Copertina
Autore Richard Matheson
Titolo Incubo a seimila metri
EdizioneFanucci, Roma, 2004, Collezione Immaginario Dark , pag. 310, cop.fle., dim. 140x220x24 mm , Isbn 978-88-347-0994-8
OriginaleNightmare at 20,000 Feet [2002]
PrefazioneStephen King
TraduttoreMaurizio Nati
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe fantastico , noir , narrativa statunitense
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Indice

Introduzione                           9

Incubo a seimila metri                15
Il vestito di seta bianca             37
Figlio di sangue                      45
Dai canali                            57
Guerra di streghe                     67
La casa impazzita                     77
Eliminazione lenta                   115
La legione dei cospiratori           135
Una chiamata da lontano              149
Paglia umida                         165
La danza dei morti                   175
I figli di Noè                       195
L'uomo dei giorni di festa           217
Il nuovo vicino di casa              225
Grilli                               247
Primo anniversario                   257
La preda                             269

Una voce ai confini della realtà     285
 

 

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Pagina 17

Incubo a seimila metri



«Allacci la cintura, prego» disse la hostess in tono allegro mentre gli passava accanto.

Quasi nello stesso momento si accese li segnale luminoso posto sopra il corridoio che dava sul compartimento anteriore - ALLACCIARE LE CINTURE - e, subito sotto, la raccomandazione abbinata - VIETATO FUMARE. Wilson fece una lunga tirata, poi schiacciò la sigaretta nel posacenere sul bracciolo con movimenti secchi, irritati.

All'esterno uno dei motori tossi orribilmente, sputando fuori una nuvola di fumo che si frammentò nell'aria notturna. La fusoliera cominciò a vibrare e Wilson, che guardava dal finestrino, vide il getto bianco della fiamma di scarico che fuoriusciva dal vano motore. Il secondo motore tossí, poi ruggí, mentre l'elica cominciava subito a girare vorticosamente. Wilson si allacciò la cintura con nervosa sottomissione.

Adesso tutti e due i motori erano partiti e la testa di Wilson vibrava all'unisono con la fusoliera. Sedeva rigido, fissando il sedile davanti a sé, mentre il DC-7 rullava sul piazzale, riscaldando la notte con la raffica assordante degli scarichi.

Giunto sul bordo della pista, l'aereo si fermò. Wilson osservò dal finestrino lo scmtillio imponente del terminal. Nella tarda mattinata dell'indomani, pensò, dopo essersi fatto una bella doccia e avere indossato abiti puliti, se ne sarebbe stato seduto in ufficio, intento a contrattare qualche pretestuoso accordo il cui esito non avrebbe cambiato di una virgola la storia dell'umanità. Era tutto cosi dannatamente...

Wilson boccheggiò quando i motori guadagnarono potenza in attesa del decollo. Il rumore, già forte, divenne assordante... onde sonore che s'infrangevano contro le sue orecchie come colpi di mazza. Aprí la bocca quasi volesse scaricare la tensione. Gli occhi si caricarono di sofferenza, le mani si tesero come artigli pronti a colpire.

Sussultò, contraendo le gambe, quando si sentí toccare sul braccio. Girò la testa di scatto e vide la hostess che lo aveva accolto al portello. Gli stava sorridendo.

«Si sente bene?» gli sembrò di capire.

Wilson strinse le labbra e agitò la mano verso di lei, come se volesse allontanarla. Il sorriso della ragazza divenne fin troppo cordiale, poi si spense mentre lei si allontanava.

L'aereo cominciò a muoversi. All'inizio quasi con apatia, come un gigante che lottasse per scrollarsi di dosso il suo stesso peso. Poi con piú velocità, per combattere la resistenza dell'attrito. Wilson si girò verso il finestrino e vide la pista nera scorrere via sempre piú veloce. Quando discesero i flap, il bordo dell'ala emise un gemito meccanico. Poi, in modo impercettibile, le ruote del gigante persero contatto con il suolo, e la terra cominciò ad allontanarsi. In basso scorsero velocissimi alberi, case e macchine, con le scie argentate dei fari. Il DC-7 virò leggermente verso destra e diresse il muso verso il gelido bagliore delle stelle.

