Copertina
Autore Jeffrey Moussaieff Masson
Titolo I cani non mentono sull'amore
EdizioneCairo, Milano, 2010, Saggi , pag. 337, cop.fle., dim. 15x21x2,4 cm , Isbn 978-88-6052-276-4
OriginaleDogs Never Lie About Love [1997]
TraduttoreLidia Perria
LettoreSara Allodi, 2010
Classe animali domestici , etologia , sensi
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Indice


Prefazione. Alla ricerca delle emozioni                      11
            e dei sentimenti nei cani


 1. Riconoscere le emozioni nei cani                         27

 2. Per quale motivo amiamo teneramente i cani               53

 3. L'emozione principe nei cani: l'amore                    72

 4. Lealtà ed eroismo fra i cani                             86

 5. I cani fiutano ciò che noi non possiamo vedere          102

 6. Sottomissione, dominanza e gratitudine nei cani         111

 7. La grande paura dei cani: solitudine e abbandono        124

 8. La compassione, essenza della vita interiore del cane   131

 9. Dignità, umiliazione e delusione nella vita dei cani    140

10. Che cosa sognano i cani?                                153

11. Natura contro educazione: cani che giocano e lavorano   161

12. Cani e gatti                                            178

13. Lupi e cani                                             187

14. L'aggressività nei cani: reale o simulata?              202

15. Restare soli: la malinconia nei cani                    223

16. Pensare da cani                                         240

Conclusioni. Alla ricerca dell'anima del cane               258


Note                                                        267
Bibliografia                                                302
Ringraziamenti                                              333


 

 

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Pagina 11

PREFAZIONE
Alla ricerca delle emozioni
e dei sentimenti nei cani



«Non è possibile mettere in dubbio che nel cane l'affetto per l'uomo sia diventato istintivo.» Sono parole tratte dall'opera L'origine delle specie, di Charles Darwin, pubblicata nel 1859. L'autore aggiunge: «I lupi, gli sciacalli, le volpi e le diverse specie di felini, anche se addomesticati, hanno sempre una spiccata tendenza ad attaccare volatili, pecore e suini, tendenza che si manifesta incorreggibile nei cani che sono stati portati, quando erano ancora cuccioli, da paesi come l'Australia e la Terra del Fuoco, dove i selvaggi non tengono questi animali domestici. Quanto è raro, invece, che si debba insegnare ai nostri cani, anche giovanissimi, a non attaccare il pollame, le pecore e i porci!».

In questo passo Darwin sembra utilizzare un argomento che solo di recente è diventato di moda, e cioè che le emozioni degli animali svolgono una funzione importante in senso evolutivo; anzi, è possibile persino che l'evoluzione stessa sia fondata sulle emozioni, dal momento che secondo Darwin è stato «l'affetto per l'uomo» a produrre il cambiamento negli istinti dei cani addomesticati.

L'amore istintivo che riesce a superare la barriera delle specie è un fenomeno degno di nota, che noi umani sperimentiamo di continuo, visto che amiamo cani, gatti, cavalli e molti altri animali. E tuttavia, benché molti scienziati siano più che disposti ad ammettere di amare gli animali che costituiscono l'oggetto del loro studio, pochi sono pronti a riconoscere che anche gli animali oggetto del loro studio ricambiano questo amore.

Nel caso dei cani, le reazioni emotive sono simili alle nostre a tal punto che siamo tentati di presupporne l'identità; la gioia di un cane sembra identica alla gioia umana, così come la sofferenza di un cane appare uguale a quella che proviamo noi. Eppure non potremo mai sostenere di sapere esattamente che cosa sente un cane. La gioia e la sofferenza dei cani sono una gioia e una sofferenza canine, e le loro differenze rispetto alle emozioni umane possono esprimersi in sfumature troppo leggere perché sia possibile riconoscerle o esprimerle. Anche se, come ritengo, sarà possibile avvicinarsi molto alla comprensione della vita interiore dei cani, non potremo mai entrare nel loro mondo e sentire esattamente quello che sentono. Resterà pur sempre qualcosa di elusivo, che ci impedirà di penetrare nella loro psiche così come possiamo immaginare di penetrare nella mente di un altro essere umano.

L'evoluzionista inglese Louis Robinson, nel suo libro del 1897 Wild Traits in Tame Animals, formulò una definizione affascinante e lungimirante del terreno emotivo comune agli uomini e ai cani:

Si è detto che l'uomo appare un dio agli occhi del suo cane; ma se ci si sofferma a riflettere sul fatto che la nostra concezione della divinità ci induce a formulare il concetto di un uomo enormemente potente e onnisciente, che ama, odia, desidera, premia e castiga in modo simile al nostro, non è necessario un grande sforzo di immaginazione per intuire che dal punto di vista del cane il padrone è un cane più grande del normale e straordinariamente sapiente, diverso senza dubbio nella forma e nei modi dalla media dei cani, purtuttavia canino nella sua natura essenziale.


In Quando gli elefanti piangono, il libro che ho scritto in collaborazione con Susan McCarthy sui sentimenti e sulle emozioni negli animali selvatici, non ho voluto dedicare una trattazione approfondita agli animali domestici perché ritenevo che cani, gatti, e persino pappagalli, fossero in qualche modo «contaminati» dalla loro vicinanza agli esseri umani. Pensavo che avrei scoperto qualcosa di più sulle emozioni allo stato puro se mi fossi limitato a esaminare gli animali che avevano scarsi contatti con le creature umane, o addirittura non ne avevano affatto. In realtà, però, la mia convinzione che gli animali conducano una vita interiore complessa, ricca di sentimenti profondi, derivava in origine dalle mie esperienze con i cani.

