tanto – ma la mamma trova sempre delle scuse per rimandare. Mi consolo con il panorama dalla finestra di camera mia, mi piace proprio, se guardo in alto si vede una chiesa, si chiama il Castello, ma assomiglia a un maniero solo quando il sole sta per tramontare. Allora il Castello è cupo, avvolto dai raggi aranciati del sole calante. Gli arbusti sulla montagna scompaiono e le vie intorno diventano fredde. Però a me piace guardare lo stesso, mi dà la malinconia, ma la malinconia, dice papà, a volte può essere un piacere. Glielo auguro perché a volte ne ha proprio tanta di malinconia. Al contrario della mamma che è sempre allegra, anche quando non c'è proprio motivo.


Giulio Baldazzi Morra, classe millenovecentotrentasei, laurea in lettere classiche, insegnante al liceo scientifico di Borgomanero (un treno da prendere tutti i giorni) e soprattutto giovanissimo (vista l'età media di certi ambienti) e promettente curatore dell'antologia della lingua italiana per le scuole medie di Bruno Gobbi Editore, casa editrice di Milano specializzata in editoria scolastica. È il papà di Stefano. Una bella famiglia, una bella moglie, una vita tutto sommato invidiabile e una nota di tristezza negli occhi azzurrissimi, quelli che Stefano, a differenza del doppio cognome, non aveva ereditato.

A Gozzano è stato lui a volerci tornare anche se non sapeva poi troppo bene perché. Se n'era andato per l'Università. Da allora aveva inseguito ostinatamente prima i suoi sogni, poi Emilia, la mamma di Stefano, poi... Poi quell'insoddisfazione di fondo che mestava i suoi pensieri. E lo sguardo fisso sulla finestra dello studio, nella nuova casa di Gozzano. Il suo primo studio. Non un angolo di cucina, non un pezzetto di ripostiglio, non una porzione di terrazzo (sia pure sul mare), ma una stanza intera. Libri nelle librerie, finalmente. E una scrivania, non grande, ma di legno con la Lettera trentadue, nuova di zecca, azzurra, con la piccola scritta al centro e la scatola con la cerniera riposta dietro la sedia, pronta a partire in qualunque momento. Solo nastro nero, Giulio non sopportava i nastri bicolore nelle macchine da scrivere. E poi fogli, tanti. Un portapenne, la stilografica, qualche Bic, la foto di Stefano ed Emilia che lo guardano sorridendo proprio lì, nell'obiettivo della Rollei.

Non aveva visto la guerra Giulio Baldazzi Morra. Aveva passato l'infanzia a giocare e a mangiare pane bianco, ad Ascona, non lontano dal lago, dagli zii in Svizzera. Mentre l'Europa mangiava pane nero e a volte neppure quello, lui la guerra la vedeva sui giornali. L'avrebbe sentita raccontare dopo, dagli amici, dai genitori degli amici, da un intero paese che sembrava essere uscito da uno schiacciasassi, da un rullo compressore. Giulio no, era salito in macchina assieme alle sorelle, papà Amilcare alla guida, mamma Rosetta dietro con le femmine. Erano scesi a Locarno, poi via lungo il confine del lago e infine di nuovo in Italia. Siamo italiani, ricordalo sempre, gli aveva detto suo padre. Italiani un po' più fortunati degli altri, le macerie della guerra si facevano sempre più fitte scendendo dal lago verso Gravellona con le fabbriche distrutte e i posti di blocco dei soldati senza divisa. Sono partigiani, sono loro che hanno liberato l'Italia gli aveva detto ancora suo padre. In Svizzera, aveva pensato, i liberatori sono vestiti un po' meglio. A dieci anni era ritornato italiano. E non più un italiano di Laigueglia, del mare, come quando era bambino piccolo. Un italiano di Gozzano, in Piemonte, da bambino ormai grande. Ci aveva vissuto bene Giulio Baldazzi Morra nella Gozzano della ricostruzione. Poi si era allontanato di nuovo. Verso Novara per il liceo, verso Milano per l'Università. È in piazza Santo Stefano che ha conosciuto Emilia, rampolla prodigio di famiglia triestina, cocciutamente laureanda in filosofia. Che sguardo scuro, nero, luminoso come una meteora, un lampo... Gli stessi occhioni neri di Stefano. Capelli corvini, lisci, morbidi come la giovinezza. Amarsi, studiare, laurearsi, sposarsi è stato un tutt'uno. E a Emilia piaceva il mare. A Laigueglia c'era il mare e Giulio c'era pure nato. E c'erano anche le supplenze alle medie di Albenga. E... Stefano è nato subito, neppure il tempo di immaginare una casa e un bambino.

