Autore Ugo Mattei
Titolo "Senza proprietà non c'è libertà" (Falso!)
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2014, Idòla , pag. XXIV+84, cop.fle., dim. 11x18x1 cm , Isbn 978-88-581-1017-1
LettoreRiccardo Terzi, 2014
Classe diritto , politica












 

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Indice


    Introduzione                                              IX


1.  Proprietà e libertà: il ritorno di un'ideologia            3

2.  Alle origini della proprietà privante                     25

3.  La proprietà privante e l'incubo della piccola proprietà  49

4.  Per una "proprietà generativa"                            71


    Bibliografia essenziale                                   79



 

 

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Pagina IX

Introduzione


Sarebbe ingenuo pensare di poter contribuire significativamente con uno scritto allo sgretolamento del muro ideologico che protegge l'ingiusta organizzazione sociale determinata e garantita dalla proprietà privata. Nessun lavoro intellettuale potrà mai far crollare quel muro in modo tanto efficace e rapido quanto la crisi economica prodotta dalla stessa ideologia proprietaria. Qui vorrei piuttosto dire qualcosa sulle ragioni che fanno sì che la falsa coscienza rappresentata dal titolo di questo volumetto continui ad arruolare eserciti di difensori. In una parola, mi preoccupa più la debolezza della critica alla proprietà privata che la forza di quest'ultima.

Ritengo sia unicamente lo studio giuridico della proprietà privata nei suoi dettagli tecnici, che sfuggono a chi la guarda da storico, da filosofo, da sociologo e ancor più da economista, a offrire materiali inconfutabili per sostenere la tesi che la proprietà privata, lungi dall'essere guardiana di ogni altro diritto (secondo il titolo del celeberrimo libro di James W. Ely, che riprende il delegato della Virginia Arthur Lee), sia invece istituzione carnefice della libertà stessa e insieme dell'emancipazione, della solidarietà e della cittadinanza. Dietro la locuzione proprietà privata si nasconde, infatti, un potere privante, che istituzionalizza estrazione e sfruttamento dell'uomo e della natura e che in questo senso è il peggior nemico della libertà intesa come emancipazione.

Che la proprietà privata sia fondamentalmente un furto è stato detto già da Proudhon, bollato come utopista dallo stesso Marx; il feticismo della merce si trasforma facilmente in feticismo dell'istituzione che garantisce l'attribuzione e lo sfruttamento della "roba". Sicché anche questo mio scritto sarà certamente tacciato di utopismo e irresponsabile massimalismo da "cattivo maestro", come peraltro succede spesso, perfino in sedi autorevoli come il «Corriere della Sera».

Del resto, oggi più che mai è aspro lo scontro culturale e politico in Occidente fra quanti riconoscono la sofferenza e la privazione imposta al mondo dal modello di sviluppo noto come "modernità" e quanti, invece, lasciano sedurre le proprie coscienze senza apparenti problemi dal privilegio storico. Esiste una tensione di fondo fra la concezione individualistica prodotta dall'abbinata illuminismo/capitalismo, spesso descritta come "modernità"; e la sensibilità collettivistica della maggior parte delle popolazioni spossessate o spossessande del pianeta (e di chi intenda porsi in sintonia con esse), le quali in gran maggioranza non possono neppure concepire che qualche individuo si consideri proprietario della natura.

Il Rousseau che pubblicò il discorso sulla diseguaglianza - opera che certo non poteva evitare il peccato originale dell'etnocentrismo dei philosophes - fu capace di osservare come la proprietà privata sulla terra costituisse l'impostura fondamentale all'origine dello sfruttamento. L'illuminista ginevrino si rendeva perfettamente conto che la persuasione - oggi diremmo ideologia, o forse egemonia -, e non soltanto la forza e la violenza, fosse alla base del successo di chi indica un terreno, fino a quel punto accessibile a tutti, e dice: "stai fuori di qui perché questo è mio". Ancora oggi, nel mondo, milioni di persone, per lo più (ma non soltanto) contadini poveri del Sud globale, sono pronti a resistere - in modo passivo o attivo - di fronte all'usurpazione e alla mercificazione del territorio perché non credono all'impostura della proprietà privante fondata su un'usurpazione: un conflitto ben noto oggi in Italia, a seguito del drammatico scontro fra i Mapuche della Patagonia e una dinastia imprenditoriale trevigiana.