Quello che ho sempre amato nei cani è l'immediatezza e l'intensità con la quale esprimono le loro emozioni. Ogni volta che dicevo alla mia cocker spaniel Taffy, il primo cane della mia vita, che saremmo usciti a fare una passeggiata, lei esplodeva in una danza di festeggiamento che si concludeva con una corsa frenetica tutt'intorno alla stanza, sempre in senso orario e a velocità sempre più alta, come se la sua gioia fosse incontenibile. Pur essendo ancora un ragazzo, sapevo già che nessun'altra creatura avrebbe potuto esprimere la sua gioia con la stessa intensità di un cane. Viceversa, quando dovevo dire a Taffy che non poteva venire con me, e pronunciavo la parola «no», lei si mostrava addolorata in modo quasi intollerabile; è difficile che un altro animale possa assumere un'espressione così profondamente delusa come un cane al quale si dice «no».

Forse non si dovrebbe mai usare la parola «no» con un cane, perché è letteralmente devastante; non che si tratti di un concetto sconosciuto ai cani, ma, appena sentono quel suono terrificante uscire dalle labbra dei loro amici adorati, entrano in una sorta di cupa tristezza dalla quale sembra non riusciranno più a risollevarsi. Naturalmente bastano pochi minuti perché si riprendano, e questo è un altro aspetto che amo nei cani: sebbene vivano un'emozione in tutto il suo potenziale, una volta che è finita, è finita, e sono pronti per una nuova esperienza. Evidentemente non sprecano il loro tempo a rimuginare sul passato o ad aspettare con ansia un futuro temuto, ma vivono sempre immersi nel presente.

Benché nel corso della mia vita abbia avuto numerosi cani, quando cominciai a elaborare il progetto di questo libro non ne avevo uno. Ne sentivo la mancanza e forse, in realtà, il libro era solo un pretesto per avere di nuovo dei cani, così pensai di acquistarne tre. Perché proprio tre? Era chiaro che uno solo era troppo poco, mentre quattro erano troppi; una coppia mi sembrava banale, ma tre, ah, con me alla testa, era l'inizio di un branco, e un branco era interessante.

Volevo almeno un cane di razza pura, preferibilmente un esemplare adulto che avesse già ricevuto un addestramento iniziale. Ero in contatto con Mike del Ross, uno degli addestratori del «Centro cani guida per ciechi» di San Rafael, un sobborgo a una quarantina di minuti dal centro di San Francisco, e lui mi suggerì di fare richiesta per un cane destinato a cambiare carriera, ossia un cane guida che non era stato ritenuto adatto a lavorare con i ciechi. Cominciai così a far visita allo splendido Centro di San Rafael, in attesa che si presentasse il cane ideale.

Ma qual era il cane ideale? Scegliere un cane è un po' come andare a un «appuntamento al buio», perché in realtà non sappiamo che tipo di persona ci troveremo davanti; tuttavia, mentre è raro che accada di sposare la persona incontrata solo per un'ora a cena, ci si aspettava che io, dopo una breve conoscenza con un cane, stabilissi con lui un rapporto destinato a durare tutta la vita. Nel Centro di San Rafael si addestrano cani di tre razze: golden retriever, labrador retriever e pastori tedeschi. Mi mostrarono due labrador, entrambi maschi, di taglia molto grande e pieni di energia, che mi piacquero subito. Poi mi mostrarono anche una femmina di pastore tedesco, piccola, delicata ma molto sensibile; mi piaceva anche lei. Chiesi consiglio a Mike, e lui mi suggerì di prendere la femmina di pastore tedesco, proprio perché era così docile. Allora chiesi di conoscere la sua storia.

Si chiamava Sasha ed era un animale snello (poco meno di trentadue chili), a pelo corto, con le orecchie enormi, la coda molto lunga e gli occhi tristi. Quando l'ho conosciuta aveva quasi due anni. Come tutti i cani guida, a circa otto settimane di età era stata affidata a una famiglia dotata dei requisiti ideali (ossia composta da persone che vivono in ambienti rurali, per lo più fattorie o ranch, e sono disposte ad accogliere i cani come genitori adottivi), dalla quale era stata allevata fino a raggiungere un'età di poco superiore a un anno. A quel punto era tornata al Centro per cominciare l'addestramento; circa sei mesi dopo, era stata sottoposta a un primo test, riportando un punteggio di tre, che rientra nella media. Mostrava un appetito che viene definito «capriccioso», vale a dire che nel canile mangiava pochissimo. Inoltre, secondo gli addestratori, era «un po' troppo tenera» per diventare un cane guida. Non ho mai accertato con precisione quale fosse il significato di questa espressione, ma ho dato per scontato che fosse considerata un cane troppo mite, dalla grinta insufficiente. In ogni modo continuò l'addestramento, anzi, lo portò a termine, perché era uno splendido cane e tutti l'amavano.

Andai a prendere Sasha un mercoledì, verso la fine dell'estate del 1995, e così ebbe inizio la sua nuova carriera: da cane guida, divenne cane musa. Con me non aveva bisogno di lavorare per vivere; tutto ciò che le chiedevo era di provare emozioni.

Una settimana dopo la portai con me alla «Società per la prevenzione della crudeltà contro gli animali» di Oakland, per scegliere un secondo cane. Volevo un meticcio, un incrocio con un labrador, perché questi cani sono molto affettuosi, tranquilli ma al tempo stesso pieni di energia. Decisi di portare Sasha con me per lasciare a lei la scelta, e Sasha si mostrò subito attratta da un cucciolo di sesso femminile che aveva dodici settimane, un labrador giallo, probabilmente un incrocio fra un pit bull terrier e un rhodesian ridgeback, ed era vivace, affettuoso e molto socievole. Quando passammo davanti alle gabbie che contenevano gatti e gattini, lei non abbaiò e non si slanciò contro di loro, ma si limitò a guardarli con benevola curiosità. Fu soprattutto quel tratto del suo carattere a piacermi, visto che prevedevo di prendere in casa anche due gattini. Volevo che i cuccioli e i gatti crescessero insieme, perché l'amicizia fra specie animali diverse ha sempre esercitato un grande fascino su di me. L'avevano chiamata Rajah, che in lingua hindi significa «re». Volendo correggere l'errore di genere, ma conservare il suono di quel nome, la chiamai Rat ki Rani, ovvero «regina della notte», che in hindi significa gelsomino notturno, perché oltre a un carattere dolce ha anche un odore molto delicato. Quando la portai in casa, diede subito l'impressione di essere felice e a suo agio; si sentiva in famiglia. Sasha invece è più simile a noi, esitante, più lenta. La sua vita emozionale è sempre apparsa più complessa.

