Copertina
Autore Richard Mason
Titolo Noi
EdizioneEinaudi, Torino, 2004, Supercoralli , pag. 364, cop.ril.sov., dim. 140x220x25 mm , Isbn 978-88-06-15268-0
OriginaleUs [2004]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa inglese , narrativa sudafricana
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Pagina 5

1. Julian


È successo perché ho portato la classe in visita alla National Gallery. La settimana scorsa, per un momento, quest'idea peregrina mi era sembrata buona: verso la fine del semestre i ragazzi dovrebbero uscire da scuola, andare a vedere qualcosa che esuli dai soliti scenari proposti nei cinema. Pensavo potessero apprezzare l'enorme ritratto di Carlo I a cavallo - quello all'ingresso, di Van Dyck, se non sbaglio - a conclusivo corredo delle lezioni su Guerra civile e Restaurazione. È importante per degli adolescenti venire a contatto diretto con fenomeni artistici e culturali, se non altro perché in questo modo si rendono conto che certi imbroglioni mediatici, stile Jake Hitchins, non sono gli unici artisti prodotti dalla nostra civiltà.

Per essere chiari, io non ho nulla contro il successo di Jake. Se potessi convincere la gente a sborsare migliaia di sterline per comprarsi i miei mobili da giardino liquefatti, sono certo che non esiterei a farlo. Il che tuttavia non significa che debba spacciare il processo per arte a un pubblico di ragazzini innocenti, né attribuirgli chissà quale «profondità» o «visione apocalittica». Non vuol dire che debba parlarne alle riunioni in orario post-scolastico, o discuterne a cena con gli amici. Non che Jake mi abbia chiesto in passato di fare nulla di tutto ciò: non ci siamo detti mai molto, e da anni ormai non ci rivolgiamo la parola. Se qualcuno lo nomina, fingo di non averlo mal conosciuto; è tutto molto piú facile in questo modo.

Di tanto in tanto mi chiedo se Maggie sa che mi sono rifiutato di rallegrarmi con Jake per la colossale truffa da lui perpetrata ai danni della gente perbene, e in caso affermativo, che cosa ne pensi. Certe volte la sogno e nel sogno lei ride di me, dice che è successo tutto troppo tempo fa per avere ancora importanza e mi prende in giro per la mia pochezza di spirito; è sempre stata dell'opinione che al mondo ci siano abbastanza amore e gioia per tutti, ma questo dipende solo dal fatto che ha potuto immancabilmente avere quanto desiderava di entrambi. La stravaganza della carriera di Jake la divertirebbe; è probabile che la confronterebbe con l'ordinarietà della mia. Di sicuro le sarebbe sfuggito un sorriso, se avesse potuto vedermi questa mattina mentre arrancavo sotto la pioggia nel centro di Londra, visto che il preside è troppo taccagno per noleggiare un minibus.

- E uno dei vantaggi degli istituti centrali, - mi ha detto ridendosela sotto i baffi. - I ragazzi possono andare dovunque a piedi. Si prenda Miss Patterson appresso e trasformi la passeggiata in un'avventura.

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Pagina 51

8. Jake


Seduto sul divano, aspetto l'autista di Hank. Mi sembra che l'unica cosa sensata da fare sia scolarmi nevroticamente il resto della bottiglia di vodka. Procedo infatti, nella speranza di liberarmi dell'ansia. Quello che Hank non sa, perché non ho voluto dirglielo, è che il materiale che ho pronto per la mia prossima mostra ammonta in tutto e per tutto a un sacco di plastica nero pieno di ossa levigate che ho acquistato l'anno scorso in un mattatoio, pensando che prima o poi potessero tornarmi utili.

Gli ho detto che non voglio mostrargli nulla finché non ho completato tutti i pezzi. Lui ha accettato la condizione, il che mi ha procurato un certo respiro, ma non per molto. La data dell'inaugurazione è fissata da tre mesi. E la macchina della stampa si è già messa in moto. Il problema è che nell'arte concettuale quello che conta è il «concetto», e saranno almeno due anni che non riesco ad arrivare in fondo a un pensiero compiuto.

