Autore Paul Mason
Titolo Postcapitalismo
SottotitoloUna guida al nostro futuro
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2016, La Cultura 989 , pag. 382, cop.fle., dim. 15,5x21,4x2,2 cm , Isbn 978-88-428-1948-6
OriginalePostCapitalism: a guide to our future
EdizioneAllen Lane, London, 2015
TraduttoreFabio Galimberti
LettoreCristina Lupo, 2016
Classe economia , economia politica , storia economica , politica , lavoro , informatica: politica












 

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Indice


    Introduzione                                           9


    PARTE PRIMA

1.  Il neoliberismo è in frantumi                         25
2.  Onde lunghe, memorie corte                            57
3.  Aveva ragione Marx?                                   77
4.  L'onda lunga spezzata                                109

    PARTE SECONDA

5.  I profeti del postcapitalismo                        141
6.  Verso la macchina gratuita                           181
7.  Splendidi piantagrane                                215

    PARTE TERZA

8.  Sulle transizioni                                    257
9.  Motivi razionali per farsi prendere dal panico       287
10. Progetto Zero                                        307


    Ringraziamenti                                       339
    Note                                                 341
    Indice analitico e dei nomi                          361


 

 

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Pagina 9

Introduzione


Per trovare il fiume Dnestr guidiamo attraverso fredde foreste, passando davanti a grandi caseggiati semidiroccati ed enormi stazioni di smistamento in cui predomina il colore della ruggine. L'acqua scorre limpida e gelida. C'è un silenzio tale che si sente perfino il rumore dei pezzettini di cemento che si staccano dal ponte stradale sopra di noi, sgretolato lentamente dall'incuria.

Il Dnestr rappresenta il confine geografico tra il capitalismo di libero mercato e il sistema (comunque vogliate chiamarlo) retto da Vladimir Putin. Divide la Moldavia, un paese dell'Europa orientale, dai separatisti della Transnistria, uno stato fantoccio della Russia controllato da mafia e polizia segreta.

Sul versante moldavo, si vedono anziani accovacciati sui marciapiedi che vendono la roba che hanno coltivato o fabbricato: formaggio, dolci, qualche rapa. I giovani scarseggiano: un adulto su quattro lavora all'estero. Metà della popolazione guadagna meno di 5 dollari al giorno; una persona su dieci vive in condizioni di miseria comparabili a quelle dell'Africa. La Moldavia è nata all'inizio dell'era neoliberista, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica nei primi anni novanta e il successivo ingresso delle forze di mercato; ma molti dei contadini con cui parlo preferirebbero vivere nello stato di polizia putiniano che nella scandalosa indigenza del loro paese. Questo mondo grigio di strade sporche e facce torve è un prodotto del capitalismo, non del comunismo. E il periodo migliore del capitalismo ormai è già passato.

La Moldavia, ovviamente, non è un tipico paese europeo. Ma è in questi luoghi di confine del pianeta che possiamo osservare un'inversione di tendenza nell'economia, e rintracciare i legami di causa-effetto tra stagnazione, crisi sociali, conflitti armati ed erosione della democrazia. Il fallimento economico dell'Occidente sta intaccando la fiducia in valori e istituzioni che credevamo permanenti.

Da dietro le vetrate dei grattacieli, nei centri finanziari, la situazione può ancora apparire rosea. Dal 2008, migliaia di miliardi di dollari di denaro creato ad arte sono fluiti attraverso banche, hedge fund, studi legali e società di consulenza per mantenere in funzione il sistema globale.

Le prospettive di lungo termine del capitalismo sono però sconfortanti. Secondo l'Ocse, la crescita nei paesi sviluppati rimarrà «debole» per i prossimi cinquant'anni. La disuguaglianza aumenterà del 40 per cento. Entro il 2060, l'attuale espansione si sarà esaurita perfino nei paesi in via di sviluppo. Gli economisti dell'Ocse sono troppo garbati per dirlo, perciò lo dico io a chiare lettere: per i paesi sviluppati il meglio del capitalismo è alle spalle, e per il resto del mondo finirà nell'arco della nostra vita.

Quella che nel 2008 era cominciata come crisi economica si è tramutata in crisi sociale, e ha portato ad agitazioni di massa; ora, con rivoluzioni che sfociano in guerre civili, creando tensioni militari fra le superpotenze nucleari, è diventata una crisi dell'ordine globale.

Può andare a finire solo in due modi. Nel primo scenario, l'élite globale tiene duro, scaricando il costo della crisi su lavoratori, pensionati e poveri per i prossimi dieci o vent'anni. L'ordine globale sopravvive - fatto rispettare dal Fondo monetario internazionale, dalla Banca mondiale e dall'Organizzazione mondiale del commercio -, ma in una forma indebolita. I costi del salvataggio della globalizzazione ricadono sulle spalle delle persone comuni dei paesi sviluppati. Ma la crescita stagna.

Nel secondo scenario, il consenso generale si spezza. Salgono al potere partiti di estrema destra ed estrema sinistra, perché le persone comuni si rifiutano di pagare il prezzo dell'austerità. A quel punto, ogni stato cerca di riversare i costi della crisi sugli altri. Con la globalizzazione in frantumi, le istituzioni mondiali perdono ogni potere, e i conflitti che hanno infiammato gli ultimi vent'anni - guerre della droga, nazionalismi postsovietici, jihadismo, migrazioni incontrollate e ostilità verso gli immigrati - scatenano un incendio nel cuore del sistema. In questo scenario, viene meno anche il rispetto di facciata del diritto internazionale: tortura, censura, detenzioni arbitrarie e sistemi di sorveglianza di massa diventano strumenti canonici dei governi. Questa prospettiva è una nuova versione di quanto avvenne negli anni trenta, e nulla può garantirci che la storia non si ripeta.

In entrambi i casi, le pesanti conseguenze dei cambiamenti climatici, dell'invecchiamento della popolazione e della crescita demografica cominceranno a farsi sentire intorno all'anno 2050. Se non riusciremo a creare un ordine globale sostenibile e a recuperare dinamismo economico, quelli successivi al 2050 saranno decenni di caos.

Ecco perché voglio proporre un'alternativa: per prima cosa, salviamo la globalizzazione gettando via il neoliberismo; poi salviamo il pianeta (e salviamo noi stessi da disordini e disuguaglianze) superando il capitalismo.

Gettar via il neoliberismo è la parte facile. In Europa c'è un consenso sempre più ampio, fra movimenti di protesta, economisti radicali e partiti politici radicali, su come fare: reprimere l'alta finanza, invertire le politiche di austerità, investire nelle energie verdi e promuovere posti di lavoro ben retribuiti.

Ma poi?

Come dimostra l'esperienza greca, un governo che scelga di sfidare l'austerità andrà istantaneamente a scontrarsi con le istituzioni globali che proteggono l'«Uno per cento». Dopo la vittoria elettorale del partito di sinistra radicale Syriza, nel gennaio 2015, la Banca centrale europea, che ha fra i suoi compiti quello di favorire la stabilità delle banche greche, ha staccato loro la spina scatenando una fuga dei depositi da 20 miliardi di euro, e costringendo il governo di sinistra a scegliere fra bancarotta e sottomissione. Non troverete nessun verbale, nessun voto, nessuna spiegazione per quello che ha fatto la Bce. Hanno lasciato che fosse Stern, un periodico tedesco di destra, a spiegarlo: hanno «demolito» la Grecia. Lo hanno fatto, simbolicamente, per rafforzare il messaggio centrale del neoliberismo, cioè che non c'è alternativa («there is no alternative»): tutte le strade che deviano dal capitalismo finiscono in disastri come quello sovietico, e rivoltarsi contro il capitalismo significa rivoltarsi contro un ordine naturale e senza tempo.

L'attuale crisi non preannuncia solo la fine del modello neoliberista, è un sintomo della sfasatura di più lungo termine tra i sistemi di mercato e un'economia basata sull'informazione. Lo scopo di questo libro è spiegare perché sostituire il capitalismo con qualcos'altro non è più un sogno utopistico, come individuare all'interno del sistema attuale le forme essenziali di un'economia postcapitalista e che cosa fare per favorire una loro rapida espansione.

Il neoliberismo è la dottrina dei mercati incontrollati: ritiene che la via migliore verso la prosperità sia il perseguimento individuale dell'interesse egoistico di ciascuno, e che il mercato sia il solo modo per esprimere questo interesse. Il neoliberismo dice che lo stato deve essere «leggero» (con l'eccezione dei reparti antisommossa e della polizia segreta), che la speculazione finanziaria fa bene, che la disuguaglianza è una cosa buona e che la condizione naturale del genere umano è quella di un ammasso di individui spietati in competizione fra loro.

Il suo prestigio poggia su risultati tangibili: negli ultimi venticinque anni, il neoliberismo ha determinato la più grande ondata di sviluppo economico che il mondo abbia mai visto, e ha messo in moto un miglioramento esponenziale delle tecnologie informatiche di base. Ma così facendo ha riportato la disuguaglianza a livelli vicini a quelli di un secolo fa, e ora ha scatenato un evento che ne mette a rischio la stessa sopravvivenza.

La guerra civile in Ucraina, che ha portato le forze speciali russe sulle rive del Dnestr; il trionfo dell'Isis in Siria e in Iraq; l'ascesa di partiti fascisti in Europa; la paralisi della Nato a fronte dell'ostilità agli interventi militari dei cittadini degli stati membri: non sono problemi separati dalla crisi economica, sono i segnali che l'ordine neoliberista ha fallito.

Negli ultimi vent'anni, milioni di persone si sono opposte al neoliberismo, ma in generale la resistenza è stata sconfitta. Al di là degli errori tattici commessi e della repressione subita, la ragione è semplice: il capitalismo liberista è un'idea chiara e potente, mentre le forze che lo combattono sembrano difendere qualcosa di vecchio, peggiore e incoerente.

All'interno dell'Uno per cento, il neoliberismo ha la forza di una religione: più la pratichi, meglio ti senti (e più ricco diventi). Perfino tra i poveri, una volta che il sistema ha messo radici, comportarsi in modo difforme dai rigidi dettami neoliberisti è diventato irrazionale: ci si indebita, si fa il possibile per sfuggire alle tasse, ci si adegua alle regole insensate imposte sul lavoro.

E per decenni gli oppositori del capitalismo si sono crogiolati nella loro stessa incoerenza. Dal movimento antiglobalizzazione degli anni novanta fino a Occupy e oltre, i movimenti per la giustizia sociale hanno rigettato l'idea di un programma coerente, privilegiando l'approccio «un no, tanti sì». L'incoerenza è logica, se si pensa che l'unica alternativa è ciò che la sinistra del XX secolo chiamava «socialismo». Perché lottare per un grande cambiamento se rappresenta soltanto una regressione - verso il controllo pubblico e il nazionalismo economico, verso economie che funzionano solo se tutti si comportano nello stesso modo o si sottomettono a una brutale gerarchia? A sua volta, l'assenza di una chiara alternativa spiega perché i movimenti di protesta non vincono quasi mai: perché nel loro intimo non vogliono vincere. C'è perfino un termine per definire questa tendenza, nei movimenti di protesta: il «rifiuto di vincere».

Per rimpiazzare il neoliberismo ci serve qualcosa di altrettanto potente ed efficace: non semplicemente un'idea brillante su come potrebbe funzionare il mondo, ma un nuovo modello, olistico, che sappia stare in piedi da solo e produrre risultati sensibilmente migliori. Questo sistema dovrà basarsi su micromeccanismi, non su diktat o misure politiche: dovrà funzionare spontaneamente. La tesi di questo libro è che esiste un'alternativa chiara, applicabile a tutto il mondo e capace di consegnarci un futuro notevolmente migliore di quello che potrà offrire il capitalismo alla metà del XXI secolo.

Si chiama postcapitalismo.


Il capitalismo è più di una semplice struttura economica, o di un insieme di leggi e istituzioni. È l' intero sistema - sociale, economico, demografico, culturale, ideologico - necessario per far funzionare una società sviluppata attraverso i mercati e la proprietà privata. Comprende aziende, mercati e stati. Ma anche gang criminali, reti di potere segrete, predicatori e santoni nelle baraccopoli di Lagos, analisti imbroglioni a Wall Street. Il capitalismo è allo stesso tempo la fabbrica della Primark crollata in Bangladesh e le ragazzine adolescenti che, sovraeccitate alla prospettiva di poter comprare vestiti a prezzi da saldo, hanno preso d'assalto il negozio londinese della Primark il giorno dell'inaugurazione.