Qualche settimana dopo, tornando a Oakland, vidi in una gabbia un cuccioletto con una zampa ingessata. Anche stavolta si trattava di una femmina, frutto di un incrocio fra un golden retriever e un pastore delle Shetland. Mi avvertirono che, nonostante del tutto innocente, aveva il vizio di mordere. Era evidente che il suo precedente «proprietario» le aveva sferrato un calcio, fratturandole la zampa. Per questo motivo la Società aveva intenzione di sopprimerla, ma io non potevo sopportare l'idea e chiesi l'autorizzazione a portarla a casa per una settimana, in modo da vedere come reagiva agli altri cani. In effetti dimostrò di andare d'accordo con loro, e la chiamai Sima.

Mentre ero nella sede della Società, chiesi di vedere dei gattini. «Oh, abbiamo proprio quello che fa per lei», mi dissero, mostrandomi subito due fratellini dal manto tigrato color arancio, di appena sette settimane, trovati abbandonati in un parcheggio. Erano stati allevati da un membro del personale volontario in una casa adottiva, insieme con alcuni cani, e ora non avevano alcuna paura di loro. Questo si rivelò del tutto vero quando riunimmo in un grande locale tutti e cinque gli animali, tre cani e due gattini. Era cosa fatta. Ho chiamato i gattini Raj («re» in hindi) e Sanjaya (o Saj, per brevità). Quando ero docente di sanscrito all'università di Toronto, avevo letto insieme con gli studenti il testo in sanscrito del Bhagavadgita, in cui Sanjaya, che significa «vittoria», è il cocchiere del re.

Sulle prime nutrivo delle apprensioni al pensiero di presentare a mia moglie Leila (all'epoca la mia fidanzata) tutti quegli animali, visto che lei non aveva mai vissuto con animali nei suoi primi anni di vita a Berlino; ma non avrei dovuto preoccuparmi. Leila, che fa la pediatra, è amata da tutti, dai piccoli pazienti ai loro genitori, alle infermiere, agli altri medici, perché è come la luce del sole, calda e luminosa, e fa sembrare tutto leggero. La sua gioia è contagiosa, o almeno lo è per i cani; l'adorano, e lei li ricambia.

La casa dove Leila e io viviamo insieme ai cani sorge di fronte al dipartimento di polizia del centro di Berkeley, in California; è una casetta a due piani in stile vittoriano, che ha esattamente un secolo di vita, con un grande giardino lussureggiante che si affaccia sul retro su University Avenue. In casa ho quasi diecimila libri, quindi lo spazio è molto limitato. I cani si muovono liberamente per la casa, ma di notte dormono nel mio studio, in casette prive di porta. Vanno a dormire alla stessa ora in cui mi addormento io, verso le undici di sera, e si svegliano insieme a me prima delle sei del mattino. Ogni mattina li porto a Berkeley Marina, sulla baia, a cinque minuti d'auto dalla mia casa.


La mia formazione di psicoanalista presso lo Psychoanalytic Institute di Toronto mi ha preparato al lavoro che avrei svolto in seguito agli Archivi Freud, ma ha anche alimentato la mia insaziabile curiosità per le esperienze emotive degli altri, non solo degli esseri umani, ma anche delle altre creature. Si sa così poco della vita interiore di una persona; per anni per esempio gli analisti hanno sostenuto che le donne che riferivano episodi di abusi subiti durante l'infanzia non ricordavano avvenimenti reali, ma lavoravano di fantasia. Ora sappiamo che si sbagliavano. Se eravamo così male informati sulle esperienze dei nostri simili più vicini a noi, quali misteri potevano annidarsi ancora, indisturbati, nei sentimenti e nelle emozioni degli animali?


In questo libro intendo compiere un tentativo di penetrare nella mente e, ancora più importante, nel cuore del cane. Oltre a esplorare gli enigmi insoluti che riguardano i cani, come per esempio il contenuto dei loro sogni, volevo rispondere a domande che non erano ancora state formulate: per esempio, i cani sono in grado di provare gratitudine o compassione? Spesso gli scienziati sostengono che qualunque tesi non si possa dimostrare utilizzando i metodi scientifici consueti costituisce un problema che non si dovrebbe neanche sollevare. Eppure è solo ponendoci tali interrogativi, anche se per ora non siamo in grado di trovare le risposte, che possiamo immaginare in quale direzione orientare le ricerche. Questo infatti è un modo per stimolare l'immaginazione, esercizio che torna sempre utile. Ciò che scriverò sarà in parte fondato sull'osservazione, ma in parte anche su congetture. Del resto, non accade spesso che le ipotesi di ieri diventino la realtà di oggi?

Mi rendo conto che la maggior parte delle «prove» che ho addotto a sostegno della realtà delle emozioni dei cani sono costituite da storie, vale a dire da quelle che gli scienziati definiscono con sufficienza «prove aneddotiche». Con il loro limitato senso della validità dei criteri, la maggior parte degli scienziati vuole poter sottoporre a prove, sondare e replicare i risultati, e nel caso di un aneddoto questo è impossibile. Gli scienziati sembrano convinti che, mentre un racconto può essere vero o falso, ciò che avviene più di una volta in un laboratorio dev'essere necessariamente vero. Tuttavia non è detto che sia così: i dati si possono falsificare, inventare o manipolare con la stessa facilità di un aneddoto, e ciò che apprendiamo da alcuni esperimenti di laboratorio, come quelli condotti da Martin Seligman e altri, non ci dicono nulla che non avremmo potuto sapere anche senza quegli esperimenti. Seligman ha dimostrato che un cane può diventare nevrotico quando nulla di ciò che fa può impedirgli di ricevere una scossa. E questo rappresenterebbe un progresso nella conoscenza scientifica? Pavlov ha dimostrato che è possibile far impazzire un cane. Forse qualcuno ne aveva mai dubitato realmente? E non vedo neppure per quale motivo uno scienziato che lavora in laboratorio debba essere un osservatore più attendibile di chiunque altro.