Contro ogni regola del buonsenso, mi alzo dal divano e barcollo fino allo studio. Quest'ultimo si trova sul retro della casa: uno spazio all'avanguardia dotato di soffitto alto sei metri e tetto in cristallo. Non permetto a Josefa, né a chiunque altro, di metterci piede. Del resto, ci metto piede abbastanza di rado io stesso, ormai. Il pavimento è in arenaria levigata, color avorio. Al mio passaggio, lascio impronte visibili nella polvere. La luce del sole illumma il pulviscolo in volo nell'aria circostante. Abbandonato in un angolo, l'unico pezzo invenduto della mia serie sul tema dell'Apocalisse. È una superficie di prato finto, con sopra due sedie a sdraio di plastica accanto a un tavolo di plastica con sopra un bicchiere da cocktail di plastica con dentro una ciliegia di plastica. L'insieme è stato incendiato, e si è fuso in modo arcano e inquietante. Le sedie sono sprofondate su se stesse. C'è stata gente - parlo di gente ricca e intellettualmente dotata - disposta a pagare cifre a sei zeri per roba del genere.

La desolazione del locale mi accelera il battito cardiaco. Provo rancore per Hank. Chi gli ha mai chiesto di fare di me un artista? Non ho studiato per diventarlo. Non so disegnare né dipingere né scolpire. Non capisco niente di prospettiva. Mi sembra di sentirlo, quando mi diceva che ormai tutte queste cose non contano, che le strade dell'arte e del talento si sono separate molto tempo fa. Lo rivedo com'era, dieci anni orsono. piú snello, entusiasta, meno trafelato. Allora non mi lasciava in segreteria telefonica messaggi sul conto di muratori neri. Non minacciava e non piagnucolava.

Forse perché non ce n'era bisogno. Una volta mettere insieme queste cose mi veniva naturale. Era una passeggiata per me, fracassare oggetti o incendiarli, o farli a fette e poi venderli. Non ho mai pensato di fare sul serio, mai. Non ci ho mai creduto. Era una bella sensazione non essere piú povero. Mi godevo i vantaggi di un impianto idraulico decente. Scoprii che non dovevo fare troppa fatica con gli altri, perché la gente accetta qualunque cosa da una celebrità. Non ho mai finto di essere un genio. Non ho mai chiesto di lasciare traccia di me nella storia.

È paralizzante dover pensare quando non ci riesci. Sono due anni che lavoro a una nuova mostra e in tutto sono riuscito a comprare un sacco di vecchie ossa. Cerco di ricordare quando è stata l'ultima volta che le voci dentro si sono zittite e mi hanno permesso di pensare. Il fatto è che per farle tacere funziona soltanto la vodka e, quando ho bevuto abbastanza da imbavagliarle, non riesco piú a muovermi.

Ritorno in casa. La luce dello studio mi deprime. Entro in cucina e prendo dal freezer un'altra bottiglia di Absolut. Mi torna in mente la giornalista di «Vogue» che mi sta aspettando al ristorante. Penso di sfuggita che non sono in condizione di sostenere un'intervista. Apro la bottiglia e verso un po' di vodka in una tazza di porcellana, di quelle bianche bordate di viola. Porto la tazza in soggiorno, poi cambio idea, e torno a prendermi la bottiglia. Dico a me stesso che ora starò qui seduto tranquillo ad aspettare l'autista di Hank, ma so benissimo che per oggi le probabilità che io esca di casa sono pressoché nulle.

Memore dell'errore di prima, mi assicuro di avere staccato il telefono.

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Pagina 107

13. Jake


- Ah, Jake. Che piacere rivederti.

Un uomo sulla quarantina ci sta venendo incontro: faccia rotonda, guance pienotte e riccioli neri in aperta sfida al passare degli anni. L'ho incontrato una volta in vita mia nel corso di un breve colloquio terrificante e so che quando mi stringerà la mano (cosa che si appresta a fare con vigore entusiasta), la sua sarà sudaticcia. Infatti.

- Che piacere rivederti -. Mi rivolge un'occhiata penetrante, con uno sfavillio nello sguardo che potrebbe significare cortesia o divertimento; probabilmente entrambi. È il mio nuovo preside, e si chiama Joshua Palmer-Jones.