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Abbiamo preparato tutto. Papà ci ha dato anche un libretto che regalano i distributori dell'Agip pieno di consigli per la pesca. Mamma ci ha fatto un sacco con la merenda se ci viene fame e ha detto che domattina ci prepara un termos di tè, se si sveglia. Abbiamo controllato: licenza nuova di zecca per me e per Giovanni, canne da pesca, cestini (il mio è di plastica verde, Giovanni ha quello di vimini di suo padre, secondo me un po' gli pesa, non perché è grande, ma perché gli ricorda zio Luciano), vermi, ami, fili, piombi, le forbici multiuso comprate alla Standa di Borgomanero, stivali, calzettoni di lana pesante, eskimo, maglioni, sciarpe, berretti, la sveglia alle cinque che alle sei, anche se è buio, vogliamo essere al Bachitòn, la grande buca, quasi un laghetto, che c'è sull'Agogna. Giovanni dice che le trote, d'inverno, si prendono lì. Non dormo per tutta la notte, controllo che la sveglia sia puntata davvero, mi giro nel letto, sento il respiro di Giovanni, sento papà che gira per casa, vado a controllare l'attrezzatura, vado a vedere la caffettiera (vista l'occasione mamma ci permette di mettere un po' di caffe nel latte), stringo la vitina degli occhiali con il cacciavite di papà, non vorrei si rompessero proprio il primo giorno di pesca, prendo la Voigtlander, cerco uno zaino dove metterla, voglio portarla sul torrente. E se poi cade in acqua? A Rodolfo non cadrebbe. Ma a me sì, ne sono sicuro. La rimetto via. Torno a letto. Non mi ero mai accorto che la sveglia facesse tanto rumore. Tic-tac, tic-tac, guardo l'ora, le due, mi giro dall'altra parte. Mi alzo. Cerco il latte condensato, trovo il tubo nel frigo e comincio a succhiare. Finalmente le cinque. Chiamo Giovanni e in un attimo siamo in cortile. È buio, mamma non si è alzata per il tè, tiriamo fuori le biciclette dal garage e partiamo. Giovanni prendi una pila. Già, è meglio. Eccome se è meglio, prendiamo la strada per San Lorenzo dal cimitero ed è buio, molto buio. Con la pila si intravedono le ombre degli alberi che si richiudono al nostro passaggio. Anche con i guanti ho freddo alle mani. Leghiamo le biciclette a un cancello, chi mai l'avrà messo un cancello per andare in riva a un torrente? Sento il rumore dell'acqua vicino. È il mio primo giorno di pesca alla trota.