Non esiste una strada maestra che ci conduca direttamente alle emozioni intime degli altri esseri umani; spesso neanche loro sanno che cosa provano, e comunque non sempre sono in grado di esprimere i loro sentimenti senza difficoltà. Dal momento che non possiamo sapere con certezza che cosa prova un'altra persona, tutto ciò che possiamo dire sul suo mondo interiore è, in un certo senso, un insieme di pure e semplici ipotesi; d'altra parte, tali ipotesi possono rivelarsi congetture attendibili. Noi tentiamo di immaginare che cosa proveremmo in una situazione simile, oppure osserviamo lo sguardo e notiamo i movimenti corporei dell'altro; lo sentiamo lasciarsi sfuggire un sospiro, o vediamo una nube passare sul suo volto. Questi indizi rivelatori delle emozioni di un'altra persona non sono prove nel senso scientifico del termine, ma sono indizi abbastanza indicativi di uno stato emozionale da farci sentire sicuri delle conclusioni raggiunte. Per quale motivo non dovremmo sentirci autorizzati a formulare delle ipotesi analoghe nei confronti dei cani? Ne osserviamo gli occhi, le orecchie e la coda, ne ascoltiamo i richiami e indaghiamo in noi stessi, ricorrendo a doti come l'empatia e l'immaginazione. Il risultato che otterremo nei confronti di un cane non potrà essere viziato da elementi soggettivi più di quanto lo sia per qualsiasi essere umano.

Senza dubbio è vero che quando è possibile osservare più volte un fenomeno già visto e riferito da molti altri, anche per iscritto, si tende a riporre maggiore fiducia nella sua veridicità. Tuttavia alcuni fatti che mi interessano, come l'amicizia fra i cani e le altre specie di animali, per esempio, non sono mai stati studiati in laboratorio. Inoltre dobbiamo ricordare che i laboratori esistono relativamente da poco tempo, ed è davvero assurdo sostenere che non può essere vero un fenomeno che non è mai stato osservato prima dell'istituzione dei laboratori. Naturalmente sarei ben felice di avere una raccolta di cinquecento esempi di amicizia fra cani e leoni, ma dal momento che non se ne registrano tanti, ho dovuto accontentarmi dell'unico che riferisco in questo libro. D'altra parte, molte persone mi hanno raccontato che i loro cani fanno spesso amicizia con i conigli. Questi resoconti sarebbero necessariamente falsi solo perché non sono stati verificati in laboratorio? Dunque dobbiamo ignorare queste storie? Forse non potranno essere accettate alla stessa stregua di una formula matematica, ma non dovrebbero neppure essere liquidate come semplici illusioni di ingenui sentimentali.

L'intelligenza dei cani è un argomento che non tratterò, perché se n'è già discusso a sufficienza. In effetti non sono neppure tanto interessato all'argomento dell'intelligenza, che si tratti di cani o di umani. La sola idea di «sottoporre a test» l'intelligenza di qualcuno mi appare repellente. Che cosa vorrebbe dire? Intelligente per che cosa? Per la musica? L'arte? La ricerca scientifica? La cucina? La marcia veloce? Il pedinamento? Lo spagnolo? La fabbricazione delle bambole? La maggior parte di noi è abile in un settore e molto meno abile in tutta una serie di altre attività. Probabilmente è prudente presumere che Einstein sia stato più intelligente della maggioranza dei lettori di questo libro, ma questi ultimi potrebbero giustamente obiettare che forse era più intelligente nel comprendere le leggi della fisica o della matematica, ma lo era molto meno nell'arte di orientarsi da Milano a Roma, o di costruire una capanna di tronchi, o di aiutare una figlia a farsi delle amicizie in una città sconosciuta.

Se misurare l'intelligenza di una persona non ci ha mai rivelato granché sul suo autentico valore, mettere a confronto l'intelligenza di una specie con quella di un'altra è un'attività del tutto priva di significato. Si sa che alcuni gatti sono capaci di aprire le maniglie delle porte, mentre altri stanno a guardare senza mai riuscire a capire come si fa. Questi altri gatti, hanno affermato gli scienziati, sono meno intelligenti; eppure lo sono quanto basta per restare nei paraggi in attesa che arrivi un gatto capace di aprire la porta. Se misuriamo l'intelligenza in base all'adattabilità, l'incapacità di aprire le porte depone a sfavore del cane. D'altra parte, i cani aspettano con pazienza che siamo noi ad aprire la porta e non vanno mai in collera quando non assecondiamo i loro desideri. Conosco esseri umani che, trovandosi in una situazione simile, sarebbero pronti a scendere sul sentiero di guerra.

Di solito il criterio che viene utilizzato dagli scienziati per misurare l'intelligenza è il «pensiero astratto», ma questo è solo un particolare tipo di abilità. Alcune persone sono molto più versate di altre nel campo della matematica, ma queste altre a loro volta possono essere più abili a modellare vasi, scalare alberi o decifrare manoscritti in antico tedesco. Ogni specie, a quanto pare, ha certe capacità peculiari, che si rilevano quando siamo disposti a osservare la specie in sé, senza fare confronti con l'intelligenza o l'abilità degli esseri umani. Come ha affermato il naturalista J.E.R. Staddon: «Le api sono in grado di vedere i raggi ultravioletti e i pipistrelli di udire gli ultrasuoni; ma sono capacità che non abbiamo davvero scoperto chiedendoci se i pipistrelli e le api sono in grado di scimmiottare le attività umane».