Alla fine si stabilizzò e i motori sembrarono fermarsi fino a quando le orecchie di Wilson si adattarono e percepirono il mormorio della velocità di crociera. Fu un momento di sollievo che gli rilassò i muscoli e gli irradiò una sensazione di benessere. Ma finí subito. Wilson rimase seduto immobile, con gli occhi fissi sul segnale di VIETATO FUMARE fino a quando non si spense; a questo punto si accese subito una sigaretta. Sfilò il giornale dalla tasca posteriore del sedile di fronte a lui.

Come al solito, il mondo si trovava in condizioni simili alle sue. Contrasti nei circoli diplomatici, terremoti e combattimenti, omicidi, stupri, tornado e scontri di ogni tipo, conflitti commerciali, malavita organizzata. Dio se ne sta nel suo paradiso e qui nel mondo va tutto bene, pensò Arthur Jeffrey Wilson.

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Pagina 79

La casa impazzita



Siede alla scrivania. Afferra una lunga matita gialla e comincia a scrivere su un blocco. La punta di grafite si spezza.

Gli angoli delle labbra si piegano verso il basso. Le pupille si restringono nella maschera dura del volto. Con calma, la bocca stretta in un orribile squarcio senza contorni, prende il temperamatite.

Affila la matita e getta il temperamatite di nuovo dentro il cassetto. Ricomincia a scrivere. Mentre lo fa, la punta si spezza ancora e la grafite rotola sulla carta.

Di colpo la sua faccia diventa livida. Una rabbia selvaggia gli artiglia i muscoli del corpo. Urla alla matita, la maledice con un torrente di insulti. La fissa con un odio assoluto. La spezza in due con uno scatto brutale e la scaglia nel cestino con un trionfante: «Ecco! Vediamo un po' se ti piace stare li dentro!»

Siede teso sulla sedia, con gli occhi spalancati, le labbra tremanti. È scosso da un fremito di rabbia incontrollata, che gli spruzza acido nelle viscere.

La matita è nel cestino, spezzata e immobile. È legno, grafite, metallo, gomma; tutto morto, incapace di rendersi conto della furia bruciante che ha scatenato.

Eppure...

Se ne sta tranquillo in piedi, accanto alla finestra, e osserva la strada. Cerca di rilassare il corpo teso. Non sente il fruscio dentro il cestino, che cessa subito.

Ben presto il suo corpo è tornato normale. Si siede. Usa una penna stilografica.


Siede davanti alla macchina per scrivere. Inserisce un foglio di carta e comincia a picchiare sui tasti.

Ha le dita grosse. Colpisce due tasti contemporaneamente. I due martelletti si incastrano. Sono sollevati, si librano impotenti al di sopra del nastro nero.

Allunga la mano, disgustato, e li risistema. I martelletti si separano, rientrano negli alloggiamenti. Ricomincia a scrivere.

Colpisce un tasto sbagliato. Dalle labbra gli cade un cenno d'imprecazione. Abbranca la gomma rotonda e cancella dal foglio di carta la lettera indesiderata.

Lascia cadere la gomma e ricomincia a battere. La carta è scivolata sul rullo. Le ultime frasi scritte si trovano a un livello appena piú alto rispetto al resto. Stringe il pugno, ignora l'imprecisione.

La macchina s'inceppa. Le sue spalle hanno un fremito, picchia un pugno sulla barra spaziatrice urlando una bestemmia. Il carrello salta, il campanello tintinna. Sospinge all'indietro il carrello fino a farlo bloccare rumorosamente.

Batte piú veloce. Tre tasti s'incastrano. Stringe i denti e mugola in una furia impotente. Colpisce i braccetti. Quelli non vogliono liberarsi. Infila le dita ricurve e tremanti e fa forza. I braccetti ricadono. Si accorge di avere le dita macchiate di inchiostro. Impreca ad alta voce, cercando di far violenza all'aria stessa per vendicarsi di quella stupida macchina.

Adesso colpisce i tasti con brutalità, le dita ricadono come gli artigli rigidi di una benna. Un altro errore, cancella freneticamente. Batte ancora piú veloce. Quattro tasti si incastrano fra loro.

Urla.

Sbatte il pugno sulla macchina. Afferra il foglio di carta e lo strappa via dal rullo, facendolo in mille pezzi. Stringe i frammenti in pugno e scaglia la palla di carta in fondo alla stanza. Sospinge con violenza il carrello e sbatte la custodia sulla macchina.

Si alza di scatto e rivolge alla macchina un'occhiata di fuoco.