- Signora Hitchins. Com'è graziosa oggi pomeriggio.

La mamma arrossisce. Papà non sa che dire. A Fareham la gente non dice alla moglie di un altro che è «graziosa», indipendentemente dall'ora. A Fareham nessuno appoggia le mani sulle spalle della moglie di un altro, come sta facendo adesso il preside, che poi la bacia deciso su tutte e due le guance. La mamma non sa dove guardare né cosa fare. Cosi, non potendo sottrarsi ai baci, prova a ricambiarli con un abbraccio, ma proprio mentre gli sta cingendo il collo, il signor Palmer-Jones si ritrae. La mamma resta goffamente sbilanciata verso di lui e, prima di potersi correggere, papà le ha già detto (è la prima volta di oggi che alza cosi la voce): - Beverley, attenta.

Non e esattamente che a questo segua il silenzio. La gente continua a chiacchierare e il signor Palmer-Jones corre ai ripari come può. Ma nulla può sfuggire alla sensibilità degna di un radar di un tredicenne, e io ho notato il sorriso di un ragazzo poco lontano da mio padre. È un sorriso radioso, un sorriso stupefatto.

Risulta straordinariamente divertente una cosa di cui al momento non è possibile parlare.

- Ho sentito che tua madre si chiama Beverley.

È piú tardi, adesso: mamma e papà sono già andati via. La Cortina non ingombra piú di ferraglia il vialetto. Mi trovo in uno stanzone basso di brande in acciaio allineate dalle coperte perfettamente tese. Vibra nell'aria la generosità disperata di tredicenni a caccia di amici. Si aprono scatole di dolci, si esclama alla vista di vasetti di cioccolato. Una copia appiccicosa di «Playboy», sottratta alla collezione di un fratello maggiore, sta facendo il giro della stanza sotto occhi nervosamente sgranati. Occhi ansiosi.

- Ho sentito - ripete la voce scandendo piano le parole, con enfasi - che tua madre si chiama Beverley.

La persona che ha parlato è uno snello damerino di quattordici anni della classe successiva.

- Ehm... si, - faccio io.

- Si fa chiamare col suo nome per intero? O preferisce un diminutivo?

La voce gli scintilla come un vetro sotto la luce invernale. Non mi sono mai imbattuto nella parola «diminutivo» in passato, ma mi sembra elegante, un accessorio raffinato.

- Ehm... si, - dico di nuovo.

- Sei capace di dire qualcosa che non sia «Ehm... si»?

- Ehm... - Ma so di essere caduto in trappola. - Si.

Mi sorride, non con freddezza. Sembra uscito da una rivista anni Trenta, con quell'incarnato roseo e la fronte alta. È piú alto di me, e ben piantato, ma sottile.

- O-oh! - grida qualcuno dal fondo della stanza. - Ma guardate questa, che tette!

Il ragazzo mi osserva di nuovo, passandomi in rassegna. Il suo sguardo registra il mio completo e le scarpe nuove e si socchiude un po'. Le scarpe subiscono all'improvviso la stessa sorte della Ford Cortina. D'un tratto non esiste al mondo una sola ragione per cui una persona dignitosa dovrebbe volersi far sorprendere con queste cose ai piedi. Sono lucidi mocassini neri con nappine di pelle. Un po' stretti.

- Belle scarpe, - dice il ragazzo.

I suoi occhi mi ricordano quelli della ragazza alla fermata dell'autobus di Fareham, quella che mi disse di tacere e fumare una sigaretta. Riflettono l'anticipazione di un piacere e una riconosciuta autorevolezza.

Alla fine il ragazzo aggiunge: - I miei rispetti a Bev, - e se ne va.

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16. Julian


Dio, quanto tempo sembra essere passato. Ricordare se stessi in età prepuberale non è né facile né particolarmente gratificante. Ero piuttosto basso rispetto ai miei coetanei e non molto portato per gli sport (pur cavandomela meglio di Jake, se non altro). Ero sveglio, ma a quanto risultò non in modo eccezionale; di sicuro non sveglio come mi avevano giudicato i maestri delle scuole medie. Ero un biondino modesto e grassoccio, piuttosto piccolo di statura, con - ecco il mio vero tormento - una voce da puro soprano che si rifiutava cocciutamente di cambiare.