Studiando il capitalismo come un intero sistema, possiamo individuare una serie di caratteristiche fondamentali. Il capitalismo è un organismo: ha un suo ciclo vitale, con un inizio, una parte centrale e una fine. È un sistema complesso, che opera al di là del controllo di individui, governi e perfino superpotenze. Crea spesso effetti contrari alle intenzioni delle persone, anche quando queste ultime agiscono razionalmente. Il capitalismo è anche un organismo capace di apprendere, che si adatta costantemente, e non solo a piccoli passi. Nei grandi momenti di svolta, davanti al pericolo si ridefinisce e si trasforma, creando modelli e strutture quasi irriconoscibili per la generazione precedente. E il suo istinto di sopravvivenza più elementare consiste nel guidare il progresso tecnologico. Se guardiamo non solo all'informatica e all'hi-tech, ma anche alla produzione di cibo, al controllo delle nascite o alla salute mondiale, probabilmente gli ultimi venticinque anni sono stati teatro del più grande incremento di capacità nella storia umana. Ma le tecnologie che abbiamo creato non sono compatibili con il capitalismo; non nella sua forma presente, e forse in nessuna forma. Se il capitalismo non è più in grado di adattarsi al progresso tecnologico, allora il postcapitalismo diventa una necessità. Se sorgono in maniera spontanea comportamenti e organizzazioni adatti a sfruttare il progresso tecnologico, allora il postcapitalismo diventa possibile.

In breve, la tesi di questo libro è la seguente: il capitalismo è un sistema adattativo complesso che ha raggiunto i limiti della propria capacità di adattamento.

Tutto questo, naturalmente, è lontano mille miglia dal pensiero economico dominante. Negli anni del boom, gli economisti iniziarono a convincersi che il sistema emerso dopo il 1989 fosse permanente, l'espressione più perfetta della razionalità umana, e che politici e banche centrali potessero risolvere qualsiasi problema muovendo le leve della politica di bilancio e monetaria.

Quand'anche prendevano in considerazione la possibilità che nuove tecnologie e vecchie forme di società non fossero in sintonia, davano per scontato che la società si sarebbe semplicemente rimodellata intorno alla tecnologia. Il loro ottimismo era giustificato, perché simili aggiustamenti erano già avvenuti in passato. Ma oggi il processo di adattamento si è inceppato.

L'informatica è diversa da qualsiasi tecnologia precedente. Come dimostrerò, la sua tendenza spontanea è dissolvere i mercati, distruggere la proprietà e spezzare la relazione fra salario e lavoro. E questo è lo scenario che fa da sfondo alla crisi che stiamo vivendo.


Se ho ragione, allora dobbiamo ammettere che, per gran parte del secolo scorso, la sinistra ha immaginato la fine del capitalismo nel modo sbagliato. L'obiettivo della vecchia sinistra era abbattere con la forza i meccanismi del mercato. La forza l'avrebbe fornita la classe operaia, o nelle urne o sulle barricate. La leva sarebbe stata lo stato. L'opportunità sarebbe emersa dai frequenti tracolli economici.

Negli ultimi venticinque anni, invece, a crollare è stato il progetto della sinistra: il mercato ha surclassato la pianificazione, l'individualismo ha sostituito il collettivismo e la solidarietà, e la forza lavoro mondiale, allargatasi enormemente, ha le sembianze di un «proletariato», ma non pensa o non si comporta più esclusivamente come tale.

Se avete vissuto tutto questo, e avete odiato il capitalismo, è stato un trauma. Ma nel frattempo è successo che la tecnologia ha creato una nuova via d'uscita dal capitalismo, e quel che resta della vecchia sinistra - e di tutte le altre forze che ne sono influenzate - dovrà imboccarla, se non vuole scomparire.

Il capitalismo, si è visto, non sarà abolito a tappe forzate. Sarà abolito creando qualcosa di più dinamico, che già esiste, quasi invisibile, all'interno del vecchio sistema, e che poi verrà alla luce rimodellando l'economia intorno a nuovi valori, nuove norme e nuovi comportamenti. Come accadde al feudalesimo cinquecento anni fa, il superamento del capitalismo sarà accelerato da shock esterni e plasmato dall'affermazione di un nuovo tipo di essere umano. E il processo è già cominciato.

Il postcapitalismo è possibile grazie a tre effetti prodotti dalle nuove tecnologie negli ultimi venticinque anni.

Primo, l'informatica ha ridotto la necessità del lavoro, ha assottigliato i confini tra lavoro e tempo libero e ha allentato la relazione tra lavoro e salario.

Secondo, i beni d'informazione stanno erodendo la capacità del mercato di formare correttamente i prezzi, perché i mercati si basano sulla scarsità, mentre l'informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema consiste nel generare monopoli di proporzioni mai viste negli ultimi due secoli, che però non possono durare.

Terzo, stiamo assistendo all'ascesa spontanea di una produzione collaborativa: beni, servizi e organizzazioni non sembrano più rispondere ai dettami del mercato e della gerarchia manageriale. Il più grande prodotto d'informazione del pianeta - Wikipedia - è realizzato gratuitamente da 27000 volontari e ha cancellato il settore delle enciclopedie, privando l'industria pubblicitaria, secondo le stime, di 3 miliardi di introiti annui.

Quasi inosservate, nelle nicchie e nelle cavità del sistema di mercato, parti della vita economica cominciano a muoversi a un ritmo diverso. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono proliferati quasi senza che gli economisti di professione se ne accorgessero, e spesso come risultato diretto del crollo delle vecchie strutture seguito alla crisi del 2008.

Nuove forme di proprietà, nuove forme di prestito, nuovi contratti legali: negli ultimi dieci anni è emersa un'intera sottocultura imprenditoriale, etichettata dai mezzi di informazione come «economia della condivisione» (sharing economy). Si usano con disinvoltura espressioni alla moda come «beni comuni» (commons) e «produzione tra pari» (peer-production), ma pochi si sono presi il disturbo di chiedersi cosa significhi tutto questo per il capitalismo.

Sono convinto che offra una via d'uscita, ma solo se questi microprogetti verranno coltivati, incoraggiati e protetti attraverso una trasformazione su larga scala del ruolo dei governi, che dovrà essere trainata da un cambiamento del nostro modo di concepire la tecnologia, la proprietà e il lavoro stesso. Nel creare gli elementi del nuovo sistema, dobbiamo essere capaci di dire a noi stessi e agli altri: questo non è più il mio meccanismo di sopravvivenza, il mio rifugio dal mondo neoliberista; questo è un nuovo modo di vivere durante il processo di trasformazione.

Nel vecchio progetto socialista, lo stato assumeva il controllo del mercato, lo gestiva in favore dei poveri invece che dei ricchi e poi spostava settori chiave della produzione dal mercato a un'economia pianificata. L'unica volta in cui è stato sperimentato, in Russia dopo il 1917, non ha funzionato. Avrebbe potuto funzionare? È una bella domanda, ma non più attuale.

Oggi il terreno del capitalismo è cambiato: è globale, frammentato, tarato su scelte di scala ridotta, lavoro temporaneo e competenze multiple. Il consumo è diventato una forma di espressione personale, e milioni di persone hanno interessi in gioco nel sistema finanziario, come mai era accaduto in precedenza.

Il terreno è cambiato e il vecchio sentiero è perduto. Ma se ne è aperto uno nuovo. La produzione collaborativa, usando le tecnologie di rete per produrre beni e servizi che funzionano solo se gratuiti, o condivisi, indica la strada che porta oltre il sistema di mercato. Ci sarà bisogno dello stato per creare la struttura generale, e il settore postcapitalista potrebbe coesistere per decenni con il mercato. Ma il cambiamento è già in corso.

Le reti restituiscono «granularità» al progetto postcapitalista; in altre parole, possono costituire la base di un sistema non di mercato che riproduca se stesso, che non abbia bisogno di essere ricreato da zero ogni mattina dal monitor di un commissario del popolo.

La transizione coinvolgerà lo stato, il mercato e la produzione collaborativa estranea al mercato. Ma perché possa avvenire è necessario riconfigurare l'intero progetto della sinistra, dai gruppi di protesta ai grandi partiti socialdemocratici e liberali. Anzi, quando la gente ne avrà capito l'urgenza, questo progetto postcapitalista non sarà più proprietà esclusiva della sinistra, ma di un movimento molto più ampio, per il quale avremo probabilmente bisogno di nuove etichette.


Chi può realizzare tutto questo? Per la vecchia sinistra, era la classe operaia. Più di duecento anni fa, il giornalista radicale John Thelwall, in Inghilterra, ammoniva gli uomini che avevano costruito le fabbriche: in quel modo avevano creato una nuova e pericolosa forma di democrazia. «Ogni grande fabbrica e manifattura è una sorta di associazione politica, che nessuna legge del Parlamento può mettere a tacere e nessun magistrato può disperdere.»

Oggi l'intera società è una fabbrica, e le reti di comunicazione vitali per il lavoro quotidiano e per il profitto brulicano di sapere condiviso e di malcontento. Oggi è la rete, come la fabbrica duecento anni fa, che «non può essere messa a tacere e dispersa».

Sì, nei momenti di crisi possono anche bloccare l'accesso a Facebook, a Twitter, perfino all'intera rete telematica e cellulare, paralizzando l'economia. E possono immagazzinare e monitorare ogni kilobyte di informazione che produciamo. Ma non possono tornare a imporre la società gerarchica, propagandistica e ignorante di cinquant'anni fa, se non - come in Cina, in Corea del Nord o in Iran - scegliendo di tenersi fuori da aspetti fondamentali della vita moderna. Sarebbe come, per citare il sociologo Manuel Castells , cercare di de-elettrificare un paese.

Creando milioni di individui interconnessi, finanziariamente sfruttati ma con l'intera intelligenza umana a portata di pollice, l'infocapitalismo ha creato un nuovo agente di cambiamento storico: l'essere umano istruito e connesso.


La conseguenza di tutto ciò è che assistiamo, dal 2008 in poi, all'inizio di un nuovo tipo di rivolte. Sono scesi in piazza movimenti di opposizione decisi a emanciparsi dalle strutture e dagli abusi di potere che le gerarchie si portano dietro e a immunizzarsi dagli errori della sinistra del Novecento.

I valori, le voci e i principi morali della generazione interconnessa sono stati talmente evidenti in queste rivolte, dagli indignados spagnoli alla Primavera araba, che all'inizio i media erano convinti che fossero provocate da Facebook e da Twitter. Poi, nel 2013-2014, sono scoppiate rivolte in alcune delle economie in via di sviluppo più rappresentative: la Turchia, il Brasile, l'India, l'Ucraina e Hong Kong. Milioni di persone sono scese in strada, ancora una volta con la generazione interconnessa alla guida della contestazione: ora però la loro protesta era rivolta verso il cuore del malfunzionamento del capitalismo moderno.

A Istanbul, sulle barricate intorno al parco Gezi, nel giugno del 2013, ho incontrato medici, sviluppatori di software, spedizionieri e commercialisti: professionisti per i quali l'8 per cento annuo di crescita economica della Turchia non bastava a compensare il fatto che gli islamisti al potere negassero loro uno stile di vita moderno.

In Brasile, proprio mentre gli economisti celebravano la creazione di una nuova classe media, si è scoperto che in realtà si trattava di lavoratori sottopagati. Erano sfuggiti a una vita nelle favelas per un mondo di salari regolari e conti in banca solo per trovarsi defraudati dei comfort più essenziali, alla mercé di una polizia brutale e di un governo corrotto. Sono scesi in piazza a milioni.

In India, le proteste scatenate dallo stupro di gruppo e dall'omicidio di una studentessa, nel 2012, sono state il segnale che anche lì la generazione scolarizzata e interconnessa non tollererà paternalismo e arretratezza ancora a lungo.

La maggior parte di queste rivolte è sfociata nel nulla. La Primavera araba è stata repressa, come in Egitto e in Bahrein, o travolta dall'islamismo, come in Libia e in Siria. In Europa, la repressione poliziesca e il fronte compatto di tutti i partiti in favore dell'austerità hanno ridotto al silenzio il malcontento degli indignados. Le rivolte, però, hanno dimostrato che la rivoluzione, in una società altamente complessa e basata sull'informazione, avrà caratteristiche molto diverse dalle rivoluzioni del XX secolo. Senza una classe operaia forte e organizzata in grado di portare i problemi sociali al centro della scena, le rivolte finiscono spesso per impantanarsi. Ma l'ordine non viene mai ripristinato fino in fondo.