«Idiota!» urla con voce aspra, stravolta. «Stupida, idiota, scema come un somaro!»

Il disprezzo trasuda dalla sua voce. Continua a parlare, perde del tutto il controllo.

«Non servi a un bel niente. Non servi proprio a niente. Ti faccio a pezzi. Ti riduco a brandelli, ti faccio fondere, ti ammazzo! Stupida, deficiente, pidocchiosa macchina del cavolo!»

Trema tutto, mentre urla. E si domanda, in qualche recesso isolato della sua mente, se invece non sta uccidendo se stesso con l'irritazione, se non sta distruggendo il suo sistema nervoso con la collera.

Si volta e si allontana a grandi passi. È troppo imbufalito per accorgersi che la custodia sta scivolando giú e per sentire il leggero ronzio del metallo, lo stesso che potrebbe prodursi se i tasti vibrassero nei loro alloggiamenti.

[...]

Cercò di indietreggiare, ormai svuotato della sua rabbia. I tasti della macchina da scrivere si mossero sotto le sue dita. Abbassò gli occhi. Non riuscí a capire se era lui a muovere i tasti o se fossero i tasti ad agire di loro volontà. Tirò indietro istericamente la mano, tentando di togliere le dita dalla tastiera, ma senza riuscirci. I tasti si muovevano piú rapidamente di quanto il suo occhio riuscisse a cogliere. Erano una macchia indistinta. Li sentí che gli laceravano la pelle, gli scorticavano le dita. Erano ormai scarnificate. Il sangue cominciò a scorrere.

Gridò e arretrò ancora. Riuscí a liberare le dita con uno strattone e balzò all'indietro sulla sedia.

La fibbia della cintura si incastrò, il cassetto della scrivania venne fuori con violenza. Lo colpí allo stomaco. Gridò di nuovo. Il dolore era una nuvola nera che gli fluiva sopra la testa.

Abbassò una mano per richiudere il cassetto. Vide che dentro c'erano delle matite gialle. Sembravano fissarlo. La sua mano scivolò, sbatté sul cassetto.

Una delle matite lo infilzò.

Teneva sempre le punte affilate. Fu come il morso di un serpente. Ritrasse di scatto la mano con un rantolo di dolore. La punta si era infilata sotto un'unghia. Era penetrata nella carne viva, tenera. Urlò per la rabbia e per il dolore. Abbrancò la matita con l'altra mano. La punta si staccò e gli si conficcò nel palmo. Non riusciva a liberarsi della matita, che continuava a massacrargli la mano. Lui tirava, e quella tracciava righe nere e profonde sulla pelle, penetrandogli nella carne.

Scagliò la matita dall'altra parte della stanza. Rimbalzò contro il muro. Sembrò schizzare all'insú quando ricadde sulla gomma. Rotolò via e rimase immobile.

Chris perse l'equilibrio. La poltrona ricadde all'indietro con violenza. La sua testa picchiò forte sul pavimento di legno. La mano sporta all'infuori si aggrappò al davanzale. Schegge minuscole penetrarono nella pelle come aghi invisibili. Mugolò, colto da un terrore mortale. Dimenò forsennatamente le gambe. I compiti in classe gli piovvero addosso come le ali svolazzanti di uno stormo di uccelli impazziti.

La poltrona tornò a raddrizzarsi sulle molle. Le pesanti rotelle gli passarono sulle mani insanguinate, con la carne viva messa a nudo. Le ritrasse con un urlo. Tirò indietro una gamba e scalciò con violenza la poltrona. Quella andò a infrangersi di fianco contro il caminetto. Le rotelle vorticarono e ronzarono come uno sciame di insetti infuriati.

Balzò in piedi. Perse l'equilibrio e cadde di nuovo, schiantandosi contro il davanzale. Le tende gli crollarono addosso come un pitone. I bastoni si staccarono dal muro, caddero giú e lo colpirono in piena testa. Senti il sangue che gli gocciolava caldo sulla fronte. Si trascinò sul pavimento. Le tende sembravano avvolgerlo come serpenti. Urlò di nuovo. Le fece a pezzi, istericamente. I suoi occhi erano stravolti dal terrore.

Scagliò via le tende e si rimise faticosamente in piedi, barcollando in cerca di equilibrio. Il dolore alle mani era insopportabile. Se le guardò. Erano come carne appena macellata, con la pelle che ricadeva giú a brandelli. Doveva bendarle. Si voltò e andò verso il bagno.