Se sei mai stato un preadolescente, magari ti puoi ricordare com'è: l'attento esame notturno del corpo, le speranze mute miste a preghiere. È un tempo fatto di sogni segreti e masturbazione febbrile, quando tutto quello che hai per superare i problemi è una fede cieca nel potere di trasformazione di Madre Natura.

- Conosci un solo adulto che non abbia cambiato voce? - mi chiese mia madre, l'estate prima di Botesdale, dopo avermi trovato in camera mia con gli occhi stranamente arrossati. - È inevitabile, caro. Succede a tutti, senza eccezioni. Succederà anche a te, lo prometto. Fidati.

Fidati, fidati. Cercavo di fidarmi, desideravo fidarmi; ma per quanto grande e diffusa fosse la mia fiducia, la voce non voleva saperne di cambiare. La pelle restava caparbiamente intatta mentre con intima invidia osservavo i compagni esibire i primi fieri germogli cutanei di una nascente pubertà. Giorno dopo giorno, mi piazzavo davanti allo specchio del bagno, scrutando ansioso a caccia di qualche rossore sebaceo: niente da fare. Mentre i ragazzi del mio corso si facevano taciturni e impacciati e ingaggiavano conversazioni che interrompevano bruscamente al mio arrivo, io mi attardavo in una snervante prepubertà.

Alle scuole medie il relativo ritardo del mio sviluppo corporeo era tollerabile; c'erano anche altri le cui mani conservavano una certa proporzione con il resto del corpo e che con penosa disinvoltura ancora riuscivano a raggiungere un do acuto cantando. Non era poi cosi desiderabile farsi cacciare dalle docce che, per tacito accordo, diventavano monopolio di ragazzi dagli inguini già coperti di prove certe di una lussureggiante virilità; ma non era neppure socialmente impensabile. Alle scuole medie, dove la prepubertà costituisce la norma, non spiccavo abbastanza da provare quell'ansia interiore e segreta messa a dura prova dal ridicolo in pubblico.

A Botesdale, lo sapevo, sarebbe stato diverso. Ecco in che cosa consisteva la sfida. Se soltanto i miei ormoni avessero sfruttato a dovere le vacanze estive, facendo tesoro di interminabili settimane di sole e di libertà per farmi cambiare voce e contribuire alla nascita di qualche brufolo, sarebbe andato tutto a posto. Non mi sembrava di chiedere troppo.

Provai a gargarizzare sorsi d'aceto e a rifugiarmi di pomeriggio in campi isolati, per cantare a squarciagola fino a diventare rauco. A scuola, tra dodicenni terrorizzati, si era diffusa la diceria che fosse possibile costringere la voce a cambiare: cantando fortissimo per il tempo giusto, non era impossibile accelerare l'inevitabile.

Esercitavo un controllo ferreo anche sulla mia dieta. In base alla saggezza popolare, la pelle del pollo contiene ormoni femminili che ritardano il verificarsi di uno sviluppo adeguato. Gli estrogeni diventarono l'incubo della mia vita interiore: una presenza vaga e indistinta che in ogni momento poteva trascinarmi, urlante e recalcitrante, verso certe regioni buie al di là di ogni possibile intervento da parte del testosterone. Mangiavo sistematicamente carne rossa, ingozzandomi di bistecche e braciole e rifiutando qualunque ortaggio, tranne quelli dalle inequivocabili qualità virili.

Inutile dire che al termine dell'estate mi ritrovai al punto esatto di prima: ancora basso per la mia età, ancora senza una pustola, e ancora in grado di salire senza sforzo con la voce, cosa che mi gettava l'anima nella disperazione piú nera.

La sera prima della partenza per Botesdale ero in camera mia, impegnato contemporaneamente in un gargarismo all'aceto e nel tentativo di cantare. Mi pareva ovvio che due strategie combinate avessero piú probabilità di riuscita rispetto a una sola e sebbene, gargarizzando, inevitabili sorsi di aceto mi scendessero in gola, trovavo il prezzo sinceramente adeguato allo scopo.