Invece di passare in un colpo solo dal pensiero all'azione, come facevano i radicali del XIX e XX secolo, la repressione costringe i giovani radicalizzati a oscillare fra l'una e l'altra cosa: le persone si possono incarcerare, torturare e perseguitare, ma non si può impedire loro la resistenza mentale.

In passato, un radicalismo della mente sarebbe stato privo di senso, senza potere. Quante generazioni di ribelli hanno sprecato le loro vite in soffitta a scrivere poesie rabbiose, maledicendo l'ingiustizia del mondo e la loro stessa paralisi? In un'economia dell'informazione, però, la relazione tra pensiero e azione cambia.

Nell'ingegneria hi-tech, prima ancora che un singolo pezzo di metallo venga costruito, gli oggetti sono progettati virtualmente, testati virtualmente e perfino «fabbricati» virtualmente sui computer: l'intero processo è modellizzato, dall'inizio alla fine. Gli errori vengono scoperti e corretti nella fase di progettazione, cosa impossibile prima dell'avvento delle simulazioni in 3D.

Per analogia, succede lo stesso con la progettazione di una società postcapitalista: nella società dell'informazione nessun pensiero, nessun dibattito, nessun sogno va sprecato, che sia concepito in una tenda da campeggio, nella cella di una prigione o nella sessione imagineering di una startup.

Nella transizione verso un'economia postcapitalista, il lavoro svolto nella fase di progettazione può essere utile per ridurre gli errori nella fase di realizzazione. E la progettazione del mondo postcapitalista, come per il software, può essere modulare. Persone diverse possono lavorarci in posti diversi, a diverse velocità e in maniera relativamente autonoma l'una dall'altra. Non è più di un piano che abbiamo bisogno, ma di un progetto modulare.

Tuttavia, ne abbiamo bisogno urgentemente.

Il mio scopo, in questo libro, non è fornire una strategia economica o una guida all'organizzazione. È tracciare una mappa delle nuove contraddizioni del capitalismo, per consentire a singoli individui, movimenti e partiti di ricavare coordinate più precise per il viaggio che stanno cercando di intraprendere.

La principale contraddizione, oggi, è quella tra la possibilità di avere beni e informazioni gratuiti in abbondanza e l'esistenza di un sistema di monopoli, banche e governi che cerca di mantenere privata, scarsa e commercializzabile ogni cosa. Alla fine è tutta una questione di lotta tra rete e gerarchia, tra vecchie forme di società modellate intorno al capitalismo e forme nuove che prefigurano il mondo che verrà.


Di fronte a questo cambiamento, le classi dirigenti del capitalismo moderno hanno molto da perdere. Mentre scrivevo questo libro, il mio lavoro quotidiano di giornalista mi ha portato nel cuore di tre conflitti emblematici, che dimostrano come l'élite sia pronta a reagire con ogni mezzo.

A Gaza, nell'agosto 2014, ho trascorso dieci giorni in una comunità sistematicamente devastata dai bombardamenti con droni, da salve di artiglieria e dal fuoco dei cecchini. 1500 civili sono stati uccisi, un terzo dei quali bambini. Nel febbraio 2015, ho visto il Congresso degli Stati Uniti dedicare venticinque standing ovation all'uomo che aveva ordinato quegli attacchi.

In Scozia, nel settembre 2014, mi sono trovato nel pieno di un movimento radicale di massa, fulmineo e totalmente imprevisto, in favore dell'indipendenza dalla Gran Bretagna. Di fronte all'opportunità di tagliare i ponti con uno stato neoliberista e ricominciare da zero, milioni di giovani hanno detto «sì». Sono stati sconfitti - ma di misura - dopo che gli amministratori delegati delle grandi imprese hanno minacciato di andarsene dalla Scozia e dopo che la Banca d'Inghilterra, per non correre rischi, ha minacciato di boicottare la volontà di continuare a usare la sterlina dell'aspirante stato indipendente.

Poi nel 2015, in Grecia, ho osservato l'euforia trasformarsi in angoscia quando una popolazione che per la prima volta in settant'anni aveva votato a sinistra ha visto la Banca centrale europea farsi beffe della sua volontà democratica.

In tutti questi casi, la lotta per la giustizia è andata a sbattere contro il potere reale che governa il mondo.

Nel 2013, analizzando il lento avanzamento delle politiche di austerità nell'Europa meridionale, gli economisti di JP Morgan lo hanno detto apertamente: perché il neoliberismo possa sopravvivere, la democrazia deve dissolversi. In Grecia, Portogallo e Spagna, ammonivano, c'erano «problemi pregressi di natura politica»: «Le costituzioni e l'assetto politico dei paesi della periferia sud dell'Eurozona, introdotti in seguito alla caduta di regimi fascisti, presentano una serie di aspetti che appaiono inadeguati a un'ulteriore integrazione nella regione». In altre parole, popoli che negli anni settanta rivendicarono un sistema di welfare decoroso in cambio di una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia devono ora rinunciarvi per consentire a banche come JP Morgan di sopravvivere.

Oggi non c'è alcuna Convenzione di Ginevra a regolare la lotta fra le élite e i governati: Robocop è diventato la prima linea di difesa contro le proteste pacifiche. Taser, laser sonori e lacrimogeni, combinati con sistemi di sorveglianza intrusivi, infiltrazioni e disinformazione sono diventati d'uso corrente nel manuale dell'agente di polizia. E le banche centrali, del cui funzionamento la maggior parte delle persone non sa nulla, sono pronte a sabotare la democrazia scatenando crisi di panico bancario ogni volta che movimenti antiliberisti minacciano di prevalere, come hanno fatto con Cipro nel 2013, poi con la Scozia e ora con la Grecia.

Le élite e i loro sostenitori sono schierati in difesa degli stessi principi chiave: alta finanza, salari bassi, segretezza, militarismo, proprietà intellettuale e un sistema energetico basato sugli idrocarburi. La cattiva notizia è che controllano quasi tutti i governi del mondo. La buona notizia è che nella maggior parte dei paesi godono di scarsissimo consenso e popolarità fra la gente comune.

Ma in questo divario tra popolarità e potere si annida un pericolo. Come ho scoperto sulle rive del Dnestr, una dittatura che offre gas a buon mercato e un lavoro nell'esercito per tuo figlio può apparire migliore di una democrazia che ti lascia al gelo e ti fa morire di fame.


In una situazione del genere, la conoscenza della storia è un'arma più potente di quanto si pensi.

Il neoliberismo, con la sua fede nella permanenza e irrevocabilità del libero mercato, ha cercato di riscrivere tutta la storia precedente dell'umanità come «un elenco delle cose andate storte prima di noi». Ma se ci si mette a ragionare sulla storia del capitalismo, non si può fare a meno di chiedersi quali eventi, in mezzo al caos, rientrino in uno schema ricorrente e quali invece siano segnali di un cambiamento irreversibile.

Ecco perché, anche se l'obiettivo di questo libro è disegnare un quadro d'insieme per il futuro, in alcuni capitoli si parlerà del passato. La Parte prima tratterà della crisi e di come ci siamo arrivati. La Parte seconda delineerà una teoria nuova ed esauriente del postcapitalismo. La Parte terza esaminerà quali caratteristiche potrebbe avere la transizione al postcapitalismo.

Tutto questo è utopico? Le comunità socialiste utopiche di metà Ottocento fallirono perché l'economia, la tecnologia e i livelli di capitale umano non erano sufficientemente sviluppati. Con le tecnologie informatiche, molti aspetti del progetto del socialismo utopico sono diventati possibili: dalle cooperative alle comuni, alle ondate di comportamento emancipato che ridefiniscono la libertà umana.

No, ora è l'élite - isolata nel suo mondo a parte - a sembrare utopica quanto lo erano le sette millenaristiche del XIX secolo. La democrazia dei reparti antisommossa, dei politici corrotti, dei giornali controllati dai magnati e dello stato di sorveglianza appare fragile e fasulla quanto appariva la Germania dell'Est trent'anni fa.

Tutte le letture della storia umana devono contemplare la possibilità di un collasso. La cultura popolare è ossessionata da questo argomento: ci perseguita nei film di zombie o catastrofici, nello squallore postapocalittico di The Road o Elysium. Ma perché, come esseri intelligenti, non dovremmo formarci un'immagine della vita ideale, della società perfetta?

Milioni di persone cominciano a rendersi conto che è stato venduto loro un sogno che non saranno mai in grado di vivere. Dobbiamo sostituirlo con qualcosa in più di un cumulo di sogni differenti. Dobbiamo avere un progetto coerente fondato sulla ragione, su dati concreti e programmi sperimentabili, un progetto che non sia in contraddizione con la storia economica e che sia sostenibile per il nostro pianeta.

E lo dobbiamo portare avanti.

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2. Onde lunghe, memorie corte


Le onde sono bellissime. Il suono dell'oceano che sbatte contro la sabbia è la prova che esiste un ordine, in natura.

E un'onda diventa ancora più bella se la si guarda con l'occhio del fisico. È materia che mostra la tendenza a invertirsi: l'energia che fa gonfiare l'onda è la stessa energia che la fa ricadere.

Se consideriamo le loro proprietà matematiche, le onde diventano ancora più affascinanti. Millecinquecento anni fa, un matematico indiano scoprì che, tracciando su un grafico tutte le proporzioni possibili fra due lati di un triangolo, si produce uno schema simile a quello di un'onda. Gli eruditi medievali lo chiamarono «seno». Oggi definiamo le onde uniformi e ripetitive che si trovano in natura onde sinusoidali. La corrente elettrica si muove nella forma di un'onda sinusoidale; lo stesso vale per il suono; lo stesso per la luce.

Poi ci sono le onde all'interno delle onde. Un surfista vede arrivare le onde in serie, sempre più grandi, e quella grossa, quella da cavalcare, è la sesta o la settima. In realtà è semplicemente l'effetto di un'onda più lunga e più piatta che si muove «attraverso» quelle corte.

In acustica, questo rapporto fra onde lunghe e corte è una fonte d'ordine. Per i musicisti, è l'armonia creata dalle onde corte all'interno di quelle lunghe che conferisce a ogni strumento il suo suono particolare; la musica è armonica quando le onde lunghe e le onde corte sono in rigorosa proporzione matematica fra loro.

Le onde sono onnipresenti in natura. A livello subatomico, l'unica cosa che ci consente di sapere che esistono le particelle è il loro movimento ondulatorio. Ma le onde esistono anche all'interno di sistemi grandi, complessi e non naturali, come i mercati. Per quelli che analizzano i mercati azionari, la forma d'onda è diventata una specie di icona religiosa: usano strumenti che filtrano il «rumore» delle oscillazioni giornaliere per produrre una curva di previsione. Peak e trough, i termini usati per indicare l'altezza massima e minima di un'onda (in italiano, cresta e ventre), sono entrati nel gergo economico inglese di tutti i giorni.

Ma in economia la forma d'onda può essere pericolosa. Può lasciar intendere ordine e regolarità dove di ordine e regolarità non c'è traccia. Un'onda sonora si limita a decadere fino al silenzio, ma le onde generate da dati casuali, dopo un certo periodo di tempo, diventano distorte e disturbate. E l'economia è un mondo di eventi casuali complessi, non di onde semplici.

Gli esperti che durante l'ultimo boom disegnavano grafici a forma di onda sono gli stessi che non sono stati in grado di prevedere la recessione. Per riprendere l'analogia con il surf, guardavano le onde invece delle successioni di onde, le successioni di onde invece delle maree, le maree invece dello tsunami che stava per colpirli. Noi pensiamo allo tsunami come a una grande onda, un muro d'acqua. In realtà lo tsunami è un'onda lunga, che si gonfia e continua ad avanzare.

Per l'uomo che scoprì la loro esistenza in economia, le onde lunghe si rivelarono fatali.




Morte per fucilazione


Il prigioniero si trascina a stento, non riesce a camminare. È mezzo cieco, soffre di una malattia cardiaca cronica e di una depressione clinica. «Non riesco proprio a impormi di pensare in modo sistematico» scrive. «Ragionare in modo scientifico senza lavorare attivamente su materiali e libri, e con le emicranie, è difficilissimo.»

Nikolaj Kondrat'ev aveva trascorso otto anni a Suzdal', a est di Mosca, come prigioniero politico, leggendo solo i libri e i giornali consentiti dalla polizia segreta staliniana. D'inverno tremava dal freddo e d'estate soffocava per il caldo, ma le sue traversie stavano per finire. Il 17 settembre 1938, il giorno in cui scadeva la sua prima condanna, Kondrat'ev fu processato una seconda volta, condannato per attività antisovietiche e giustiziato nella sua cella da un plotone d'esecuzione.