Il possesso di doti eccezionali non comporta necessariamente la possibilità di provare emozioni straordinarie. Una mattina di buon'ora, quando Sasha era con me solo da qualche settimana, andai in palestra. Mentre ero fuori, un ispettore edilizio entrò nel mio giardino da un cancello laterale e, dopo aver concluso l'ispezione, lo lasciò aperto. Due ore dopo, uscendo dalla palestra, trovai Sasha lì ad aspettarmi, accovacciata sui gradini dell'ingresso. Anche se abito a pochi isolati di distanza, restai comunque sbalordito. Come aveva fatto Sasha a trovarmi lì, se non era mai stata alla palestra? C'era riuscita grazie all'eccezionale capacità del suo fiuto? Forse per arrivare fino a me aveva seguito la mia traccia. Qualunque fosse il motivo, le sue emozioni in quella circostanza restavano più misteriose della sua capacità; e sono quelle emozioni che desidero conoscere, non la sua abilità cognitiva.

Centoventicinque anni fa, Charles Darwin ci ha preparato il terreno nel campo della ricerca sulle emozioni, scrivendo il libro L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali. Dopo di lui gli studiosi hanno ritenuto opportuno chiudere il sipario su questo argomento, e solo negli ultimi tempi alcuni ricercatori sperimentali hanno cominciato a gettare nuova luce sulla vita emozionale degli animali nel loro ambiente naturale. Con questo libro spero di promuovere un esame molto più attento di quanto sia stato tentato finora delle emozioni avvertite dal nostro migliore amico nel mondo animale, il cane.

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Pagina 111

6
Sottomissione, dominanza
e gratitudine nei cani



I ricercatori che studiano i lupi utilizzano a volte le definizioni lupo alfa (dominante) e omega (all'ultimo posto nella scala dei subordinati), anche se non è del tutto chiaro quale significato abbiano queste parole. Alcuni appassionati di cani ricorrono agli stessi termini per indicare i loro animali: ma queste parole hanno davvero il significato che sembrano avere e significano davvero qualcosa, se applicate ai cani?

Superiore, inferiore, sottomissione, dominanza, gerarchia, sono tutti termini carichi di significati importanti, con connotazioni politiche (per lo più nel senso di politica sessuale). Applicarli al comportamento dei cani è potenzialmente rischioso, in quanto i cani non sono soldati dell'esercito, di cui si possono leggere i gradi sull'uniforme.

Può darsi che per noi sia facile comprendere il concetto di posizione gerarchica, ma presupporre che i cani prestino la nostra stessa attenzione ai contrassegni esteriori, come per esempio la taglia, è frutto di una nostra proiezione, più che risultato di osservazioni. Certo, i cani riconoscono l'autorità, ma per motivi diversi e senza le nostre sfumature. Poiché i cani sono, come noi, creature estremamente sociali e socievoli, e poiché compiono atti che crediamo di riconoscere, diamo per scontato che esista un'identità, o almeno una somiglianza, riguardo ai concetti che utilizziamo per spiegare il comportamento, e fra questi concetti rientrano la dominanza e il grado gerarchico.

Se un appassionato di cani mi dice: «Il mio cane è una femmina dominante», usa un termine che ha un significato dal punto di vista umano, ma molto meno per i cani. In che cosa consiste la dominanza in un cane? Taglia e forza fisica sono senza dubbio elementi rilevanti, se non altro a scopo di intimidazione. La volontà di battersi può essere meno importante, in quanto accresce la possibilità di lesioni. L'età, combinata con l'astuzia e l'intelligenza, contribuisce alla dominanza, perché porta con sé una certa maturità, e forse anche la saggezza svolge un ruolo importante (come nel caso degli elefanti anziani che sanno dove si trovano le pozze d'acqua nei periodi di siccità). Eppure spesso accade che un cucciolo riesca a far emergere l'animale giovane che si nasconde in un cane anziano.

Sima, essendo l'elemento più giovane del nostro piccolo branco, mostra qualcosa che etichettiamo o pensiamo di riconoscere come sottomissione. In effetti, sottomettersi le piace; quando incontra certi cani, incomincia un balletto in cui lecca loro il muso, squittisce, distoglie lo sguardo, e infine si stende umilmente con la pancia all'aria, compiendo cioè tutti gli atti classici di quella che è stata definita «sottomissione attiva». Dopodiché conclude l'approccio con la cosiddetta «sottomissione passiva», un atteggiamento che è stato definito «pieno di fiducia, devozione e impotenza ostentata».

Questo è il comportamento che la maggioranza degli umani definisce carino e che ho già descritto come neotenia, ossia comportamento da bambino piccolo. La sottomissione è un modo di sbandierare la propria infantilità, o non aggressività; Rudolf Schenkel, uno dei primi esperti tedeschi di lupi, la definisce «un'offerta irresistibile di affettuosa amicizia». Assumendo un atteggiamento supplichevole, l'animale sottomesso si aspetta di essere accettato o almeno tollerato; questi atti di sottomissione sono offerte di pace, che somigliano un po' alla nostra stretta di mano. «Comportamento da cucciolo simbolizzato e ritualizzato», è la definizione che ne dà Schenkel. Forse il piccolo di lupo o il cucciolo ricorda all'altro cane il tempo in cui era piccolo anche lui, o forse fa appello ai suoi istinti materni o paterni. Un cane dominante respinge di rado una simile offerta di sottomissione.

A volte non riconosciamo neppure questi segni di sottomissione, perché ci aspettiamo qualcosa che ricordi più da vicino la nostra concezione di questo atteggiamento. Rani, per esempio, è l'incarnazione dell'amicizia; non vive che per le relazioni amichevoli e, stranamente, di tutti i miei cani è l'unica a esibire un comportamento che è stato osservato da molti proprietari di cani e può essere considerato un segno di sottomissione perché riduce il rischio di attacco da parte dei suoi simili. Ogni volta che incontra una sostanza dall'odore nauseabondo, ci si rotola sopra con evidente esultanza; poi si affretta a tornare tutta fiera dalle altre due per mostrare quello che ha fatto, e loro l'accontentano con una lunga annusata.