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6. Julian, Adrienne


- Dov'è Jake?

Non vedo mia sorella da qualcosa come dieci giorni, ma so che è stata tutto questo tempo a casa, casa nostra, sola con Jake 'Itchins.

- È partito in treno, - mi dice salendo in macchina. - Voleva passare una notte con suo padre a Fareham.

- Bene.

Viaggiamo in silenzio. Maggie non sembra aver voglia di dirmi niente, e se lei non vuole parlare, io non voglio chiedere.


Sono passate grosso modo due ore, e l'unico vantaggio è che Maggie ha smesso di cercare di coinvolgermi nella conversazione. Dicono solo cose decisamente non alla mia portata, il che è due volte imbarazzante dato che sono tutti fatti. La stanza è densa di parole sudore e fumo e io mi limito a fare quello che posso, vale a dire cercare di schiacciarmi contro il muro perché nessuno mi noti, e ascoltare bene, nella speranza che prima o poi si apra uno spiraglio e anch'io possa dire una cosa, qualsiasi cosa.

Non si parla di George Eliot e nemmeno del romanzo ottocentesco in genere, e ho l'impressione che nessuno dei presenti legga i giornali da mesi, se si esclude il tizio che ascolta il notiziario, ma che ovviamente deve essere il secchione del gruppo. Ecco a cosa serve tutta la mia preparazione. Cerco di non incrociare lo sguardo di Maggie, e quando gli altri ridono mi unisco al coro con entusiasmo, giusto per lasciar credere che mi stia divertendo un mondo.

La ragazza in salopette è seduta sul bordo del divano con i piedi in grembo a un tizio scarmigliato e coi capelli lunghi che, a quanto sembra, è in pigiama. Tiene fra le dita un grosso spinello e ne aspira ogni tanto lunghe boccate, trattenendo il fumo piú di quanto saprebbe fare un olimpionico di nuoto.

- Tutte stronzate maschiliste, - sta dicendo la ragazza-salopette. - Non è stato Agostino a inventare il concetto di conoscenza di sé. L'ha scippato a san Gerolamo, il quale a sua volta l'aveva rubato alla Sibilla. E stata lei la prima a dire «Conosci te stesso».

- Si, ma era Apollo a parlare attraverso di lei, giusto? Ed eccoci di ritorno alla divinità maschile -. Il ragazzo con cui sta discutendo è seduto in poltrona dall'altra parte della stanza, con in braccio una confezione da sei di lattine di birra e un ghigno beffardo sulle labbra.

- E del tutto irrilevante - afferma Maggie, pacata - chi abbia detto una cosa per primo. Le idee esistono; la gente le trova, le esprime in modi diversi e in tempi diversi. I pensieri vanno e vengono, come le maree.

- Già, è il moto del noto, - dice lo scarmigliato molto lentamente.


A proposito, non è che mi importi quello che fanno mia sorella e Jake, non proprio, almeno in un primo tempo. E comunque quello che mi vado ripetendo: non puoi imporre ad altri i tuoi modelli di comportamento, e poi non sono mai stato favorevole a istituzioni superate come un fratello maggiore protettivo. Se a mia sorella sta bene uscire con Jake 'Itchins, lo zimbello del collegio, la scelta è solo sua.

Pioviggina, e Maggie ha la testa bagnata; sembra che sia stata apposta fuori in giardino a inzupparsi a poco a poco di pioggia.

- Come te la passi? - le chiedo. - Vi siete divertiti?

Si volta e mi studia. I suoi gesti sono lenti e tranquilli; penserei che abbia fumato, se non mi stesse squadrando in modo cosi diretto. - Divertirsi non definisce nemmeno l'ombra di come siamo stati, - mi dice.

- Capito.

Procediamo in silenzio.

- Ehi, c'è qualcuno in casa?

Maggie distoglie bruscamente lo sguardo dal finestrino, come se l'avessi sorpresa a fare qualcosa di sbagliato. Le si aggrotta la fronte, e capisco di averla irritata con la mia domanda. Mia sorella non è il tipo che mi capita di associare all'idea di irritazione: è capace di fare il diavolo a quattro con chiunque, ma l'ho vista di rado irritata, o meglio, molto di rado irritata con me.