Periva così uno dei giganti della scienza economica del Novecento. Ai suoi tempi Kondrat'ev veniva accostato a pensatori di fama mondiale come Keynes, Schumpeter, Hayek e Gini. I suoi «crimini» erano stati fabbricati ad arte: il «Partito laburista contadino» clandestino, di cui era accusato di essere il leader, non esisteva.

Il vero crimine di Kondrat'ev, agli occhi dei suoi persecutori, era pensare l'impensabile riguardo al capitalismo: egli era convinto che, invece di crollare sotto il peso delle crisi, il capitalismo fosse generalmente capace di adattarsi e mutare. In due innovativi lavori di estrapolazione dati dimostrò che, oltre ai cicli economici a breve termine, esisteva l'evidenza di uno schema ricorrente più lungo, a cadenza cinquantennale, i cui punti di svolta coincidevano con importanti cambiamenti strutturali all'interno del capitalismo e con conflitti su larga scala. Quei momenti di estrema crisi e sopravvivenza, dunque, non erano la prova di un caos, bensì di un ordine. Kondrat'ev fu il primo a dimostrare l'esistenza di onde lunghe nella storia economica.

Anche se in seguito è diventata famosa come «teoria delle onde», l'intuizione più preziosa di Kondrat'ev è consistita nel capire le ragioni dei cambiamenti repentini a cui è sottoposta l'economia globale, il perché delle crisi strutturali del capitalismo e la sua capacità di reagire cambiando forma e mutando. Ha spiegato perché ecosistemi imprenditoriali che vanno avanti da decenni possono implodere all'improvviso. Usava il termine «ciclo lungo», invece di «onda», perché i cicli, nel pensiero scientifico, creano un sottolinguaggio estremamente utile: si parla di fasi, di stati e del loro improvviso avvicendamento.

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Se ci atteniamo a Kondrat'ev, ed estendiamo la sua sequenza di cicli lunghi fino ai giorni nostri, attingendo dagli aspetti «fisici» di Marchetti e dai dati odierni, molto più accurati di quelli disponibili negli anni venti, possiamo tracciare il seguente schema.

Il capitalismo industriale è passato attraverso quattro cicli lunghi, che hanno condotto a un quinto ciclo che stenta a decollare:


1. 1790-1848: il primo ciclo è ravvisabile nei dati relativi a Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Il sistema delle fabbriche, le macchine a vapore e i canali sono la base del nuovo paradigma. Il punto di svolta è la depressione nei tardi anni venti dell'Ottocento. La crisi rivoluzionaria del 1848-1851 in Europa, con il contraltare, negli Stati Uniti, della guerra con il Messico e del Compromesso del Missouri, rappresenta una cesura netta.

2. 1848-1895 circa: il secondo ciclo è evidente in tutti i paesi sviluppati, e nella fase terminale del ciclo anche nell'economia globale. Le ferrovie, il telegrafo, i grandi piroscafi transatlantici, la stabilità valutaria, la produzione automatizzata di macchinari sono gli elementi chiave del paradigma. Il picco dell'onda viene raggiunto a metà degli anni settanta, con la crisi finanziaria negli Stati Uniti e in Europa che porta alla Lunga depressione (1873-1896). Negli anni ottanta e novanta, in risposta alla crisi economica e sociale nascono nuove tecnologie che confluiscono nell'avvio del terzo ciclo.

3. 1895 circa-1945: nel terzo ciclo le tecnologie cruciali sono l'industria pesante, l'ingegneria elettrica, il telefono, l'organizzazione scientifica del lavoro e la produzione in serie. Il momento di rottura arriva alla fine della Prima guerra mondiale: la Depressione degli anni trenta, seguita dalla distruzione di capitali durante la Seconda guerra mondiale, rappresenta il momento finale della fase discendente.

4. 1945-2008: nel quarto ciclo lungo, transistor, materiali sintetici, beni di consumo di massa, automazione delle fabbriche, energia nucleare e calcolo automatico formano il paradigma, producendo il boom economico più lungo della storia. Il punto di svolta non potrebbe essere più evidente: la crisi petrolifera dell'ottobre 1973, che inaugura un lungo periodo di instabilità, ma senza depressioni di rilievo.

5. Alla fine degli anni novanta, sovrapponendosi alla fine dell'onda precedente, compaiono gli elementi di fondo del quinto ciclo lungo, trainato da tecnologie di rete, comunicazioni mobili, un mercato realmente globale e beni d'informazione. Ma l'espansione si è bloccata. E la ragione è legata in parte al neoliberismo, in parte alla tecnologia stessa.


È solo un abbozzo, un elenco di punti di partenza e punti di arrivo, concentrazioni di innovazioni tecnologiche e crisi significative. Per andare oltre, dobbiamo prima arrivare a una comprensione delle dinamiche di accumulazione del capitale migliore di quella di Kondrat'ev, e in modi quasi completamente trascurati dagli studiosi che mettono la tecnologia al centro di tutto. Dobbiamo capire non solo che il capitalismo cambia forma, ma anche che cosa, all'interno dell'economia, stimoli queste mutazioni, e che cosa possa limitarle.

Kondrat'ev ci ha fornito un modo per capire quello che gli esperti di teoria dei sistemi chiamano livello «meso» della disciplina economica: qualcosa a metà strada fra un modello astratto del sistema e la sua storia concreta. Ci ha lasciato in eredità una teoria per comprendere le sue mutazioni migliore di quelle proposte dai marxisti del Novecento, tutte focalizzate su fattori esterni e scenari di crollo del capitalismo.

Non abbiamo ancora finito con Kondrat'ev. Ma per portare a compimento quello che cercò di fare, dobbiamo immergerci in un problema che ossessiona gli studiosi di economia da oltre un secolo: che cosa provoca le crisi.

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3. Aveva ragione Marx?


Nel 2008, a Karl Marx successe una cosa strana: «He's Back!» urlava un titolo del Times. Gli editori tedeschi del Capitale comunicarono che le vendite del libro erano salite del 300 per cento dopo che un ministro aveva dichiarato le sue idee «non così sbagliate». Contemporaneamente, in Giappone spopolava una versione a fumetti del Capitale, e in Francia Nicolas Sarkozy veniva sorpreso da un fotografo a sfogliare l'edizione francese del capolavoro di Marx.

Il catalizzatore di questa Marx-mania è stato ovviamente la crisi finanziaria. Il capitalismo stava crollando. Marx lo aveva previsto e bisognava riconoscergliene il merito, o rivalutarlo, o almeno concedergli un po' di Schadenfreude postuma.

Ma c'è un problema: il marxismo è al tempo stesso una teoria della storia e una teoria delle crisi. Come teoria della storia, è superba: armati di una visione lucida delle classi, del potere e della tecnologia, possiamo prevedere le azioni dei potenti ancora prima che sappiano quello che stanno per fare. Ma come teoria delle crisi, il marxismo è imperfetto: se vogliamo utilizzare Marx nella situazione attuale, dobbiamo essere consapevoli dei suoi limiti (e del pasticcio teoretico in cui si sono andati a infilare i suoi seguaci quando hanno cercato di superarli).

Non sono interrogativi superati. Più il faccione barbuto di Marx spunta sulle pagine inquiete dei maggiori quotidiani, più si aggrava la catastrofe sociale inflitta ai giovani di domani, più rischi ci sono che questi tentino di ripetere gli esperimenti falliti dei seguaci di Marx: bolscevismo e abolizione del mercato a tappe forzate. La premessa di questo libro - che esiste una via diversa per andare oltre il capitalismo, e mezzi diversi con cui percorrerla - ci impone di affrontare la teoria marxista delle crisi.

Qual è il problema, allora?

Marx aveva capito che il capitalismo è un sistema instabile, fragile e complesso. Era consapevole che le differenze di classe garantiscono un potere disuguale ai diversi attori del mercato. Ma il marxismo ha sottovalutato la capacità di adattamento del capitalismo.

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Rosa Luxemburg, che aveva preso il posto di Hilferding alla scuola di formazione socialista a Berlino, cominciò a lavorare a un saggio corposo, destinato a confutare la tesi della stabilità propugnata dall'economista austriaco. Luxemburg aveva promosso scioperi di massa e attaccato il militarismo; aveva perfino attaccato Lenin per la sua concezione elitaria dell'attività rivoluzionaria. Ora attaccava Hilderfing.

Il suo libro del 1913, L'accumulazione del capitale , aveva un duplice obiettivo: spiegare le motivazioni economiche della rivalità coloniale fra grandi potenze e dimostrare che la sorte del capitalismo era segnata. Contemporaneamente, sviluppò la prima teoria moderna del sottoconsumo.

Rielaborando i calcoli di Marx, Rosa Luxemburg dimostrò, quantomeno a se stessa, che il capitalismo è in un permanente stato di sovrapproduzione, sempre assillato dal problema del troppo limitato potere di spesa dei lavoratori. Per questo era costretto a fondare colonie: non solo come fonti di materie prime, ma anche come mercati. I costi militari sostenuti per conquistare e difendere le colonie presentavano l'ulteriore vantaggio di assorbire i capitali in eccesso. A suo avviso, era più o meno come lo spreco o i consumi di lusso: servivano a far «scolare» il capitale in eccesso.

Dal momento che l'espansione coloniale era l'unica valvola di sfogo in un sistema incline alla crisi, Rosa Luxemburg prevedeva che, una volta colonizzato l'intero pianeta e introdotto il capitalismo in tutto il mondo coloniale, il sistema sarebbe inevitabilmente crollato. Il capitalismo, concludeva, è «la prima forma economica che non può esistere da sola, senza altre forme economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a divenire forma economica mondiale, s'infrange contro l'incapacità intrinseca di essere una forma mondiale di produzione».

Il suo libro fu subito oggetto di feroci attacchi da parte di Lenin e della maggior parte dei professori socialisti con cui aveva lavorato. Le critiche puntualizzavano, giustamente, che qualsiasi sfasatura fra produzione e consumi era temporanea, e risolvibile spostando gli investimenti dall'industria pesante ai beni di consumo. In ogni caso, l'apertura di nuovi mercati nelle colonie non era l'unica valvola di sfogo per le crisi.

Nonostante le critiche, il saggio di Rosa Luxemburg arrivò ad acquisire un'importanza enorme. Introdusse il concetto di «crisi finale» fra gli econornisti di sinistra. Espresse l'intuizione, comune a molti militanti, che il monopolio, la finanza e il colonialismo, nonostante la pace e la prosperità del primo decennio del secolo, fossero destinati a sfociare in una catastrofe devastante. Negli anni venti, il sottoconsumo era diventato la teoria delle crisi per eccellenza, per la sinistra, e quando le acque si furono calmate le offrì un terreno comune con le teorie economiche keynesiane per i successivi cinquant'anni.

Rosa Luxemburg è importante ancora oggi perché ha individuato un elemento fondamentale per il dibattito odierno sul postcapitalismo: l'importanza di un «mondo esterno» per i sistemi in grado di adattarsi con successo.

Se passiamo sopra alla sua ossessione per le colonie e la spesa militare e ci limitiamo a dire che «il capitalismo è un sistema aperto», arriviamo più vicini a riconoscere la sua natura adattativa di quanti, seguendo le orme di Marx, si sforzavano di rappresentarlo come un sistema chiuso.

Ciò che indisponeva i professori socialisti era proprio questa intuizione, cioè il fatto che il capitalismo, per tutta la sua storia e come parte della sua essenza, deve interagire con un mondo esterno non capitalista. Una volta trasformato il mondo esterno più prossimo (annientando le società indigene, scacciando i contadini dalle campagne), deve trovare nuovi spazi per ripetere il processo.

Rosa Luxemburg sbagliava, però, nel limitare questo processo ai possedimenti coloniali. Era possibile creare nuovi mercati anche in patria, non solo incrementando il potere di spesa dei lavoratori, ma anche trasformando attività non di mercato in attività di mercato. Ed è curioso che non se ne fosse accorta, perché una trasformazione del genere stava avvenendo proprio in quegli anni.