Sebbene la genealogia dei critici della proprietà privata, che va da Platone a Tommaso Moro, da Proudhon a Marx, sia spesso tacciata di socialismo utopista, Rousseau non è l'unico fra le icone del pensiero borghese ad aver sottoposto a critica radicale la proprietà privata sulla terra, oggi finalmente nota - senza più ipocrisia - come land grabbing. Henry George, per esempio, uno dei massimi economisti statunitensi di tutti i tempi, sosteneva che il solo modo di evitare le conseguenze tragiche delle ferree leggi di Ricardo (ossia la tendenza naturale del salario ad assestarsi al valore della sussistenza fisica del salariato) fosse l'imposizione di una tassa pari alla rendita fondiaria, il che sostanzialmente significa la socializzazione di tutte le terre, ossia l'abolizione della proprietà privata sul territorio, luogo fisico di qualsiasi produzione. Quanto accennato mostra il senso profondo della definizione di un altro celebre illuminista, Cesare Beccaria, secondo il quale la proprietà privata si configura come un "terribile diritto" - locuzione che il giurista Stefano Rodotà ha ripreso, intitolando così una raccolta di suoi studi critici in materia pubblicata nei primi anni Ottanta.

L'antologia di Rodotà, recentemente ripubblicata con un nuovo capitolo sui beni comuni, usciva proprio alla ripresa dell'imponente sforzo di privatizzazione posto in essere dagli apparati ideologici del capitalismo globale all'alba del neoliberismo. In quegli anni, sul legame fra proprietà e libertà si avviava un nuovo fortissimo investimento volto a cattura cognitiva generalizzata, destinata ad essere ottenuta con impressionante successo un po' in tutto il mondo.

Fra i giuristi lo strumento più importante di trionfo del neoliberismo è stata certamente la cosiddetta "analisi economica del diritto" (law and economics), che in piena era Reagan seppe imporsi sempre più come apparato ideologico dominante della globalizzazione neoliberale. Negli Stati Uniti, giuristi, economisti e politologi svilupparono in quegli anni una vera e propria scuola dei property rights che offriva le sue ricette "scientifiche", in gran parte legittimate dalla creatività innovativa resa possibile dall'idiosincrasia proprietaria (una versione più sofisticata del nesso libertà/proprietà), per ogni ambito della regolamentazione pubblica. Nascevano, ad esempio, in quel periodo, i sistemi di tutela ambientale incentrati su polluting rights, veri e propri diritti di proprietà negativa, di cui le imprese potevano liberamente godere o disporre in un "mercato dell'inquinamento" teorizzato come più efficiente e innovativo rispetto ai tradizionali sistemi di "comando e controllo" delle emissioni nocive. Su quel modello si basa il fallimentare Protocollo di Kyoto.

Anche in Italia queste suggestioni d'Oltreoceano, che cominciavano a erodere il legame tradizionale del diritto romano fra proprietà privata e cose corporali, facevano breccia tanto fra i giuristi quanto fra gli economisti.

Per svelare questo processo ideologico, invero profondo e dimostratosi capace di produrre egemonia, occorre una riflessione matura sul rapporto intimo fra la proprietà privata e la "civiltà" che nella prima modernità sostenne la conquista e il genocidio nelle Americhe e in seguito l'epopea coloniale nel continente africano. Una riflessione che nel diritto non è possibile condurre in modo scientificamente fondato senza l'aiuto dell'antropologia, perché neppure le fondamentali pagine di Marx sulla cosiddetta "accumulazione originaria" possono bastare per sciogliere il nodo gordiano che sembra legare la proprietà privata con ogni anelito di libertà. Occorre superare la retorica illuminista dominante attraverso la presa di coscienza che nulla di buono in chiave di autentica libertà ed emancipazione può emergere da quel massacro fisico e culturale e dalla istituzione che più di ogni altra lo ha legittimato. Purtroppo ancor oggi l'etnocentrismo (unica pecca anche in Marx), determinato dalla scarsa cultura antropologica e dall'abbondante provincialismo di buona parte della nostra intellighenzia dominante, è il miglior alleato del perdurante successo dell'equazione libertà/proprietà, che nel mito illuminista del progresso (già di per sé efficacissimo grazie ai "miglioramenti" teorizzati da Locke) e nella retorica liberale dei diritti umani trova un appoggio decisivo.