Poi sorride, ma vedo che le costa fatica. - No, niente. Ero sovrappensiero, - dice.

- Riguardo a cosa?

- Niente di speciale, sai? Un po' tutto -. E si distende languida sul sedile dell'auto.

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Pagina 304

Quello spinello è stato davvero il mio addio simbolico a Maggie.

Le voci incominciarono piu o meno allora. I primi anni andavano e venivano. A volte tacevano per settimane. Altre volte, non si zittivano mai. Nei dieci giorni che passai in un'aula foderata di legno in cima a una scala di marmo rosa impegnato negli esami finali scritti con addosso una vecchia toga nera, capitò spesso che alzassero tanto il volume da impedirmi di sentire altro.

Resero complicata la concentrazione nel periodo degli esami - specie una volta durante il tema sulla Restaurazione, quando si misero a recitare Rochester all'unisono. Scrissi per qualcosa come tre ore con un'unica frase che mi risuonava in testa, e quando pinzai i fogli alla fine scoprii di averla copiata una ventina di volte, su tutte le pagine: «Il falso giudizio di un pubblico | Di sciocchi plaudenti». Ancora e ancora, a casaccio, con rabbia.

Non me ne feci niente della laurea. Trovai lavoro in un caffè a preparare colazioni. Poi in un ufficio, a battere a macchina lettere. Smisi di andare a casa. Non sopportavo i silenzi delusi di mio padre. Mi domandavo che cosa avrei fatto della mia vita.


Lo scoprii in un'afosa giornata di giugno nel 1995, camminando per Oxford Street.

- Posso scattarle una foto? - mi chiese una donna snella, dall'acconciatura costosa.

- Se le fa piacere, - risposi.

Era un produttore televisivo alle prese con l'allestimento di uno spettacolo dal titolo Chi è il Vero Artista? Mi scattò la foto sullo sfondo di una folla davanti a Selfridge's. Si prese anche il mio numero di telefono e disse che avrebbe chiamato - cosa che fece una settimana piu tardi.

Scopo dello spettacolo era quello di smontare il mito dell'arte moderna, strappare i nuovi vestiti di dosso al vecchio Imperatore, dando voce all'uomo della strada. Mettici un po' di vita in diretta, qualche sondaggio telefonico ben studiato ed ecco servito un esempio di intrattenimento informativo, alias infottenimento, di sconsiderato successo. Mi fu chiesto di presentarmi a una audizione pubblica, poi a una seconda selezione e infine a un provino. A quel punto, diventai il Concorrente C.

La Concorrente A era Mona, laureata al Central St Martin's College of Art. Era lei la «vera» artista del gruppo: una ventiduenne dagli abiti aggressivi e i capelli lisci e corvini, che usava termini come «fluido» e «labiale» e fumava soltanto sigarette francesi.

Il Concorrente B era un calciatore semiprofessionista originario delle Midlands, chiamato il Turco. Non era turco per niente, anzi il suo vero nome era Chris, ma «il Turco» era come aveva scelto di farsi chiamare e come le varie riviste per un pubblico di adolescenti erano ben liete di definirlo. In caso di necessità, si sarebbe potuto spacciare per spagnolo. Capelli scuri, occhi scuri, colorito vagamente itterico. Con l'aiuto di un buon fondotinta, divenne il rubacuori del gruppo. Il suo indice di gradimento schizzò alle stelle quando, dopo una settimana di torrido caldo estivo, decise di lavorare alla sua installazione a petto nudo.

La Concorrente D era una pettinatrice di Glasgow dalla chioma ramata. Si chiamava Claire ed era stata scelta perché «seduttiva». Nello specifico, il suo talento assumeva la forma di lunghi e ingenui monologhi confidenziali, rivolti alla telecamera e di conseguenza ai telespettatori. A Claire piaceva entrare in un rapporto «personale e diretto» con il suo lavoro. Non si era mai cimentata con l'arte, ma trovava che l'aiutasse parecchio a risolvere certi problemi di coppia.

Il primo giorno delle riprese mi domandò se avevo una relazione in corso. Dissi di no.

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