Mentre scriveva L'accumulazione del capitale, la fabbrica della Ford di Highland Park, a Detroit, sfornava le prime automobili prodotte in serie. La Victor Gramophone Company vendeva ogni anno, negli Stati Uniti, 250000 grammofoni. Quando Rosa Luxemburg cominciò a scrivere il libro, nel 1911, a Berlino esisteva una sola sala cinematografica: nel 1915 ce n'erano 168. La spettacolare curva ascendente della terza onda lunga (1896-1945) si stava dispiegando soprattutto grazie all'espansione di un nuovo mercato dei consumi rivolto ai ceti medio-bassi e ai lavoratori specializzati. Lo svago, attività non di mercato per eccellenza nel XIX secolo, si stava commercializzando.

Rosa Luxemburg non aveva tenuto conto che i nuovi mercati si formano in modo complesso, interattivo, e possono essere creati non solo nelle colonie, ma anche all'interno di economie nazionali, settori locali, abitazioni private, e perfino nel cervello degli individui.

La vera domanda che nasce dall'intuizione di Rosa Luxemburg non è «che cosa succede quando il mondo intero è industrializzato?», ma che cosa succede se il capitalismo esaurisce i modi per interagire con il mondo esterno? E oltre a questo, che cosa succede se non si riescono più a creare nuovi mercati all'interno dell'economia esistente? Come vedremo, è esattamente il problema con cui il capitalismo odierno si trova a fare i conti, per effetto delle tecnologie dell'informazione.




Il grande disorientamento


Nel gennaio del 1919, Rosa Luxemburg, dopo un'insurrezione fallita a Berlino, fu assassinata da una milizia di destra, e il suo corpo gettato in un canale. Rudolf Hilferding morì - per suicidio o per le torture subite - in una cella della Gestapo a Parigi, nel 1941. In mezzo a questi due eventi, la teoria economica anticapitalista perse completamente l'orientamento.

Rosa Luxemburg era sempre stata ostile al bolscevismo e aveva previsto che se il partito di Lenin avesse preso il potere in Russia avrebbe finito per governare in modo autocratico. Ma a metà degli anni venti, per supremo paradosso, la sua teoria era diventata dottrina di stato nell'Unione Sovietica. Per capire il perché, e perché la sinistra non si è ancora scrollata di dosso le conseguenze di quella scelta, dobbiamo capire ciò che viveva la gente all'inizio degli anni venti: il caos.

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In che modo l'onda si è spezzata?


Quando, negli anni sessanta, la curva ascendente della quarta onda perde slancio, lo fa per una ragione che non avrebbe sorpreso Kondrat'ev: l'esaurimento di quel sistema che favoriva una produttività elevata accompagnata dalla crescita dei salari. Questo condusse prima alle famose crisi a singhiozzo degli anni sessanta, quando il sistema globale costrinse i governi a mettere un freno alla crescita, e poi a una rottura dell'ordine economico mondiale, a un'impennata dell'inflazione e a una guerra in Vietnam così tracotante che la psiche americana non si è ancora ripresa dallo shock della sconfitta.

È qui la differenza fondamentale: in tutti e tre i cicli precedenti, i lavoratori avevano opposto resistenza alla via d'uscita dalla crisi più facile e crudele: riduzioni dei salari, dequalificazione e tagli alle prestazioni sociali. Nella quarta onda, per ragioni che analizzeremo nel Capitolo 7, questa resistenza è stata sconfitta. E ciò ha permesso di spostare gli equilibri dell'intera economia globale in favore del capitale.

Per una ventina d'anni, questo riequilibrio ha funzionato, e ha funzionato talmente bene da convincere molti individui razionali che fosse sorta una nuova era. Ciò che secondo la teoria di Kondrat'ev avrebbe dovuto portare a un declino e poi a una depressione ha portato invece a due decenni euforici, in cui l'ascesa dei profitti ha convissuto con sconvolgimenti sociali, conflitti militari, il ritorno della miseria più nera e della criminalità in alcune parti dell'Occidente, e ricchezze astronomiche per l'Uno per cento.

Ma questo non è un ordine sociale, è un disordine: è ciò che si ottiene se si unisce il movimento dalla produzione alla finanza (che Kondrat'ev si sarebbe aspettato) a una forza lavoro sconfitta e atomizzata, e a un'élite di super ricchi che campa sui profitti finanziari.

Abbiamo elencato i fattori che hanno reso possibile il neoliberismo: la moneta fiduciaria, la finanziarizzazione, il raddoppio della forza lavoro, gli squilibri globali, incluso l'effetto deflattivo della manodopera a buon mercato e del minor costo di tutto il resto per effetto delle tecnologie informatiche. Ognuno di questi fenomeni è sembrato un coniglio uscito dal cilindro, una magia che ha permesso di mettere in pausa il consueto karma dell'economia politica. Ma, come abbiamo visto - e come la maggior parte di noi, in qualche modo, ha sperimentato -, c'è stato un prezzo enorme da pagare.

Che cosa emerge da questo sogno in frantumi? Il nuovo sistema tecnico ed economico dovrà essere costruito con i materiali che abbiamo a disposizione. Sappiamo che coinvolgerà reti, lavori della conoscenza, applicazioni della scienza e forti investimenti nelle tecnologie verdi.

La domanda è: potrà essere capitalismo?

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L'Italia: un nuovo tipo di controllo


Nel 1967, il miracolo economico italiano aveva attirato verso le città industriali del Nord 17 milioni di lavoratori del Sud, povero e agrario. La carenza di case popolari costringeva molti di questi nuovi lavoratori immigrati a dormire in sei o in otto per stanza, in caseggiati degradati, con i servizi igienici messi a dura prova. Ma le fabbriche avevano un design moderno e tecnologie all'avanguardia, e lavorarci era galvanizzante.

I salari reali erano cresciuti del 15 per cento, negli anni cinquanta. I marchi industriali più importanti investivano massicciamente in mense, circoli sportivi e ricreativi, fondi assistenziali e tute da lavoro firmate da stilisti. A livello settoriale, i sindacati e i rappresentanti datoriali concordavano salari, livelli di produzione e condizioni di lavoro. Ma al livello della singola fabbrica, «di norma il management ha un potere assoluto», riferiva uno studio.

La combinazione tra aumento dei salari al lavoro e condizioni indegne al di fuori fu il primo impatto del boom. Il secondo fu l'esplosione del numero di studenti universitari: nel 1968 ce n'erano 450 000, il doppio rispetto a dieci anni prima. La maggior parte di loro era di famiglia operaia e non aveva soldi. Trovarono le università piene di manuali inutili e regole arcaiche. Lo storico Paul Ginsborg ha scritto: «La decisione di liberalizzare l'accesso a un sistema universitario così pesantemente inadeguato significò semplicemente immettere in esso una bomba ad orologeria». Un «detonatore» sarebbe un'analogia più efficace. Alla fine del 1967, prese il via un'ondata di occupazioni nelle università, che nel corso dell'anno seguente divampò in scontri di piazza. Accanto a queste mobilitazioni studentesche, esplose una serie di scioperi destinati a culminare nell'«autunno caldo» del 1969.

Allo stabilimento Pirelli della Bicocca, a Milano, gli operai in sciopero formarono un «comitato unitario di base» del tutto indipendente dal sindacato. Al diffondersi dell'idea del comitato di base, si affermarono nuovi tipi di azioni di protesta: sequenze di scioperi di un'ora in diversi reparti, scioperi con occupazione della fabbrica, rallentamenti del lavoro studiati apposta per ridurre la produttività, manifestazioni improvvisate marciando da un reparto all'altro in una lunga fila detta «serpente». Un operaio della Fiat ne descrive una: «Abbiamo cominciato che eravamo solo in sette, e quando siamo arrivati agli uffici della direzione, con tutti gli impiegati affacciati a guardare, eravamo circa 7000! [...] La prossima volta cominceremo in 7000 e finiremo in 70000, e sarà la fine per la Fiat».

Il Partito comunista italiano si affrettò a creare dei consigli di fabbrica, ma in molti impianti gli operai li rigettarono, sommergendo i comunisti con lo slogan «siamo tutti delegati».

In un bar fuori dallo stabilimento Fiat di Mirafiori, a Torino, gli studenti inaugurarono un'«assemblea operai-studenti». Il 3 luglio 1969, marciarono fuori dalla fabbrica e si scontrarono con la polizia per chiedere aumenti salariali, scandendo uno slogan che riassumeva il nuovo atteggiamento: «Cosa vogliamo? Vogliamo tutto!».

Il gruppo di estrema sinistra Lotta continua riassumeva così ciò che stavano facendo gli scioperanti secondo gli scioperanti stessi: «Stanno cominciando lentamente a liberarsi. Stanno distruggendo l'autorità costituita nella fabbrica».

Se questi sviluppi si fossero limitati a qualche periferia particolarmente politicizzata in un paese perennemente in preda al caos, varrebbero come una curiosità e niente più. Ma il caso italiano era sintomatico di un cambiamento che stava interessando l'intero mondo industrializzato: il 1969 fu solo l'inizio di un periodo di lotte economiche contagiose, che sfociavano regolarmente in conflitto politico e che avrebbero finito per innescare un ripensamento totale del modello economico occidentale.

È importante comprendere la sequenza degli eventi, perché nella letteratura popolare il crollo del sistema keynesiano viene spesso concentrato in un unico momento. Nel 1971, la lunga espansione economica del dopoguerra aveva esaurito il carburante. Ma la fine del sistema dei tassi di cambio fissi, paradossalmente, diede a ogni paese la capacità di «risolvere» le pressioni salariali e della produttività, lasciando briglia sciolta all'inflazione. Poi, con l'impennata del prezzo del petrolio nel 1973, che scatenò un'inflazione a doppia cifra, la vecchia relazione fra salari, prezzi e produttività andò semplicemente in frantumi.

In tutti i paesi dell'Ocse, i pagamenti redistributivi - integrazioni al reddito familiare, indennità sociali e così via -, che negli anni del boom costituivano in media il 7,5 per cento del Pil, a metà degli anni settanta avevano toccato quota 13,5 per cento. La spesa pubblica, che negli anni cinquanta si attestava in media al 28 per cento del Pil, ora raggiungeva il 41 per cento. La quota dei profitti industriali sulla ricchezza complessiva era crollata del 24 per cento.

Per contenere il malcontento della classe operaia, i governi alzarono le prestazioni sociali a livelli record, e cooptarono nel governo rappresentanti dei lavoratori. In Italia, tutto questo avvenne nel contesto del «compromesso storico» inaugurato nel 1976, che mise fine al periodo di instabilità vincolando il Partito comunista e i suoi sindacati a un governo conservatore. Lo stesso processo di fondo si può individuare nel «patto della Moncloa» del 1978 in Spagna, nel «contratto sociale» dei governi Wilson-Callaghan (1974-1979) in Gran Bretagna e nei ripetuti tentativi dei sindacati statunitensi di raggiungere un accordo strategico con l'amministrazione Carter.

Alla fine degli anni settanta, tutti i protagonisti del vecchio sistema keynesiano - il lavoratore organizzato, il manager paternalista, il politico pro welfare e il capo della grande azienda pubblica - erano asserragliati in difesa di un sistema economico ormai fallimentare.

Il processo di produzione standardizzata del dopoguerra, con i rigidi controlli tayloristici su cui era fondata, finirono per creare una forza lavoro che sfuggiva al controllo. Per capire la situazione basti pensare che gli scioperi bianchi erano diventati la forma di sabotaggio più efficace. Erano i lavoratori, di fatto, a dirigere il processo di produzione. Qualsiasi proposta per risolvere i problemi macroeconomici era inutile, senza il loro consenso.

Come reazione a questo stato di cose, una nuova genia di politici conservatori stabilì che era tutto il sistema a dover essere smantellato. L'opportunità arrivò con il secondo shock petrolifero, seguito alla rivoluzione iraniana del 1979, che scatenò una nuova, pesante recessione. Questa volta i lavoratori si trovarono di fronte politici e imprenditori decisi a tentare una nuova via: disoccupazione di massa, chiusura di industrie, tagli ai salari e riduzioni della spesa pubblica.

Si trovarono a fare i conti anche con la comparsa di un fenomeno che, dopo anni di radicalismo, li colse alla sprovvista: una parte della forza lavoro era pronta a schierarsi con i politici conservatori. Furono i lavoratori bianchi degli Stati del Sud a portare Reagan al potere, e in Gran Bretagna molti operai specializzati, stanchi del caos, nel 1979 si spostarono a destra, regalando alla Thatcher dieci anni di potere. Il conservatorismo operaio non era mai scomparso: quello che ha sempre voluto è ordine e prosperità, e nel 1979 il modello keynesiano non sembrava più in grado di garantire queste cose.