Al primo passo il tappeto gli scivolò sotto i piedi, proprio quel tappeto che aveva allontanato prima con un calcio. Si sentí proiettare in aria. Abbassò istintivamente le mani per attutire l'impatto.

La vampata di dolore fu come una scossa elettrica che lo fece sobbalzare. Un dito si spezzò. Le schegge penetrarono nella carne viva e sentí una fitta lancinante alla caviglia.

Brancolò per rialzarsi, ma il pavimento era come una lastra di ghiaccio sotto di lui. Rimase immobile, in un silenzio di morte. Il cuore gli martellava nel petto. Tentò ancora di rimettersi in piedi. Ricadde, sibilando per il dolore.

La libreria lo sovrastava, minacciosa. Gridò e alzò un braccio. L'intera struttura gli precipitò addosso. Lo scaffale superiore lo colpi alla testa. Onde nere lo travolsero, una lama aguzza di dolore gli trafisse il cervello. I libri piovvero su di lui. Rotolò su un fianco con un gemito. Cercò di trascinarsi lontano. Scansò i libri, senza piú energia, e quelli ricaddero giú, aprendosi. Senti gli orli delle pagine lacerargli le dita come lame di rasoio.

Il dolore gli schiarí la testa. Si mise a sedere e scaraventò lontano i libri. Scalciò la libreria verso la parete. Il pannello posteriore si staccò e cadde giú.

Si rimise in piedi, mentre la stanza gli turbinava intorno. Si diresse a passo malfermo verso la parete, cercando di sostenersi. La parete sembrava quasi spostarsi sotto le sue mani. Non riuscí a trovare sostegno. Scivolò sulle ginocchia, si rialzò.

«Devo bendarmi» farfugliò con voce roca.

Le parole gli riempivano il cervello. Attraversò ondeggiando il salotto che sembrava animato di vita propria, ed entrò in bagno.

Si bloccò. No! Devo uscire dalla casa! Sapeva che non era stata la sua volontà a condurlo lí dentro.

Cercò di girarsi, ma scivolò sulle mattonelle e andò a sbattere il gomito contro il bordo della vasca. Un dolore intenso gli s'irradiò fino alla spalla. Perse la sensibilità del braccio. Si accasciò al suolo, contorcendosi per il dolore. Le pareti sembrarono rannuvolarsi; si richiusero su di lui come un sudario scuro.

Si mise a sedere, con il respiro che gli bruciava la gola. Si tirò su con un rantolo. Protese il braccio e apri lo sportello dell'armadietto dei medicinali. Quello gli andò a sbattere sulla guancia, procurandogli un taglio irregolare nella carne.

La sua testa scattò all'indietro. La fessura nel soffitto era come un largo sorriso idiota su una faccia bianca e inespressiva. Riabbassò la testa, piagnucolando per il terrore. Cercò di indietreggiare.

La sua mano andò verso l'armadietto. Tintura di iodio, garza! urlava la sua mente.

La mano riemerse con il rasoio.

Guizzò nella sua mano come un pesce appena pescato. Avvicinò l'altra mano all'armadietto. Tintura di iodio, garza! continuava a strepitare il suo cervello.

La mano riemerse con il filo interdentale. Si riversò fuori dal tubo come un verme bianco senza fine. Si avvoltolò intorno alla sua gola e alla sua spalla. Cominciò a stringere.

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Pagina 167

Paglia umida



Cominciò qualche mese dopo la morte di sua moglie.

Si era trasferito in una pensione, dove conduceva una vita molto ritirata. Aveva venduto le obbligazioni di lei e campava di rendita. Un libro al giorno, concerti, pasti solitari, visite ai musei... questo gli bastava. Ascoltava la radio, ogni tanto si appisolava e pensava molto. La vita non era cosi male.

Una sera mise via il libro e si spogliò. Spense le luci e aprí la finestra. Sedette sul letto e per qualche secondo fissò il pavimento. Gli facevano un po' male gli occhi. Poi si sdraiò e si portò le mani alla nuca. Dalla finestra entrava un venticello fresco, allora si copri la testa con le coperte e chiuse gli occhi.

C'era un gran silenzio. Poteva sentire il suo stesso respiro regolare. Il calore cominciò ad accarezzarlo, dandogli un senso di calma. Emise un profondo sospiro e sorrise.