Gli esperti mi hanno fornito più di una spiegazione per questo strano comportamento. Michael Fox, una delle massime autorità in materia di cani e canidi affini, è del parere che quando i cani tornano con un odore estraneo addosso attirano su di sé un maggiore interesse sociale da parte di certi membri del branco che altrimenti comincerebbero con l'affermare la loro dominanza in modo aggressivo; in altre parole, Rani cercherebbe semplicemente di rendersi interessante agli occhi delle sue compagne. Pur accettando l'idea che il cane si impegna in questa attività per attirare l'attenzione degli altri componenti del branco, Desmond Morris ritiene che possa trattarsi di un invito alla caccia. Negli esperimenti condotti in laboratorio, però, si è accertato che i cani si rotolano anche su sostanze che non si trovano in natura, come per esempio bucce di limone, profumo, tabacco, spazzatura ormai marcia, e questo indebolisce la teoria del richiamo alla caccia e di qualsiasi tipo di mimetizzazione.

In ogni passeggiata con il vostro cane, assisterete senz'altro a quello che gli scienziati amano definire «orientamento inguinale e presentazione da parte di un subordinato per facilitare l'ispezione dell'area genitale», ossia quella serie di movimenti circolari che i cani adulti compiono finché il subordinato non consente all'altro di indagare sulla sua zona anale e genitale. Avvicinandosi al cane più grande con la parte posteriore abbassata e il dorso arcuato (in modo da apparire il più piccolo e innocuo possibile), il cane più piccolo lascia penzolare la lingua per indicare la sua intenzione di leccare. Dal momento che fissare un altro cane dall'alto è il preludio immancabile a una rissa, i cani distoglieranno lo sguardo per far capire che non hanno la minima intenzione di battersi e si presentano in pace.

Dei miei tre cani, soltanto Sima viene assalita all'improvviso dall'impulso di leccare gli angoli della bocca di Sasha e, se le viene concesso, ficca tutto il muso piccolo e appuntito fra le grandi fauci di Sasha, uggiolando e saltellando di gioia. Sasha è molto paziente, anche se non ha alcuna intenzione di fare quello che il rituale intende sollecitare, ossia rigurgitare il cibo. Questo infatti è il modo in cui i piccoli di lupo stimolano la madre a fornire loro il cibo dopo la caccia; la lupa torna sazia alla tana e rigurgita il cibo per i piccoli. I cani in realtà non rigurgitano a beneficio dei cuccioli, perciò quando Sima compie questo rituale dei salti e della supplica si tratta di ciò che viene definito «gesto sociale filogeneticamente emancipato e ritualizzato», come la stretta di mano, per intenderci, destinata a dimostrare che non si nascondono armi. Che io sappia, la razza del cane da caccia del Capo è l'unica che ancora solleciti il rigurgito e lo pratichi fino all'età adulta; tuttavia per questi cani, anziché un modo per stabilire la gerarchia, è un sistema per mantenere la coesione sociale mediante il reciproco aiuto e sostegno.

I cani hanno molti modi per manifestare il loro intento di fare amicizia, come evitare il contatto degli sguardi, distogliere gli occhi e leccarsi le labbra, indicando così che non hanno intenzioni ostili e vogliono soltanto leccare l'altro cane. Quasi tutte le parti del corpo trasmettono un messaggio, specie la coda e le orecchie. La coda, lo sappiamo tutti, è uno strumento espressivo fine e straordinariamente duttile, ma quando ho formato la mia attuale famiglia canina non ero preparato alla complessità del linguaggio delle orecchie del cane. L'espressività delle orecchie di Sasha è uno spettacolo degno di nota: con le orecchie, riesce a comunicare almeno quanto facciamo noi con le parole. Sasha ha un modo tutto suo di avvicinarsi ai bambini piccoli per coglierli di sorpresa con una leccatina sulle labbra; in quei momenti, tiene le orecchie abbassate e ripiegate all'indietro con l'espressione più accattivante del suo repertorio, per far capire a tutti che è l'incarnazione dei sentimenti amichevoli e della gentilezza. I suoi occhi assumono allora un inconfondibile scintillio di straordinaria cordialità. Ancora non riesco a capire in che modo possa esprimere emozioni così profonde con gli occhi e le orecchie, eppure ci riesce, e tutti le riconoscono al volo.

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Natura contro educazione:
cani che giocano e lavorano



Resto sempre affascinato dall'espressione «la natura del cane», così come viene usata in vari contesti, tutti diversi fra loro: «Cacciare è nella natura del cane» oppure: «Vuoi andare contro la natura stessa del cane» o ancora: «Il cane non può farci niente, è nella sua natura». Mi domando con quanta attenzione si rifletta su frasi del genere. Come possiamo sapere quale sia veramente la natura del cane? Si tratta di un semplice prodotto genetico, un esempio elementare di ingegneria biologica in una creatura vivente? Chi la pensa così agisce come se il cane fosse un computer. Mi vien fatto di pensare all'idea di Cartesio del cane-robot, simile a una machina animata; il filosofo giustificava le sue crudeli vivisezioni con il pretesto che i cani erano privi di sensibilità al dolore.

D'altra parte non si può negare del tutto l'esistenza di una componente genetica nel comportamento di un cane. Sasha mi è sempre sembrata così mite che mi chiedevo spesso a cosa mi servisse il guinzaglio con lei. Non si lanciava mai all'inseguimento a meno che non le ordinassi di farlo, o almeno così credevo.

Un giorno andai a correre insieme con i miei tre cani e un amico, e tutto andò bene finché non comparve un cervo. La reazione di Sasha fu istantanea e intensa: cominciò a tremare e a gemere, con tutti i muscoli del corpo che fremevano e si tendevano. «No!» le ordinai. Lei mi guardò come per dirmi: «Cosa? Non dirai sul serio? Ma dai, papà! Questo è il primo cervo che vedo in vita mia!». Ed era proprio così; per quanto ne so, Sasha non aveva mai visto un cervo prima di allora. Comunque non cedetti: «Resta con me», le dissi in tono severo.