La lenza è già pronta. L'ha fatta ieri sera Giovanni. Guarda Stefano, mi dice, ti faccio vedere come si infila il verme sull'amo. Prende un lombrico e lo tiene stretto tra le dita, poi lo trafigge con la punta e lo fa scorrere sul gambo. Zac, l'amo è scomparso dentro al lombrico che si contorce selvaggiamente. Facile, penso e prendo un verme anch'io. Attento che sono scivolosi, stringili bene. Me ne sono accorto è già caduto nel prato. Ne prendo un altro, ma si arrotola tutto, non riesco a infilare l'amo. Giovanni mi spiega che per quelli di città vendono anche degli aghi apposta perché proprio non sono capaci a mettere il verme. Io non sono mica uno di città, penso, ma intanto non ci riesco. Il primo lombrico me lo innesca Giovanni. Io imparerò più tardi. Il cielo si è fatto meno scuro e al Bachitòn, oltre a noi, ci sono altri pescatori. Qualcuno accende un fuoco. C'è il ghiaccio sulla punta della canna ed è difficile lanciare. Non si prende niente stamattina, dice un signore nascosto dietro al fumo di una sigaretta. Ma tu non sei il figlio del professore? domanda. Del professore con due cognomi dico... Baldazzi Morra? Chiedo io che sono abituato. Sì, sì, Baldazzi Morra... Sì, sono io... Ciao, io sono Mario Giurati, il papà dell'Antonella, Antonella Giurati, che va a scuola da tuo padre... E così ti piace la pesca? È il primo giorno, ma credo di sì, mi piacerà molto... Fa vedere come peschi... Ah ma se fai così con l'acqua bassa prendi poco... Ci vuole il filo fine, il galleggiante... La lenza da fondo come la tua va bene in montagna... Un giorno che ci incontriamo sul fiume ti spiego bene... Salutami il tuo papà, ricordati, Giurati... Stefano corri, l'ho presa, è grossa, vieni ad aiutarmi... È Giovanni che urla come un dannato in fondo alla buca, ha la canna piegata e pure lui non sembra tanto dritto... Vado vicino e guardo il filo che parte dalla canna e si inabissa in acqua e in fondo un lampo giallo che si gira, è la pancia della trota, credo. Faccio fumo dalla bocca mentre parlo. Giovanni cosa devo fare... Devi prenderla quando la porto a riva... Giovanni suda. E se non sono capace e la perdo? Non la perdi, devi afferrarla forte, sotto alle branchie, prendi uno straccio magari. Ecco cosa non abbiamo, penso, lo straccio. Mi tolgo il fazzoletto dalla tasca. Entro in acqua con gli stivali, sento il freddo fuori dalla gomma, intorno ci sono anche i pescatori grandi, ma non parlano. La vedo la trota di Giovanni che arriva verso la sponda, è grande, è enorme, ha una pancia gialla, il dorso scuro e da sotto la superficie dell'acqua si vedono dei pallini rossi, arancioni forse. Le giro intorno, mentre Giovanni indietreggia sulla riva, anch'io adesso sudo, vedo la testa fuori dall'acqua, arrivo con il fazzoletto, stringo forte e sollevo il pesce, sento tutta la potenza dei muscoli della trota che vorrebbe divincolarsi. Io non posso tradire Giovanni e stringo forte e tiro il pesce sulla riva. Giovanni lascia la canna e corre a prendere la trota. Arriva un pescatore adulto e ci dice uccidetela, sennò soffre... Come si fa? Chiedo a Giovanni, ma lui non ascolta, guarda il suo pesce che ormai è un po' anche mio. Devi sbattergli la testa su un sasso, dice il pescatore. Giovanni lo sa, se lo ricorda, prende il pesce con due mani e lo sbatte su un grosso masso. La trota si irrigidisce. cola del sangue sulla pietra Giovanni la lava nell'acqua del torrente. Io la guardo incantato. Bella bestia, sarà mezzo chilo, dice il pescatore dietro di noi. Prendi il metro Stefano. Eccolo. Fa quarantatré centimetri. Sai che è la più grossa della mia vita? ansima Giovanni. Per me è bellissima. Non avevo mai visto un pesce come quello, così liscio, lucido, possente, con la schiena cupa, la pancia giallastra, i puntini neri e rossi sui fianchi, le pinne lunghissime e la mascella pronunciata, possente come quella dei salmoni canadesi dei documentari. Guardo il cielo, c'è aria da neve, è freddo. Giovanni è felice. Chissà se lo prenderò mai anch'io un pesce così?