A metà degli anni ottanta, la classe operaia del mondo industrializzato era passata, nello spazio di quindici anni, dalla passività agli scioperi e alle lotte semirivoluzionarie, e poi a una sconfitta di portata strategica.

Il capitalismo occidentale, che per quasi due secoli era coesistito con il movimento operaio e ne era stato influenzato, non poteva più convivere con una cultura operaia di solidarietà e resistenza, e la distrusse a suon di delocalizzazioni, deindustrializzazione, leggi antisindacali e attraverso una guerra ideologica senza quartiere.

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8. Sulle transizioni


Scoprire che il capitalismo non è sempre esistito può essere uno shock. Gli economisti presentano «il mercato» come la condizione naturale dell'umanità. In televisione i documentari ricreano in modo incredibilmente dettagliato le piramidi egizie o la Pechino imperiale, ma glissano sull'assoluta diversità dei sistemi economici che le hanno costruite. «Erano tali e quali a noi» dicono con sicumera i padri ai figli mentre visitano la mostra su Ercolano al British Museum, finché non si imbattono nella statua di Pan che violenta una capra o nell'affresco che ritrae una coppia impegnata in una cosa a tre con una schiava.

Realizzato che il capitalismo un tempo non esisteva - sia come economia che come sistema di valori -, sorge un pensiero ancora più scioccante: non è detto che duri per sempre. Se è così, dobbiamo sforzarci di capire bene il concetto di transizione, interrogandoci su quali sono gli elementi costitutivi di un sistema economico e in che modo si avvicendano fra loro.

Nei capitoli precedenti ho mostrato come l'ascesa dell'informatica abbia alterato le istituzioni fondamentali del capitalismo: prezzi, proprietà e salari. Ho affermato che il neoliberismo è stato una falsa speranza; che la crisi seguita al 2008 è il frutto di difetti intrinseci al modello economico, che impediscono lo sfruttamento delle nuove tecnologie e il decollo di una quinta onda lunga.

Tutto questo rende possibile il postcapitalismo, ma non abbiamo un modello per la transizione. Stalin ce ne ha lasciato uno che porta dritto al disastro; il movimento Occupy ha tirato fuori buone idee, ma frammentarie; il cosiddetto movimento p2p (peer-to-peer) ha elaborato modelli collaborativi su piccola scala; gli ambientalisti hanno sviluppato percorsi di transizione verso un'economia a emissioni zero, ma senza quasi mai collegarli al destino del capitalismo.

Insomma, quando si tratta di pianificare la transizione da un tipo di economia a un altro, la nostra esperienza si limita esclusivamente a due eventi molto diversi tra loro: l'ascesa del capitalismo e il collasso dell'Unione Sovietica. In questo capitolo mi concentrerò su ciò che possiamo imparare dai due eventi, e nella parte finale del libro cercherò di applicare queste lezioni per delineare un «piano di progetto» per spingere l'economia oltre il capitalismo.

Venticinque anni di neoliberismo hanno fiaccato la nostra capacità di ragionare sui grandi cambiamenti. Ma se siamo abbastanza audaci da immaginare di poter salvare il pianeta, perché non possiamo immaginare di salvare noi stessi da un sistema economico che non funziona? In realtà, la fase dell'immaginazione è fondamentale.

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Ma il passaggio da un sistema economico a un altro richiede tempo. Se la tesi del postcapitalismo è corretta, stiamo per vivere una transizione molto più simile a quella dal feudalesimo al capitalismo che a quella immaginata dai pianificatori sovietici. Sarà una fase lunga e caotica, e il concetto stesso di «sistema economico» dovrà essere ridefinito.

Ecco perché, tutte le volte che mi sforzo di non essere troppo marxista riguardo al futuro, penso a Shakespeare.




Il grande cambiamento: Shakespeare contro Marx


Se potessimo vedere i drammi storici di Shakespeare in sequenza, iniziando dal Re Giovanni e finendo con l' Enrico VIII, la prima impressione sarebbe quella di una serie drammatica di Netflix senza una vera e propria trama: omicidi, guerre e disordini, tutto nell'ambito di una contesa, apparentemente senza senso, fra re e duchi. Ma una volta capito che cos'è un «modo di produzione», tutto comincia ad acquisire un senso: stiamo assistendo al collasso del feudalesimo e alla comparsa del primo capitalismo.

Il modo di produzione è uno dei concetti più brillanti dell'economia marxista. Ha influenzato moltissimi storici e ha informato la nostra visione del passato. La domanda da cui muove è questa: su che cosa si basa il sistema economico dominante?

Il feudalesimo era un sistema fondato sui doveri: i contadini dovevano cedere parte del loro raccolto al proprietario terriero e svolgere il servizio militare per lui; a sua volta, il proprietario terriero doveva pagare le tasse al re e fornire, su sua richiesta, un esercito. Nell'Inghilterra dei drammi storici shakespeariani, però, la principale molla di quel sistema si era bloccata. Al tempo in cui il vero Riccardo III massacrava i suoi rivali, la rete di potere basata sui doveri era stata inquinata dal denaro: le rendite si pagavano in denaro, l'esenzione dal servizio militare si pagava in denaro, le guerre si combattevano con l'aiuto di una rete internazionale di banche che si estendeva da Firenze ad Amsterdam. I re e i duchi di Shakespeare si ammazzavano a vicenda perché il denaro aveva reso precario tutto il sistema di potere basato sui doveri.

Shakespeare riuscì a cogliere l'essenza di tutto ciò ben prima che le parole «feudalesimo» e «capitalismo» fossero inventate. La differenza sostanziale fra i suoi drammi storici e le sue commedie e tragedie è che queste ultime dipingono la società in cui viveva il suo pubblico, ci catapultano in un mondo di banchieri, mercanti, imprese, soldati mercenari e repubbliche. Il tipico scenario di queste opere è una ricca città mercantile, non un castello. Il tipico protagonista è un borghese che si è fatto da solo, grazie al suo coraggio (Otello), alla filosofia umanistica (Prospero) o alla conoscenza della legge (Porzia nel Mercante di Venezia).

Shakespeare non aveva la più pallida idea di dove ci avrebbe condotti tutto ciò. Ma si accorgeva dell'effetto di questo nuovo tipo di economia sul carattere degli uomini: ci rendeva più forti grazie al sapere, ma ci lasciava in preda all'avidità, alle passioni, all'insicurezza e al potere della follia come mai prima di allora. Ci sarebbe voluto un altro secolo e mezzo prima che il capitalismo mercantile, basato su commercio, conquiste e schiavitù, spianasse la strada al capitalismo industriale.

Se interrogate Shakespeare attraverso i suoi testi, e gli chiedete: «Quali sono le differenze tra il passato e la tua epoca?», la risposta implicita sarebbe: «Le idee e i comportamenti». Gli esseri umani si attribuiscono reciprocamente più valore, l'amore è più importante dei doveri familiari e vale la pena di morire per valori come la verità, il rigore scientifico e la giustizia molto più che per la gerarchia e per l'onore.

Shakespeare è un testimone eccellente della fase in cui un modo di produzione comincia a vacillare e un altro inizia a emergere. Ma abbiamo bisogno anche di Marx. In una visione materialistica della storia, la differenza tra il feudalesimo e il primo capitalismo non si limita solo a idee e comportamenti. Le trasformazioni del sistema sociale ed economico sono fondamentali: e alla radice di queste trasformazioni ci sono le nuove tecnologie.

Per Marx, un modo di produzione descrive un insieme di relazioni economiche, leggi e tradizioni sociali che costituiscono la «normalità» di fondo di una società. Nel feudalesimo, i concetti di potere del nobile e dovere pervadevano ogni cosa. Nel capitalismo, le forze omologhe sono mercato, proprietà privata e salario. Per comprendere un modo di produzione, un'altra domanda illuminante è: «Che cosa si riproduce in maniera spontanea?». Nel feudalesimo erano le nozioni di fedeltà e dovere; nel capitalismo, il mercato.

Ed è qui che il concetto di modo di produzione diventa impegnativo: i cambiamenti sono di portata tale che non possiamo mai comparare situazioni analoghe. Dunque, quando pensiamo al sistema economico che rimpiazzerà il capitalismo, non dobbiamo aspettarci che sarà incentrato su qualcosa di puramente economico come il mercato, e nemmeno su qualcosa di chiaramente coercitivo come il potere feudale.

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Riepiloghiamo ciò che sappiamo di come è avvenuta l'ultima transizione ed esplicitiamo i parallelismi.

Il modello di agricoltura feudale entrò in collisione prima con i limiti ambientali, poi con un enorme shock esterno (la Peste nera). Dopodiché, si verificò uno shock demografico: i contadini erano troppo pochi per le terre da coltivare, così i loro salari aumentarono, e diventò impossibile mantenere in vita il vecchio sistema di obbligazioni feudali. La carenza di manodopera rese necessaria anche l'innovazione tecnica. Le nuove tecnologie che sorressero l'ascesa del capitalismo mercantile furono quelle capaci di stimolare il commercio (la stampa e la contabilità), la creazione di ricchezza scambiabile (l'estrazione mineraria, la bussola e le navi veloci) e la produttività (la matematica e il metodo scientifico).

Lungo tutto il processo è presente qualcosa - il denaro e il credito - di apparentemente secondario all'interno del vecchio sistema, ma destinato in realtà a diventare la base del nuovo. Molte leggi e consuetudini si erano formate ignorando il denaro: nell'alto feudalesimo, il credito era considerato un peccato. Così, quando il denaro e il credito ruppero gli argini e generarono un sistema di mercato, sembrò una rivoluzione. Poi, il nuovo sistema acquisì ulteriori energie grazie alla scoperta di una fonte praticamente illimitata di ricchezze gratuite nelle Americhe.

La combinazione di questi fattori prese un insieme di persone che sotto il feudalesimo erano state perseguitate o emarginate - umanisti, scienziati, artisti, avvocati, predicatori radicali e drammaturghi bohémiens come Shakespeare - e le mise alla testa di una trasformazione sociale. Nei momenti chiave, anche se all'inizio con qualche esitazione, lo stato smise di ostacolare il cambiamento e cominciò a incoraggiarlo.

La transizione al postcapitalismo non andrà esattamente nello stesso modo, ma possiamo abbozzare qualche parallelismo.

L'elemento che sta erodendo il capitalismo, a malapena razionalizzato dal pensiero economico dominante, è l'informazione. Le tecnologie informatiche, con le loro ripercussioni su tutte le altre forme di tecnologia, dalla genetica alla sanità, all'agricoltura, al cinema, sono l'equivalente della macchina da stampa e del metodo scientifico.

L'equivalente moderno della lunga stagnazione del tardo feudalesimo è lo stallo del quinto ciclo di Kondrat'ev, nel corso del quale, invece di eliminare rapidamente il lavoro attraverso l'automazione, siamo ridotti a creare «lavori del cazzo» mal retribuiti, e in cui molte economie sono in stagnazione.

Qual è l'equivalente della nuova fonte di ricchezza gratuita? Non si tratta propriamente di ricchezza: sono le esternalità, cioè le cose gratis e il benessere generati dall'interazione in rete. È l'ascesa della produzione non di mercato, dell'informazione non possedibile, delle reti peer-to-peer e delle imprese senza manager. Internet, afferma l'economista francese Yann Moulier-Boutang , «è sia la nave che l'oceano» dell'attuale conquista di un nuovo mondo. Anzi, è al tempo stesso la nave, la bussola, l'oceano e l'oro.

Gli shock esterni di oggi sono evidenti: l'esaurimento dell'energia, i cambiamenti climatici, l'invecchiamento della popolazione e le migrazioni stanno alterando le dinamiche del capitalismo, rendendolo impraticabile nel lungo periodo. Non hanno ancora avuto lo stesso impatto della Peste nera, ma qualunque collasso finanziario potrebbe facilmente gettare nello scompiglio le fragilissime società urbane che abbiamo creato. Come ha dimostrato l'uragano Katrina a New Orleans nel 2005, non c'è bisogno della peste bubbonica per distruggere l'ordine sociale e le infrastrutture funzionali di una città moderna.

Se si interpreta la transizione in questo modo, non c'è bisogno di un piano quinquennale calcolato nei minimi dettagli, ma di un progetto graduale, iterativo e modulare, il cui fine deve essere l'espansione di tecnologie, modelli di impresa e comportamenti che dissolvano le forze di mercato, estirpino la necessità del lavoro e facciano progredire l'economia mondiale verso l'abbondanza. Questo non significa che non si possano intraprendere azioni immediate per mitigare i rischi, o affrontare le ingiustizie più eclatanti. Significa però che dobbiamo comprendere la differenza fra obiettivi strategici e azioni a breve termine.