Sasha, però, era in preda a un'eccitazione insostenibile e di colpo, come un ramo che si spezza, schizzò sulla sinistra in un giardino, partì a velocità iperbolica e scomparve. Non servì a nulla richiamarla o fischiare. Tutto era tranquillo; non si sentiva volare una mosca. Poi, in lontananza, udii un abbaiare di cani. Poteva essere lei la causa di quel trambusto così distante? Ero disperato. Restai lì per una decina di minuti, cercando di decidere cosa fare. La moglie del mio amico, che ci aveva appena raggiunti ed è dotata di un udito particolarmente fine, mi invitò a restare immobile. «Ascolta», mi disse «si sente il tintinnio delle medagliette dei cani.» E tutt'a un tratto, dopo aver attraversato il sottobosco con un fruscio scrosciante, Sasha ricomparve.

Che cosa ho imparato da questo episodio? Mike, del «Centro cani guida per ciechi», mi ha detto con fermezza: «Non la lasci mai senza guinzaglio finché non avrà la certezza che sia addestrata a tornare al comando». Ma come potevo sopportarlo? E in che modo potevo correggerla al suo ritorno? Non avrebbe capito quello che dicevo, e avrebbe associato l'idea del ritorno con la punizione. Come si può giustificare, e prima ancora realizzare, la pretesa di correggere la natura di un cane?

Noi crediamo di conoscere la natura dei cani e siamo convinti di poterne prevedere il comportamento. O almeno, io ne ero sicuro, finché non sono andato a trovare un amico che vive con la sua compagna a nord di Berkeley, insieme a quattro capre nane alpine e lamancha. Quando arrivammo in compagnia di Sasha, Sima e Rani, i nostri amici mi parvero un po' preoccupati.

«Quasi tutte le capre che muoiono in giovane età sono vittime dei cani», mi dissero in tono cupo.

Li rassicurai. «Questi cani sono del tutto docili e innocui. Comunque, tanto per sicurezza, li terrò al guinzaglio.»

E fu un bene, perché nell'istante in cui videro e fiutarono le capre cominciarono tutt'e tre a dare strattoni al guinzaglio. Sembrava che volessero semplicemente leccare le capre, ma i suoni che emettevano (lo stesso uggiolio lanciato da Sasha alla vista dei gattini e del coniglio) erano così intensi, la loro eccitazione così visibile e la tensione che imprimevano al guinzaglio così potente che ci volle tutta la mia forza per trattenerli. Le capre erano curiose e la loro assoluta mancanza di paura era incantevole, ma non potevamo rischiare di concedere la libertà ai cani. Che cosa avrei fatto, se uno di loro avesse azzannato una delle giovani capre e l'avesse ferita? Per quanto tentassi di tenere a freno Sima, Sasha e Rani e di farle stare calme, era evidente che non rispondevano ai tentativi di controllarle, come se fossero in preda a una forza più potente di loro. Non so se si fosse ridestato in loro un atavico istinto di caccia, o il ricordo genetico dei rapporti predatore/preda, ma era impossibile dominarle. Intuivo che nel giro di un attimo quei cani che conoscevo bene quanto me stesso potevano trasformarsi in altrettante creature misteriose, esseri del tutto diversi, nei confronti dei quali ero e sarei rimasto sempre profondamente ignorante.

Se noi siamo i «genitori» di un cane, quali sono le nostre responsabilità di insegnanti? Fino a che punto dovremmo sforzarci di inserirlo nel mondo umano, e in quale misura possiamo permettere al cane di restare tale? Per alcuni di coloro che possiedono cani (possedere è usato qui in senso tecnico), l'addestramento è la ragion d'essere del loro rapporto con l'animale. Ci sono invece altri (gli stessi che rabbrividiscono alle implicazioni del termine «possedere») che sono convinti altrettanto fortemente del contrario, e cioè che addestrare un cane significa usare violenza alla sua natura. Nessuna delle due posizioni, per la verità, mi pare del tutto corretta. Un cane non è un lupo; i cani non sono animali selvatici e devono adattarsi in una certa misura alla società, altrimenti la loro vita si concluderà in tragedia. Basta pensare ai cani che restano liberi e uccidono capi di bestiame o pollame. Anche se non ha istinti predatori, un cane del tutto privo di addestramento può slanciarsi in mezzo alla strada senza che riusciate a richiamarlo per salvarlo da un investimento in mezzo al traffico. Di solito i cani che si aggirano in piena libertà hanno vita breve; per lo più finiscono vittime di incidenti automobilistici. D'altra parte, un cane che non può mai esprimere la sua natura, ma deve sempre obbedire e mostrare agli umani la propria docilità ai desideri del padrone, vive solo a metà. Dunque mi riusciva difficile trovare l'equilibrio perfetto: individuare la dose di addestramento necessaria per fare dei miei cani dei buoni cittadini, o almeno accettabili, e stabilire di quanta libertà avessero bisogno per essere felici.

In realtà i cani da lavoro spesso sono molto felici. Chiunque li abbia visti partecipare alle prove di obbedienza si forma l'impressione (difficile da dimostrare, per la verità) che siano estremamente competitivi e si divertano un mondo. Lasciati a se stessi, i cani si impegnano in rivalità scherzose. Ogni volta che Sima vede Rani raccogliere un bastoncino, parte alla carica tentando di strapparglielo di bocca, e lo stesso fa Rani quando è Sima a trovarlo. Corrono affiancate per tutto il parco, tenendo il bastoncino da entrambe le parti, con grande divertimento dei passanti. Eppure Sasha non era contenta di fare il cane guida: questo fa certamente parte di ciò che intendevano dire gli istruttori quando mi hanno spiegato che era «troppo tenera» per il programma di cane guida. La sua vera personalità è venuta alla luce soltanto poco alla volta, quasi che avesse bisogno di dimenticare le lezioni che aveva appreso come cane guida. Dico «vera» perché, man mano che Sasha acquista fiducia in se stessa, sembra più giocosa, più felice e spensierata; in poche parole, si comporta in modo più simile a quello che ritengo sia il comportamento di un cane quando deve soddisfare solo se stesso o un buon compagno. I cani hanno una personalità individuale come gli esseri umani, e quello che va bene per uno può essere del tutto sbagliato per un altro. Il fatto che Sasha sia più felice, ora che non fa il cane guida, non significa che un altro cane non sia eccitato al pensiero di rendersi tanto utile. Io sono stato un pessimo psicoterapeuta, mentre alcuni miei amici sembravano nati per quella professione.