Nelle pagine che seguono, cercherò di spiegare la debolezza della critica proprietaria attraverso la comune radice individualistica che lega la proprietà alla libertà tramite la retorica dei diritti naturali della persona. Nell'esperienza umana le dimensioni dell'essere e quelle dell'avere, concepite nella riflessione occidentale come parte di mondi ontologicamente incompatibili, sono in realtà inscindibili, sicché l'individualismo proprietario è più figlio di un essere egocentrico e solipsista rivendicante propri diritti, che del mero desiderio di accumulo materiale. A questa prima spiegazione sul piano antropologico-filosofico se ne aggiungono altre di carattere più strettamente giuridico: in primo luogo, la strutturazione ontologica della separazione fra pubblico e privato, che oggi a sua volta tradisce una natura del tutto ideologica. Questa separazione finisce per rafforzare ancora di più la proprietà privata: proprio nella fondamentale libertà idiosincratica (di godere non godendo, o di procrastinare il godimento o comunque di sceglierne la natura) si fonda infatti la differenza fra proprietà privata e proprietà pubblica rispetto alle istanze sociali di sovversione delle dinamiche dell'avere e dell'escludere.

In parole più semplici, mentre la messa in discussione - anche radicale - della destinazione d'uso di una proprietà pubblica appare politicamente accettabile, quella di una proprietà privata lo è assai meno. Quest'ultima, infatti, continua a poter vantare un legame stretto con la libertà individuale, mentre la prima può semmai solo legarsi a una categoria screditata come l'ordine pubblico, il quale perde prestigio in modo direttamente proporzionale al declino di quello della statualità autoritaria.

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Pagina XXIII

Oggi la proprietà privata, trasformata in potere privante, è la vera sovrana, al di là delle declamazioni costituzionali per cui "la sovranità appartiene al popolo". È lei a dominare lo Stato e a riproporre con successo diseguaglianze e rappresentanza di censo. È lei che paradossalmente può sovvertire l'ordine costituzionale e ha i mezzi per tacciare di sovversivo chi ne smaschera le metamorfosi, per giunta col consenso del piccolo-borghese (oggi consumatore), sempre schiavo della vecchia retorica secondo cui non c'è libertà senza proprietà e dell'altrettanto arcaico terrore di dover condividere spazi con chi non conosce. È lei che gode ancora, nascosta da mille orpelli retorici, del favore nostalgico dell'illuminista, che non si accorge di come le metamorfosi del capitalismo lo abbiano reso strumento di oppressione ideologica e non più di emancipazione.

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Pagina 71

4. Per una "proprietà generativa"


La civiltà occidentale celebra la proprietà privata in quanto consente di soddisfare bisogni e quindi rende liberi. Il capitalismo crea il bisogno per costringerci a soddisfarlo con mezzi materiali. Più bisogni materiali, più produzione di merce, più proprietà necessaria per essere liberi di soddisfare tali bisogni. La libertà di accumulo senza limiti, che è l'essenza della proprietà capitalistica, si insinua in questo circuito dando vita alla proprietà privante, la quale è destinata a distruggere se stessa.

Nelle pagine precedenti ho tentato di "smontare" il nesso fra libertà e proprietà, che è poi quello fra illuminismo e capitalismo, esaminandone le condizioni immanenti storicamente realizzatesi, sia dal punto di vista di chi non è proprietario privato sia da quello di chi è proprietario. Ne è emerso un quadro ideologico ancora molto robusto, radicato senza soluzione di continuità nel pensiero di alcune delle principali icone della modernità liberale, che affonda le sue radici nel XVII secolo.

Le teorie assolutistiche e allo stesso tempo individualistiche di Hobbes, quelle naturalistiche di Locke e di Grozio, non potrebbero comprendersi se non in strettissima relazione con il pensiero della rivoluzione scientifica, che da Cartesio a Bacone andava creando le condizioni per il trionfo newtoniano. Né potrebbero comprendersi senza tener conto della particolarissima situazione politica e sociale dell'Inghilterra protocapitalista, dove la retorica del "miglioramento" quantitativo, dello sviluppo economico materiale e della sua scienza (la nascente economia classica) accompagnava il primo capitalismo agrario e i suoi imperativi di produzione razionale e di competizione. Solo in Inghilterra esisteva da secoli uno Stato centrale forte, istituzionalmente organizzato intorno alla centralizzazione del potere giudiziario, guardiano di un precoce compromesso fra Stato e proprietà privata. Questo assetto istituzionale, globalizzatosi nelle Costituzioni post-rivoluzionarie del secolo successivo, costituisce la strutturazione giuridica, scientificamente "estrattiva", del capitalismo tecnologico che ancora ci governa.