La nostra strategia dovrebbe essere quella di plasmare l'esito di un processo che è iniziato in modo spontaneo, per renderlo irreversibile e fare in modo che porti il più in fretta possibile a risultati socialmente giusti. Per fare questo ci vorrà un misto di pianificazione, intervento statale, mercati e produzione tra pari. Ma dovremo lasciare spazio anche ai corrispettivi moderni di Gutenberg e Colombo. E di Shakespeare.

Nel XX secolo, quasi tutti gli intellettuali di sinistra erano convinti che una transizione controllata fosse un lusso che non ci si poteva permettere. Per loro, era un articolo di fede che nulla del sistema futuro potesse esistere all'interno del vecchio (anche se, come ho mostrato, il desiderio degli operai è sempre stato quello di creare una vita alternativa nonostante il capitalismo). Perciò, sfumata la possibilità di una transizione in stile sovietico, la sinistra moderna si è preoccupata semplicemente di opporsi: alla privatizzazione della sanità, alla riduzione dei diritti sindacali, alla fratturazione idraulica e via dicendo.

Oggi dobbiamo reimparare a fare cose positive: costruire alternative interne al sistema, usare il potere dello stato in modo radicale e dirompente e concentrare tutte le nostre azioni verso un percorso di transizione, non su una difesa raccogliticcia di qualche elemento del vecchio sistema.

I socialisti del primo Novecento erano fermamente convinti che qualsiasi atto preparatorio fosse impossibile all'interno del vecchio sistema. «Il sistema socialista» sentenziò una volta, categoricamente, Preobraženskij «non può costruirsi per parti in seno al capitalismo.»

Abbandonare questa convinzione è la mossa più coraggiosa che possa fare una sinistra capace di adattarsi. È perfettamente possibile costruire «per parti» gli elementi del nuovo sistema all'interno del vecchio. Nelle imprese cooperative, nel credito cooperativo, nelle reti peer-to-peer, nelle imprese senza manager e nelle economie parallele delle subculture, questi elementi esistono già. Dobbiamo smetterla di guardare a queste realtà come a degli esperimenti pittoreschi: dobbiamo promuoverle con una regolamentazione decisa, come quella che usò il capitalismo per spingere i contadini fuori dalle campagne o per distruggere il lavoro artigianale nel XVIII secolo.

Infine, dobbiamo distinguere ciò che è urgente da ciò che è importante, e imparare che le due cose a volte non coincidono.

Se non fosse per gli shock esterni che ci aspettano nei prossimi cinquant'anni, potremmo permetterci di affrontare le cose con calma: lo stato, in una transizione benevola, agirebbe come principale facilitatore del cambiamento attraverso la regolamentazione. Ma data l'enormità degli shock esterni, alcune delle azioni da intraprendere dovranno essere immediate, centralizzate e drastiche.

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Un'élite mondiale che nega la realtà


«La nostra è sostanzialmente un'era tragica, perciò ci rifiutiamo di prenderla sul tragico. II cataclisma si è ormai abbattuto su di noi, siamo circondati dalle rovine. [...] Dobbiamo sopravvivere, per quanti cieli ci siano crollati addosso.» David H. Lawrence descriveva con queste parole l'aristocrazia inglese alla fine della Prima guerra mondiale, che si rifugiava, con la sua ideologia ridotta in brandelli, in un mondo di palazzi signorili e maniere arcaiche. Ma la descrizione si potrebbe applicare altrettanto bene all'attuale élite dopo la catastrofe del 2008: un'aristocrazia finanziaria decisa a continuare a vivere come se le minacce che abbiamo discusso fin qui non fossero reali.

Alla fine del Novecento, una generazione di imprenditori, politici, magnati dell'energia e banchieri è cresciuta in un mondo apparentemente privo di attriti. Nel secolo precedente, i loro predecessori avevano dovuto assistere alla disintegrazione di ordini finemente architettati e delle loro illusioni. Dalla Francia imperialista del 1871 alla sconfitta in Vietnam e al collasso del comunismo, la prima lezione sull'arte di governare, per chi è nato prima del 1980, è stata: le cose brutte capitano e può succedere di essere travolti dagli eventi.

Dal 2000, le cose sembrano diverse. Forse non si è trattato della «fine della storia», ma la generazione che ha costruito l'ordine neoliberista aveva quantomeno l'impressione che la storia fosse diventata controllabile. Ogni crisi finanziaria poteva essere affrontata con un'espansione monetaria, ogni minaccia terroristica poteva essere annientata con un drone. Il movimento operaio come variabile indipendente della politica era stato soppresso.

Il sottoprodotto psicologico, nella mente delle classi dirigenti, è stato l'idea che non esistano situazioni impossibili: si può sempre scegliere, anche se alcune scelte si rivelano difficili. C'è sempre una soluzione, e di solito è il mercato.

Ma questi shock esterni dovrebbero suonare un campanello d'allarme. I cambiamenti climatici non ci danno la possibilità di scegliere fra due strade, una di mercato e l'altra no, per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Ci impongono un aut aut: o sostituiamo in maniera ordinata l'economia di mercato o assisteremo al suo collasso disordinato in fasi successive e repentine. L'invecchiamento della popolazione rischia di affossare i mercati finanziari mondiali, e alcuni paesi dovranno ingaggiare una guerra sociale con i propri cittadini anche solo per restare solvibili. Se accadesse una cosa del genere, al confronto quello che ha passato la Grecia dopo il 2010 sembrerà una serie di stagioni estive andate male.

Nei paesi più poveri, l'azione combinata della crescita demografica, della corruzione istituzionale, di uno sviluppo squilibrato e degli effetti dei cambiamenti climatici creerà di sicuro decine di milioni di poveri senza terra, la cui scelta più logica sarà emigrare.

Le reazioni difensive dell'Occidente sviluppato sono già visibili: il filo spinato e i respingimenti nell'enclave spagnola di Melilla, sulla costa del Marocco; la violazione del diritto da parte della marina australiana contro i barconi di migranti dall'Indonesia; la corsa sfrenata degli Stati Uniti all'estrazione di petrolio mediante fratturazione idraulica, per raggiungere l'autosufficienza energetica; le esercitazioni rivali di Russia e Canada volte a schierare forze militari nell'Artico; la determinazione della Cina a monopolizzare le terre rare, metalli vitali per l'elettronica moderna. Il denominatore comune di queste reazioni è l'abbandono della collaborazione multilaterale e il tentativo di rendersi autosufficienti.

Ci siamo abituati a pensare che per la globalizzazione il pericolo venga dal nazionalismo economico, cioè dalla popolazione di una o più economie avanzate che, non potendone più dell'austerità, costringe i propri politici, come negli anni trenta, a adottare politiche protezionistiche per risolvere la crisi. Ma gli shock esterni alimentano una dimensione di instabilità che va oltre la rivalità economica pura e semplice. La ricerca dell'autosufficienza energetica sta creando mercati energetici globali regionalizzati. Lo stallo diplomatico fra Russia e Occidente sulla questione ucraina e la minaccia continua, da parte di Mosca, di tagliare le forniture di gas all'Europa spingeranno anche il Vecchio continente alla ricerca dell'autosufficienza energetica, anche se le minacce non dovessero mai concretizzarsi.

Nel frattempo, la balcanizzazione del mercato energetico si accompagna a un processo speculare, che riguarda Internet.

Già oggi, quasi un essere umano su cinque deve sopportare che le proprie informazioni vengano filtrate dai controlli farsa imposti dai comunisti cinesi. Un politico viene arrestato per corruzione? Naturalmente il suo nome sparisce dai motori di ricerca: ma se fa rima con la parola usata per indicare i noodles istantanei (come è successo con Zhou Yongkang nel 2014), spariscono anche la parola cinese per noodles e il marchio del maggiore produttore di noodles.

Ora Internet corre il rischio di un'ulteriore frammentazione, dopo le reazioni dei vari paesi alle rivelazioni sullo cyberstalinismo di massa diffuse dalla National Security Agency degli Stati Uniti. Inoltre, nel 2014 diversi governi, fra cui quello turco e quello russo, hanno cercato di reprimere il dissenso costringendo le aziende Internet a registrarsi come entità soggette al sistema giuridico nazionale, e quindi esposte al rischio di censura politica, formale e informale.

Insomma, la prima fase dello sgretolamento del sistema globale si manifesta attraverso una frammentazione dell'informazione e dell'energia. Ma potrebbe riguardare anche i confini nazionali.

Nel 2014, ho seguito da vicino il referendum scozzese sull'indipendenza. Contrariamente alle leggende dei media, non si è trattato di un rigurgito nazionalista, ma di un movimento popolare di sinistra: messo di fronte all'opportunità di troncare i legami con uno stato neoliberista votato all'austerità per i prossimi dieci anni, il popolo scozzese è andato molto vicino a farlo davvero, sfasciando l'economia capitalista più antica del pianeta. Con il sistema politico spagnolo in crisi, il movimento indipendentista catalano potrebbe prendere slancio (al momento è stato tamponato dall'improvvisa ascesa di Podemos). E basterebbe un solo incidente politico per far crollare l'intero progetto dell'Unione Europea. Quando un partito di estrema sinistra ha vinto le elezioni in Grecia, tutte le istituzioni europee lo hanno attaccato, come i globuli bianchi con un virus. Mentre scrivo, la crisi greca infuria, ma ci sembrerà una cosuccia da nulla se l'estrema destra, com'è del tutto possibile, dovesse prendere il potere in Francia.

Probabilmente a Pechino, Washington e Bruxelles i prossimi cinque anni vedranno i vecchi governanti impegnati in un ultimo sforzo per far funzionare il vecchio sistema. Ma più tempo andremo avanti senza farla finita con il neoliberismo, più le sue crisi contingenti inizieranno a scontrarsi e fondersi con le crisi strategiche che ho tracciato a grandi linee.

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Obiettivi primari


Quello che voglio proporre, partendo dai principi che ho appena elencato, non è un programma politico, ma qualcosa di più simile a un progetto distribuito. Si tratta di una serie di compiti tra loro collegati, modulari, non lineari, che conducono a un risultato probabile. Il processo decisionale è decentrato, le strutture necessarie a svolgerlo emergono svolgendolo e gli obiettivi si evolvono in risposta ai dati che arrivano in tempo reale. E in omaggio al principio di precauzione, dovremmo usare i nuovi strumenti di simulazione per realizzare modelli virtuali di ogni proposta prima di metterla in pratica.

Se potessi scrivere il resto del capitolo sotto forma di post-it da incollare su una lavagna bianca, riuscirei a esprimere meglio la modularità e l'interdipendenza. Il metodo migliore per portare avanti un progetto distribuito è puntare su piccoli gruppi che si scelgono un compito, ci lavorano un po', documentano ciò che hanno fatto e poi vanno avanti.

In assenza di post-it, mi atterrò a una lista. Gli obiettivi primari di un progetto postcapitalista dovrebbero essere:


1. Ridurre rapidamente le emissioni di anidride carbonica per limitare l'aumento della temperatura a 2 gradi centigradi entro il 2050, prevenire una crisi energetica e mitigare il caos prodotto dagli eventi climatici.

2. Stabilizzare il sistema finanziario entro il 2050 socializzandolo, per evitare il rischio che l'invecchiamento della popolazione, i cambiamenti climatici e l'accumulo di debito si combinino fra loro fino a innescare un nuovo ciclo di espansione-contrazione e a distruggere l'economia mondiale.

3. Offrire livelli elevati di prosperità materiale e benessere alla maggioranza delle persone, puntando soprattutto su tecnologie ad alto contenuto informativo per risolvere gravi problemi sociali come malattie, dipendenza dal welfare, sfruttamento sessuale e scarsa istruzione.

4. Utilizzare la tecnologia per ridurre il lavoro necessario e promuovere una rapida transizione verso un'economia automatizzata. Alla fine, il lavoro diventerà volontario, i prodotti e i servizi pubblici di base saranno gratuiti e la gestione economica diventerà soprattutto una questione di energia e risorse, anziché di capitale e lavoro.


Se fosse un gioco, queste sarebbero le «condizioni di vittoria». Forse non riusciremo a soddisfarle tutte ma, come sanno tutti i giocatori, si può ottenere molto anche senza riportare una vittoria totale.