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Restare soli: la malinconia nei cani



Sono certo di non essere il solo a vivere un'esperienza tanto sconcertante quanto ricorrente. Cammino con i miei tre cani lungo la strada: io sono nel mezzo, mentre Sima e Rani mi precedono e Sasha mi segue. Mi volto per cercare con gli occhi Sasha: non c'è. Sulla sinistra vedo un vialetto che conduce a un cortile, proprio quel tipo di vialetto sul quale si accovacciano di solito i gatti. Chiamo, chiamo ancora. Sasha non si vede. Comincio a sentirmi in ansia, dato che di solito quando la chiamo torna indietro. Quanto potrà essere lontana, ormai? Immagini terribili mi si affacciano alla mente: è stata investita, oppure si è smarrita e non sa più ritrovare la strada. Sono sempre più preoccupato. Chiamo freneticamente: «Sasha! SASHA! SASHA!». Tutt'a un tratto mi accorgo che tre paia di occhi mi guardano con grande perplessità. Sima, Rani e Sasha mi fissano costernate, come per dire: «Chi diavolo stai chiamando? Siamo tutte qui». E in effetti è vero.

Il problema, per me, è sapere se Sasha è stata sempre lì, e la sua assenza è stata una semplice allucinazione, oppure era davvero scomparsa ed è tornata in silenzio, senza che me ne accorgessi. A me sembra che sia ricomparsa per magia, quasi materializzandosi dal nulla. Se questa esperienza si fosse verificata una volta sola, sarebbe stato più facile minimizzarla, invece si ripete almeno una volta la settimana. Io chiamo e chiamo, e poi vedo che il cane che sto chiamando mi guarda in faccia, fissandomi con intensità. Tutti e tre i cani sembrano un po' in ansia, come se fossero preoccupati di vedermi perdere i contatti con la realtà. Si tratta di un'esperienza sconcertante, per non dire imbarazzante; ormai ho imparato a non chiamare senza aver prima guardato in giro con cura, e magari chiesto la conferma di un testimone.

«Non si vede Rani in giro, vero? Sei d'accordo? Bene, allora la chiamo.»

E voilà, ecco che il cane fantasma ricompare. Questa esperienza mi è capitata solo con l'elemento più grande del mio branco, Sasha, e con il più piccolo, Sima. Posso capire che Sima non si faccia notare, perché è piccola e il colore del suo manto le consente di mimetizzarsi facilmente con il terreno, ma un pastore tedesco adulto non passa certo inosservato.

Un giorno un ricordo d'infanzia mi ha aiutato a gettare luce su questa esperienza. Quando ero piccolo, il mio cocker spaniel Taffy dormiva ogni notte sul mio letto. Come molti bambini, avevo paura dei suoni sconosciuti, specie quelli che sembravano rompere il silenzio di una notte tranquilla, ma imparai ben presto a guardare Taffy, perché, se lei era calma e il rumore non le aveva fatto effetto, capivo che era immaginario. Quando Taffy alzava di scatto la testa, mettendosi all'erta, mi sentivo autorizzato a entrare in allarme, perché sapevo che non era pura immaginazione: lo aveva sentito anche Taffy.

Ora la soluzione al mio enigma attuale appariva evidente: quando uno dei cani spariva, bastava guardare gli altri due. Avevo già notato che quando il nostro piccolo branco era incompleto e uno dei componenti era assente, gli altri due apparivano preoccupati (la gamma di espressioni facciali dei cani comprende la preoccupazione in una sfumatura particolarmente toccante, che in alcuni esemplari sembra impressa sul muso). La settimana scorsa, per esempio, avevo l'impressione che Sasha fosse saltata nel retro della mia station wagon Toyota Camry insieme con le altre due, ma quando ho messo in moto i cani hanno lanciato un uggiolio simultaneo. Mi sono voltato, e tanto Sima quanto Rani stavano guardando dal finestrino con intensità in direzione della povera Sasha, che fissava sconsolata i fanalini di coda della macchina, sempre più lontana. Non era saltata a bordo, dopo tutto, e le altre due non intendevano lasciarmi partire senza la loro amica.

I cani possono essere ansiosi e irritabili, possono sviluppare delle fobie ed essere soggetti ad attacchi di panico, ma non sembra che siano troppo preoccupati della loro salute fisica, o che soffrano di manie di persecuzione a causa dei loro limiti personali. Probabilmente nessun cane ha mai provato una sensazione nichilistica di distruzione cosmica. Se poi i cani abbiano mai sofferto di allucinazioni non è ancora accertato. Il dottor Charles Berger, un veterinario che segue la corsa Iditarod, in Alaska, mi ha parlato delle intense allucinazioni che tormentano i conduttori delle slitte, o mushers, dopo giorni e giorni trascorsi senza dormire. I cani da slitta hanno bisogno di riposo e lo ottengono, quindi probabilmente non raggiungono lo stesso livello di spossatezza. E se invece lo sperimentassero, ho chiesto al dottor Berger, potrebbero soffrire di allucinazioni? «Se solo potessimo chiederlo a loro!» mi ha risposto. In mancanza di una risposta diretta, è difficile saperlo. I cani a volte inseguono nemici (o amici) immaginari, ma non è chiaro se si tratti di un gioco deliberato o di una vera e propria allucinazione.

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