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Si va allora. Ho ascoltato la discussione di mamma e papà dal sottoscala, facendo finta di mettere a posto la roba da pesca. Giovanni è contento di venire perché gli ho spiegato che ci si diverte, ma sono io che ho vinto, sono io che ho convinto prima Elsa e Rodolfo e poi mamma. E lei ha pensato a papà. Non so perché ci tengo tanto ad andare, ne ho letto sul giornale dove lavora Rodolfo e anche il Manifesto che ogni tanto mamma compra ne parlava. Cosa mi aspetto non lo so, ma adesso che vado a Milano alla festa del Parco Lambro, alla festa del proletariato giovanile, scandisco le parole anche col pensiero, mi sento davvero grande. Un po' lo sono, ne sono sicuro. Cerco il vecchio sacco a pelo militare di papà. Giovanni il suo ce l'ha. Rodolfo ha detto che si dorme dove capita con le macchine fotografiche per cuscino così non ce le rubano. Perché a una festa di compagni rubano le macchine fotografiche? ho chiesto. Non si sa mai, ha risposto Rodolfo. Giovanni ha voluto sapere se ci sono ragazze della sua età. Ci sono anche bambine, è una festa per tutti. C'è tanta musica, ho saputo, e tanta gente e tanto... non so tanto cosa, ma voglio andarci, non sto nella pelle. E voglio fare le foto, un mare di foto, colorate bellissime. So che Milano sarà bella. Questa volta andiamo in auto, niente treno. La Renault quattro di Rodolfo è piena come un uovo di noi che siamo felici e di tutto quello che forse potrà servirci. Elsa è radiosa, ha i capelli al vento che da bibliotecaria non le ho visto mai e profuma di fiori mentre fa svolazzare una sciarpa indiana. Rodolfo è bianco come un cencio sotto alle maniche arrotolate della camicia. Io e Giovanni siamo dietro. Il rumore della macchina con i finestrini aperti è infernale. Rodolfo racconta che ascolteremo gli Area, Eugenio Finardi, Gianfranco Manfredi... Io non conosco davvero nessuno. Giovanni qualcosa ha sentito, ma siamo troppo piccoli per conoscere questa musica, lo dice anche Elsa. E zio Luciano era troppo grande quando faceva ascoltare i dischi a Giovanni, penso io, mentre attraversiamo il Ticino sul ponte di ferro. Sotto è blu e immagino i pesci, intorno tutto sa di lago e di pianura e più si va verso Milano più aumentano case e strade. Arriviamo in città, non avevo mai visto tanto cemento da vicino, tanta aria grigia scendere sotto il sole e poi il caldo e le macchine, tantissime, e il tram, e le piante che non sono verdi, i cartelloni della pubblicità sono enormi, luccicanti, ma grigi da qualche parte anche loro grigi... Rodolfo ha gli occhi da sognatore e un po' mi ricorda papà. Già, lui non era d'accordo e forse aveva ragione: c'è una patina di tristezza sulle strade, sui pali della luce, dentro ai portoni, attorno alle ringhiere... Non so cos'è, ma non sono più felice, anzi mi preoccupo un po'... Non siete mai stati a Milano? No, rispondiamo in coro ed è un coro sperduto quello mio e di Giovanni, noi siamo bambini di montagna e di mare, pescatori di trote, studenti di provincia, come si fa a vivere qui vorrei chiedere, come si fa solo a pensarlo un posto così... Passa la Renault quattro e vedo le capanne e le roulotte e gli zingari e le giostre e il sole che sta sciogliendo l'asfalto e il caldo e l'immondizia e l'odore della città... È un odore che non mi piace... Fermiamo la macchina dove ce ne sono altre e intorno ci sono persone colorate nei vestiti, con i cani, un uomo con il trombone, una ragazza con gli occhi dipinti di verde e piccoli tappeti per terra che fanno da botteghe dove si vendono borse, cinture, orecchini, anelli, sciarpe, incensi, libri, giornali, maschere