Nel perseguire questi obiettivi, sarà importante inviare segnali trasparenti su tutti i cambiamenti economici da attuare. Uno degli aspetti più importanti del sistema di Bretton Woods erano le regole esplicite che racchiudeva. Al contrario, in questi venticinque anni di neoliberismo, l'economia mondiale è stata gestita sulla base di regole implicite o, come nel caso dell'Eurozona, sulla base di regole costantemente violate.

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Far sparire le forze di mercato


In una società fortemente interconnessa e orientata al consumatore, in cui le persone hanno una nozione di bisogno economico incentrata sull'individuo, i mercati non rappresentano il nemico. È la principale differenza fra un postcapitalismo basato sulle tecnologie informatiche e uno basato sulla pianificazione coercitiva. Non c'è motivo di abolire i mercati con un diktat, se aboliamo i fondamentali squilibri di potere che si nascondono dietro al termine «libero mercato».

Vietata alle aziende la possibilità di fissare prezzi di monopolio, e introdotto un reddito universale di cittadinanza (vedi sotto), il mercato diventa la cinghia di trasmissione dell'effetto di «costo marginale zero», che si manifesta con la diminuzione del tempo di lavoro in tutta la società.

Ma se vogliamo controllare la transizione, è necessario inviare segnali chiari al settore privato, e uno dei più importanti è: i profitti si fanno con l'iniziativa imprenditoriale, non con la rendita.

L'atto di innovare e creare - che sia un nuovo tipo di motore a reazione o la hit musicale del momento - sarebbe premiato, come già accade, dalla capacità dell'azienda di realizzare guadagni a breve termine, grazie all'incremento delle vendite o all'abbassamento dei costi. Ma i brevetti e le tutele della proprietà intellettuale sarebbero disegnati per durare poco. Questo principio è già comprovato dai fatti, nonostante le proteste degli avvocati di Hollywood e dei colossi farmaceutici: i brevetti dei medicinali scadono dopo vent'anni, ma spesso la loro efficacia cessa molto prima, perché prodotti in paesi che non riconoscono il brevetto o perché (come nel caso del virus Hiv) a fronte di un'emergenza umanitaria i detentori del brevetto accettano di consentire il ricorso ai farmaci generici.

Simultaneamente, verrebbe promosso l'uso delle licenze Creative Commons, con le quali inventori e creatori rinunciano in anticipo, volontariamente, ad alcuni diritti. Se, come suggerito sopra, i governi insisteranno affinché i risultati delle ricerche finanziate dallo stato siano messi a disposizione di tutti gratuitamente o quasi - trasferendo nella sfera pubblica tutto ciò che viene prodotto con finanziamenti pubblici -, gli equilibri mondiali della proprietà intellettuale si sposterebbero rapidamente dall'uso privato a quello pubblico. Gli individui motivati unicamente dal desiderio di ottenere una ricompensa materiale continuerebbero a creare e a innovare, perché il mercato remunererebbe comunque l'abilità imprenditoriale e la genialità; ma la durata della ricompensa, come si conviene a una società in cui il tasso di innovazione sta diventando esponenziale, si accorcerà.

L'unico settore in cui è imperativo sopprimere completamente le forze di mercato è quello dell'energia. Per affrontare i cambiamenti climatici con azioni urgenti, lo stato dovrà rilevare la proprietà e il controllo della rete di distribuzione energetica, nonché tutti i grandi fornitori di energia da idrocarburi. Queste aziende sono già spacciate, visto che la maggior parte delle loro riserve non può essere consumata senza distruggere il pianeta. Per incentivare gli investimenti nelle energie rinnovabili, queste tecnologie dovranno essere sovvenzionate, e le compagnie che le forniscono dovranno rimanere estranee al controllo pubblico, se possibile.

Tutto questo si può fare mantenendo nel complesso elevato il prezzo al consumo dell'energia, allo scopo di reprimere la domanda e costringere i consumatori a cambiare comportamenti. Ma è altrettanto importante riplasmare il modo di consumare energia delle famiglie: l'obiettivo è decentralizzare il mercato dei consumi energetici, per consentire il decollo di tecnologie come la cogenerazione e le reti di generazione distribuita.

In ogni fase, sarà premiata l'efficienza energetica e verranno sanzionati gli sprechi, dalla progettazione degli edifici alla coibentazione e al riscaldamento, fino alle reti di trasporto. C'è una vasta gamma di tecniche già sperimentate fra cui scegliere, ma, decentralizzando e consentendo alle comunità locali di tenere per sé i miglioramenti di efficienza, nel mercato al dettaglio dell'energia le forze di mercato potrebbero essere sfruttate per raggiungere un obiettivo definito e misurabile.

Tuttavia, al di fuori dell'energia e dei servizi pubblici strategici, è importante lasciare ampio spazio a quelli che Keynes chiamava «spiriti animali» dell'innovatore. Una volta che le tecnologie informatiche avranno improntato di sé il mondo fisico, ogni innovazione ci porterà più vicini a un mondo in cui il lavoro necessario sarà pari a zero.

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Socializzare il sistema finanziario


Il successivo grande sforzo di tecnologia sociale riguarderà il sistema finanziario. La complessità finanziaria è al cuore della vita economica moderna; include strumenti come future e opzioni, e mercati globali altamente liquidi attivi ventiquattr'ore al giorno. Include anche il nuovo rapporto che, come lavoratori e consumatori, abbiamo instaurato con il capitale finanziario. È per questo motivo che a ogni crisi finanziaria gli stati sono costretti a ritoccare al rialzo la garanzia implicita di salvataggio pubblico a sostegno di banche, fondi pensione e assicurazioni.

Moralmente parlando, se i rischi sono socializzati, dovrebbero esserlo anche i benefici. Ma non c'è alcun bisogno di abolire in toto la complessità finanziaria: laddove questa porti alla speculazione e acceleri inutilmente la velocità del denaro, la si può addomesticare. Le seguenti misure sarebbero più efficaci se intraprese a livello globale, ma è più probabile, considerando lo scenario illustrato nel Capitolo 1, che saranno i singoli stati a doverle implementare, e con una certa urgenza. Eccole:


1. Nazionalizzare la banca centrale, obbligandola a fissare un obiettivo esplicito di crescita sostenibile e un obiettivo di inflazione intorno al limite più elevato delle medie recenti. Questo fornirà gli strumenti per stimolare una forma di repressione finanziaria socialmente equa, mirata alla svalutazione controllata dell'enorme debito accumulato. In un'economia globale fatta di stati, o di aree valutarie, provvedimenti del genere provocheranno tensioni, ma, alla fine, come nel caso di Bretton Woods, se un'economia di rilevanza sistemica inizierà a farlo, le altre dovranno adeguarsi.

Oltre alle sue funzioni classiche (politica monetaria e stabilità finanziaria), la banca centrale dovrebbe fissare un obiettivo di sostenibilità: per ogni decisione dovrebbe produrre un modello che ne valuti l'impatto climatico, demografico e sociale. I suoi capi, naturalmente, dovrebbero essere eletti democraticamente e ben controllati.

La politica monetaria delle banche centrali - forse lo strumento più potente del capitalismo moderno - diventerà aperta, trasparente e controllata dalle istituzioni politiche. Nelle ultime fasi della transizione, la banca centrale e la moneta avranno un ruolo diverso, su cui tornerò più avanti.

2. Ristrutturare il sistema bancario creando una combinazione di società di servizi pubblici con un tetto ai profitti realizzabili, banche locali e regionali senza fini di lucro, banche di credito cooperativo, agenzie di prestiti peer-to-peer e infine un'istituzione pubblica che fornisca un'intera gamma di servizi finanziari. Lo stato svolgerebbe esplicitamente la funzione di prestatore di ultima istanza per queste banche.

3. Ritagliare uno spazio ben regolamentato alle attività finanziarie complesse, per far sì che il sistema finanziario globale, nel breve-medio periodo, possa tornare al suo ruolo storico: distribuire in maniera efficiente il capitale fra aziende, settori industriali, risparmiatori, prestatori e così via. La regolamentazione potrebbe essere molto più semplice rispetto ai contenuti dell'accordo di Basilea III, perché sarebbe sostenuta dalla rigida applicazione del codice penale e del codice deontologico professionale nei settori bancario, contabile e legale. I principi guida sarebbero premiare l'innovazione e penalizzare e scoraggiare la ricerca di rendite. Per esempio, per un commercialista o un avvocato iscritto all'ordine, proporre un meccanismo per eludere le tasse diventerebbe una violazione dell'etica professionale, così come per un hedge fund tenere uranio in magazzino per far salire il prezzo di mercato.

In paesi come Regno Unito, Singapore, Svizzera e Stati Uniti, con un settore finanziario dalla vocazione globale, i governi potrebbero offrire un accordo: se le banche accettano di riportare in patria le loro attività in modo chiaro e trasparente, lo stato in cambio può mettere a disposizione dei limitati fondi da prestatore di ultima istanza per le società finanziarie orientate ad attività rischiose e al profitto rimaste in piedi. Quelle che si rifiutano di riportare in patria le proprie attività e diventare trasparenti sarebbero trattate come l'equivalente finanziario di al-Qaida: dopo un'adeguata offerta di amnistia, verrebbero stanate ed eliminate.


Queste misure strategiche di breve termine potrebbero disinnescare la bomba a orologeria della finanza globale, ma non costituiscono ancora il modello di un vero sistema finanziario postcapitalista.

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Un reddito di cittadinanza per tutti


Il reddito di base non è particolarmente radicale, come proposta politica. Vari progetti pilota sono stati sbandierati, spesso dalla destra e a volte dal centrosinistra, come alternativa dai costi amministrativi più contenuti al sussidio di disoccupazione. Ma nel progetto postcapitalista l'obiettivo del reddito di base è radicale: serve a) a formalizzare la separazione tra lavoro e salario; e b) a finanziare la transizione verso una settimana, una giornata o una vita lavorativa più corta. L'effetto sarebbe socializzare i costi dell'automazione.

L'idea è semplice: tutti i cittadini in età lavorativa percepiscono dallo stato un reddito di base incondizionato, finanziato attraverso le tasse, che sostituisce il sussidio di disoccupazione. Le altre forme di sussidio basate sui bisogni (assegni famigliari, pensioni di invalidità, prestazioni per figli a carico), non scomparirebbero, ma sarebbero integrazioni minori al reddito di cittadinanza.

Perché pagare le persone per il solo fatto di esistere? Perché abbiamo bisogno di accelerare radicalmente il progresso tecnologico. Se, come suggerisce lo studio della Oxford Martin School, l'automazione renderà superfluo il 47 per cento di tutti i lavori di un'economia avanzata, allora, con il neoliberismo, il risultato sarà un'enorme espansione del precariato.

Un reddito di cittadinanza finanziato tassando l'economia di mercato dà alle persone la possibilità di costruirsi una posizione nell'economia non di mercato. Permette loro di fare volontariato, fondare cooperative, correggere voci su Wikipedia, imparare a usare un programma di progettazione 3D, o semplicemente di esistere. Permette loro di distanziare i periodi di lavoro; di accedere più tardi al mondo del lavoro o abbandonarlo prima; di entrare e uscire più facilmente da mestieri molto intensi e stressanti. Avrebbe un costo notevole per le casse pubbliche: è il motivo per cui tutti i tentativi di mettere in pratica questa misura al di fuori di un progetto di transizione globale sono probabilmente destinati a fallire, nonostante il crescente numero di studi accademici e convegni mondiali dedicati al tema.

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In questo sistema, le persone che non lavorano non sarebbero stigmatizzate. Il mercato del lavoro privilegerebbe i lavori ben pagati e i datori di lavoro che pagano bene.

Il reddito di cittadinanza, quindi, è un antidoto contro quelli che l'antropologo David Graeber definisce «lavori del cazzo»: quei lavori sottopagati che negli ultimi venticinque anni il capitalismo è riuscito a creare nel settore dei servizi, e che oltre a essere mal retribuiti svalorizzano il lavoratore, e probabilmente non hanno motivo di esistere. Ma è solo una misura di transizione per la prima fase del progetto postcapitalista.

L'obiettivo finale è ridurre al minimo le ore necessarie per produrre ciò di cui l'umanità ha bisogno. A quel punto, la base imponibile nel settore di mercato dell'economia sarebbe troppo esigua per finanziare il reddito di cittadinanza. I salari stessi diventerebbero sempre più «sociali», sotto forma di servizi forniti collettivamente, o sparirebbero.

Insomma, in quanto misura postcapitalista, il reddito di cittadinanza è il primo sussidio della storia ad avere successo se si riduce a zero.

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