Dopo un attimo spalancò gli occhi.

C'era un alito leggero che gli sfiorava la guancia, e sentiva l'odore di qualcosa che sembrava paglia umida. Non poteva sbagliarsi.

Allungando la mano era in grado di toccare il muro e sentire il venticello che entrava dalla finestra. Invece, sotto le coperte, dove prima c'era solo calore, adesso si era diffusa una brezza diversa. E l'odore malsano, raggelante di paglia bagnata.

Si tolse le coperte di dosso e rimase sdraiato sul letto, respirando a fatica.

Poi rise dentro di sé. Un sogno, un incubo. Troppe letture. Cena pesante.

Si ricoprí e chiuse gli occhi. Tenne fuori la testa e si addormentò.


Il mattino dopo si era dimenticato di tutto. Fece colazione e andò al museo. Vi trascorse l'intera mattinata. Visitò tutte le sale e osservò ogni cosa.

Quando stava per andarsene, provò il desiderio di tornare indietro e dare un'occhiata a un quadro che prima aveva guardato solo di sfuggita.

Vi si fermò davanti.

Era il ritratto di un ambiente rurale. In fondo a una valle c'era un grosso granaio.

Cominciò a respirare pesantemente e le sue dita presero a tormentare la cravatta. Ridicolo, si disse dopo un attimo, che una cosa del genere debba farmi innervosire in questo modo.

Se ne andò. Giunto alla porta rivolse un'ultima occhiata al quadro.

Quel granaio lo aveva spaventato. È un semplice granaio, pensò, un granaio dentro un quadro.

Dopo cena tornò in camera.

Non appena aprí la porta si ricordò del sogno. Andò a letto. Tirò su coperte e lenzuola e le scosse.

Non c'era nessun odore di paglia umida. Si sentí un idiota.

Quella notte, quando andò a dormire, lasciò la finestra chiusa. Spense le luci, s'infilò nel letto e si tirò le coperte sopra la testa.

All'inizio fu come al solito: silenzio, assenza d'aria, il calore che pian piano aumentava.

Poi ricominciò la brezza e lui sentí nettamente che i capelli gli si scompigliavano sulla testa. E sentí quell'odore di paglia umida. Fissò il buio e respirò con la bocca per non sentire ancora l'odore.

Da qualche parte del buio vide un riquadro di luce grigiastra.

È una finestra, pensò subito.

Guardò con piú attenzione e il cuore ebbe un sussulto quando un improvviso lampo di luce apparve nella finestra. Era come un fulmine. Stette in ascolto. Ancora quell'odore di paglia umida.

Sentí che cominciava a piovere.

Si spaventò e si tolse le coperte dalla testa.

Intorno a lui c'era il calore della sua camera. Non pioveva e faceva molto caldo, perché la finestra era chiusa.

Fissò il soffitto e si domandò come mai avesse quell'allucinazione.

Tornò a nascondere la testa sotto le coperte, tanto per fare una prova. Giacque immobile e strinse forte gli occhi.

Aveva di nuovo quell'odore nelle narici. La pioggia picchiava con violenza sulla finestra. Aprí gli occhi e guardò, e alla luce dei lampi vide l'acqua che veniva giú a scrosci. Poi la pioggia cominciò a picchiare anche sopra la sua testa, su un tetto di legno. Si trovava in qualche posto con un tetto di legno, e che conteneva paglia bagnata.

Si trovava in un granaio.

Ecco perché quel quadro lo aveva spaventato cosí tanto. Ma che c'era poi da spaventarsi?

Cercò di toccare la finestra, ma non riuscí a raggiungerla. La brezza gli soffiava sulla mano e sul braccio. Voleva toccarla, quella finestra. Magari, e l'idea lo stuzzicò, magari poteva aprirla e tirar fuori la testa nella pioggia, poi liberarsi subito delle coperte per vedere se aveva i capelli bagnati.

Cominciò a sentirsi circondato da uno spazio. Nel letto non provava alcuna sensazione di imprigionamento. Sentiva il materasso, eppure era come se vi giacesse sopra all'interno di uno spazio aperto. Il vento leggero gli aleggiava su tutto il corpo. E l'odore era piú intenso.

Si mise all'ascolto. Senti uno squittio e poi il nitrito di un cavallo. Ascoltò ancora.