dipinte, essenze, profumi, erbe, pipe per fumare l'hashish, mi spiega Rodolfo, si chiamano chilum o qualcosa di simile, non capisco. La droga mi fa paura. L'hashish non è proprio una droga, dice Elsa. Secondo un libro che ho letto sì, a quarant'anni fa diventare impotenti. Non ho ben chiaro cosa vuole dire, ma Rodolfo ride di una risata forte che rompe l'aria, che toglie quella patina grigia che c'è anche qui dove tutti sembrano usciti da un accampamento di indiani e alcuni girano mezzi nudi, altri hanno il cappello con la piuma e ci sono donne con le pietre preziose nei denti che leggono le carte o stanno sedute per terra e fumano... E i fumi sono intensi, mescolati, dolciastro di hashish che mi insegna Elsa a riconoscerlo, di erba secca che brucia che è quello di marijuana, di pipa forte, pungente di bidi che sono sigarette indiane di gelso mi spiega ancora Elsa e di chiesa, di incenso, del funerale di zio Luciano, di oriente, di cose lontane... Una mescolanza di fumi che scivola nell'aria a zaffate e quando mi investe mi lascia stordito. Rodolfo cerca qualcuno. Elsa si dondola in un vestito colorato, grande, vistoso, leggero che la rende bellissima come una fata... In biblioteca non l'ho mai vista così. Sento la musica. C'è gente che passa. Qualcuno barcolla. Qualcuno saluta. Tutti si guardano, molti sorridono. Gli occhi, gli occhi di tutti sorridono. Giovanni mi guarda serio: ma qui si drogano tutti, dice. No, è solo un altro mondo, rispondo, ma neppure io so dove sono, di tutto questo a casa, a scuola, sui libri non ho sentito parlare mai. È diverso, molto diverso, da quando siamo andati a fotografare gli operai, di operai in casa se n'è parlato sempre, mentre di questo mondo inebriante fatto di cani, di capelli lunghi, di vestiti colorati, di ciondoli e collane, non ho sentito parlare mai. Guarda là un ragazzo con il cappello a cilindro e il violino... E quello che sembra Mosè mentre apre le acque... E quella ragazza dai capelli rossi e le unghie lunghissime arrotolate che ci guarda come fosse una strega... Seguiamo Rodolfo che sorride sempre meno e ha qualcosa che gli vela lo sguardo, ogni tanto si ferma, parla con qualcuno, a volte scatta, ma scatta poco... Gira, cerca. Noi abbiamo lasciato tutto in macchina, anche la Voigtlander, ma non m'importa di fotografare questo mondo, io voglio esserci in questo mondo, voglio sentirne le vibrazioni – me l'ha detto un signore, quello che sembra Mosè: ascolta le vibrazioni – chiedo quanto costa un braccialetto a uno seduto col cane e due occhiali grandi in mezzo ai capelli lunghissimi. Ce li ho i soldi. Lo compro, chiedo a Elsa se me lo lega, è di cuoio intrecciato. Adesso mi sento più uguale. Giovanni dice che vendono dei panini con i wurstel. Sarà quello mangiare macrobiotico come diceva papà? È Elsa stavolta che ride di gusto, con i denti che si aprono come un arcobaleno e ci spiega che i macrobiotici mangiano lenticchie, riso e carote, scondite. La musica avvolge il parco e tutti quelli che ci passano. E anch'io sono ormai un tutt'uno con questi odori, con i profumi d'oriente, con la voce potente di Demetrio Stratos che canta giocare col mondo facendolo a pezzi... Che brivido, sento la pelle che si tende e diventa un tamburo di spilli, desidero un mondo migliore, lo desidero davvero e mi sento leggero, pronto a partire verso un viaggio nel quale la musica mi sta già accompagnando. È la stessa forza delle voci potenti degli operai di Novara, è qualcosa che mi dice chi devo essere e cosa voglio fare... La mia rabbia legge sopra i quotidiani... La musica pulsa come un motore di trattore mi manca il fiato... Leggi nella storia tutto il mio dolore... E io lo sento il dolore del mondo, sono un bambino, sono un uomo, sento comunque qualcosa che mi fa esplodere il cuore... Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra all'umanità... Intorno c'è un mondo che è la mia famiglia, adesso lo è. E anche papà e mamma se fossero venuti capirebbero. Che voce, che musica, che profumi, che colori, che... Che cosa succede perché Rodolfo arriva di corsa? Perché è scuro in volto? Perché sta parlando con Elsa come quando mamma e papà litigano? Non ci si ferma più a dormire ragazzi, è meglio che andiamo a casa... Elsa è risoluta come una maestra, non la immaginavo così. Oppongo resistenza, voglio almeno capire perché. È meglio tornare a casa. Ma sto così bene qui Elsa. Ma se vi accadesse qualcosa i tuoi genitori se la prenderebbero con me e con Rodolfo. Ma cosa vuoi che succeda... Rodolfo è preoccupato. Voglio sapere perché, alzo la voce per sapere perché e la sento stridula, da bambino e un po' me ne vergogno... Per me se andiamo è lo stesso, io mi sono già divertito, dice Giovanni. Ma per me non è lo stesso, non lo è proprio. Dai Stefano, fammi un piacere, fallo per me. Elsa mi guarda preoccupata e io le voglio troppo bene per farla preoccupare. Andiamo, ma almeno mi spieghi perché. Per strada. Per strada.


Rodolfo rimane a Milano. È Elsa che guida e ci riporta a casa con la Renault quattro che diventa una macchina triste e grigia come la città che attraversiamo col buio. Fa paura Milano, non so perché, ma fa paura, non vorrei mai che ci dovessimo fermare. So che dietro a ogni pilone c'è una città pronta a sbranarci. Non avevo mai visto una puttana prima di stasera. All'inizio non ho capito perché sul bordo di questo immenso vialone ci fossero donne con la minigonna ad aspettare. Poi Giovanni ha detto hai visto quante troie... Allora ho capito. Ci sono parole migliori per chiamare quelle signorine, dice Elsa con il filo di voce di chi si vergogna. Ma sempre troie rimangono, sentenzia Giovanni che è di malumore. È triste, dico io. Lo fanno per i soldi, dice Giovanni. Magari hanno i figli piccoli e il marito disoccupato, dice Elsa. Chi quella? indica Giovanni con una punta di disprezzo. Sì, quella... lo rintuzza dolce Elsa. Sei meglio della mamma a sostenere le discussioni, vorrei dirle ma, come sempre, non ho il coraggio. Allora chiedo perché siamo andati via. Succederà qualcosa alla festa, dice Elsa. Che cosa? Niente di importante... Sono un ragazzino ma non mi freghi così, se non è niente di importante perché ci hai portato via... Perché non si sa mai. Dai dimmi cosa deve succedere... Ci sono degli spacciatori di droga in mezzo a quelli che ascoltano la musica... È pieno di droga, dice Giovanni... No, non il fumo, non le droghe leggere, quelle non fanno male a nessuno... Mi vengono in mente le risate di quando ho detto che porta all'impotenza, come è cambiato il clima in poche ore. Come siamo seri. Tristi. Intendo droghe pesanti, eroina... prosegue Elsa. L'eroina fa morire, annichilisce il cervello, è una droga che vogliono i padroni e non si può vendere tra i compagni... È diventata seria, serissima, Elsa, fa quasi paura quando parla così. Stanotte Rodolfo e altri compagni manderanno via gli spacciatori, ma può essere pericoloso è per questo che vi porto a casa... Potevamo dare una mano, azzardo. Non è una bella cosa. Già non è una bella cosa essere dei ragazzi quando servono degli uomini finiti. Anche papà sarebbe rimasto con Rodolfo, lo so. L'eroina uccide, l'ho letto in un libro. Cosa diciamo a casa? Chiedo a Elsa. La verità, si fa prima che a inventare bugie.

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