Proprietà privata e sovranità pubblica hanno determinato esiti quantitativi prodigiosi, trasformando radicalmente, tramite la creazione di merci, un mondo in cui i beni comuni rappresentavano risorse abbondanti e il capitale, inteso come relazione sociale di produzione, era assai scarso. Questa strutturazione giuridica della modernità, fondata su una visione scientifica quantitativa e sulla separazione ontologica fra l'uomo e la natura (oggetto esterno meccanico, misurabile e dominabile dall'io pensante), ha prodotto un'egemonia talmente radicata da naturalizzarsi, trasformandosi progressivamente in senso comune.

A causa di questo processo insieme politico e ideologico, l'umanità stenta, oggi, ad accorgersi del totale sovvertimento, a sua volta quantitativo e misurabile, fra capitale concentrato e beni comuni. Oggi viviamo in un mondo caratterizzato dall'immensa quantità e concentrazione di capitale e dall'estrema, drammatica, scarsità di beni comuni, tanto naturali (risorse ambientali) quanto sociali (nessi e legami di fratellanza).

La proprietà come assetto istituzionale determina ed è determinata al tempo stesso dalle metamorfosi del mondo, perché - fuor di retorica - l'umano è parte della natura e se ne distacca soltanto attraverso finzioni antropocentriche. In queste pagine abbiamo visto nascere e crescere la proprietà privante, quantitativamente concentrata, giuridicamente immortale nelle mani delle corporation e qualitativamente comprensibile soltanto come relazione di dominio, determinata e strutturata dagli imperativi competitivi globali di riproduzione capitalistica. La proprietà privante ha nel suo Dna il profitto e il brevissimo periodo e ha nel mercato capitalistico globale l'agenzia di controllo del proprio successo. A partire dai tardi anni Settanta del secolo scorso, diventata troppo forte per poter essere controllata dalle istituzioni politiche dello Stato, essa ha rotto il compromesso con la sovranità pubblica, che per tre secoli aveva rappresentato la legalità occidentale, fondata sulla rule of law e sul costituzionalismo liberale.

Questa rottura, che necessariamente sposta il confronto sul terreno costituente, ha colto il pensiero politico, giuridico ed economico completamente impreparati, sebbene lo sviluppo della conoscenza scientifica avesse già offerto le basi teoriche della rivoluzione qualitativa, necessaria per trasformare il senso comune e pensare nuovi assetti istituzionali ecologicamente compatibili. In mancanza di nuovi beni comuni da recintare, la proprietà privante ha rotto il compromesso con lo Stato privatizzandone e dominandone le istituzioni, per poi apprestarsi a divorare, come il pesce persico cannibale immesso nel lago Vittoria, perfino i piccoli della sua stessa specie, che pure per secoli le avevano fatto scudo in termini di egemonia declinata in chiave di libertà.

Di qui la necessità urgente, oggi, di un ripensamento istituzionale profondo di natura, a sua volta necessariamente costituente, che parta dalle pratiche e risalga ad una visione teorica e sappia in tal modo ricostruire istituzioni proprietarie generative e non estrattive. Queste nuove istituzioni dovranno essere capaci di invertire, anche culturalmente, l'onere della prova fra i diritti costituzionali del proprietario privato e quelli (oggi assenti nell'impianto del costituzionalismo liberale) dei beni comuni, che non possono più essere rappresentati da uno Stato sovrano a sua volta privatizzato, ma che si articolano necessariamente in doveri di solidarietà.

La nuova proprietà (o se si preferisce il suo opposto fondato su partecipazione e accesso), su cui siamo chiamati a lavorare nei prossimi anni, non può essere vista come istituzione che in nome della libertà protegge l'accumulo infinito, lo sfruttamento delle risorse e delle persone e il perseguimento incondizionato del profitto e della rendita. La nuova proprietà generativa deve avere nel suo Dna l'ecologia, la sostenibilità, la riconversione di un sistema sociale e naturale ormai al collasso.

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