Poi si rese conto che non sentiva piú il materasso sotto di sé, almeno non tutto intero.

Era come se fosse sdraiato su un pavimento di legno, freddo, dalla vita in giú.

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Pagina 250

Grilli



[...]

La sala da pranzo era come un'enorme caverna piena di ombre. L'unica luce proveniva dalla piccola lampada sul tavolo, che proiettava le loro ombre informi sulle pareti.

«Alla vostra salute» disse il signor Morgan, sollevando il bicchiere.

Il vino era secco, dal sapore intenso. Gocciolò gelido nella gola di Jean, facendola rabbrividire.

«Allora, che cos'ha contro i grilli?» chiese Hal.

Il signor Morgan abbassò il bicchiere.

«Non so se dovrei dirvelo» rispose. Li osservò con attenzione. Jean si sentí a disagio sotto quello sguardo indagatore e allungò la mano verso il bicchiere per bere un sorso.

Improvvisamente, con un movimento cosi brusco da farle vacillare la mano e rovesciare un po' di vino, il signor Morgan tirò fuori un piccolo taccuino nero dalla tasca della giacca. Lo depose delicatamente sul tavolo.

«Ecco» disse.

«Che cos'è?» chiese Hal.

«Un cifrario» rispose il signor Morgan.

Lo guardarono versarsi nel bicchiere un altro po' di vino, poi appoggiare la bottiglia, la cui ombra si disegnò sulla tovaglia. Sollevò il bicchiere e ne fece roteare il gambo fra le dita.

«È il codice dei grilli» disse.

Jean rabbrividi, senza sapere bene perché. Non c'era niente di terribile in quelle parole. Era il modo in cui il signor Morgan le aveva pronunciate.

Il signor Morgan si sporse in avanti, gli occhi luccicanti al bagliore della lampada.

«Statemi a sentire» disse. «Non è che emettono semplicemente dei suoni incomprensibili, quando sfregano le ali.» Fece una pausa. «Mandano dei messaggi» aggiunse.

Jean si sentiva come un blocco di legno. Era come se la stanza si muovesse intorno a lei, in cerca di stabilità, come se ogni cosa si sporgesse verso di lei.

«Perché ci dice questo?» chiese Hal.

«Perché adesso lo so con certezza» rispose il signor Morgan. Si sporse ancora di piú. «Avete mai ascoltato con attenzione il canto dei grilli?» chiese. «Voglio dire, proprio con attenzione? Se lo aveste fatto, avreste colto un ritmo nei loro rumori. Una cadenza... un tempo preciso.

«Io l'ho fatto» riprese subito dopo. «Li ho ascoltati per sette anni. E piú li ascoltavo piú mi convincevo che il loro rumore era un codice, che trasmettevano messaggi nella notte.

«Poi, piú o meno una settimana fa, tutto a un tratto ho sentito lo schema. È una specie di codice Morse solo che, naturalmente, i suoni sono diversi.»

Il signor Morgan smise di parlare e fissò il taccuino nero.

«Ed ecco qui» disse. «Dopo sette anni di lavoro, l'ho trovato. L'ho decifrato.»

La gola gli andò su e giú in modo convulso quando sollevò il bicchiere e lo svuotò in un sorso.

«Bene... cosa dicono?» chiese Hal, un po' a disagio.

Il signor Morgan lo guardò.

«Nomi» rispose. «Guardi, le faccio vedere.»

Infilò una mano in tasca e ne estrasse un mozzicone di matita. Strappò una pagina bianca dal taccuino e cominciò a scrivere, farfugliando fra sé.

«Impulso, impulso - silenzio - impulso, doppio impulso silenzio - impulso - silenzio...»

Hal e Jean si scambiarono un'occhiata. Hal si sforzò di sorridere ma senza riuscirci. Poi tornarono a guardare l'ometto chino sul tavolo, intento ad ascoltare i grilli e a scrivere.

Il signor Morgan posò la matita. «Cosí vi farete un'idea» disse, porgendo loro il foglio di carta. Lo lessero.

MARIE CADMAN, c'era scritto. JOHN JOSEPH ASTER, SAMUEL...

«Vedete?» disse il signor Morgan. «Nomi.»

«Di chi?» si sentí costretta a chiedere Jean, anche se non ne aveva la minima voglia.

Il signor Morgan teneva il taccuino nella mano stretta a pugno.

«I nomi dei morti» rispose.

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