Copertina
Autore Max Mauro
Titolo La mia casa è dove sono felice
SottotitoloStorie di emigrati e immigrati
EdizioneKappa Vu, Udine, 2005, Lavoro & Società , pag. 232, cop.fle., dim. 14x21x1,4 cm
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe storia contemporanea d'Italia , storia sociale , lavoro , biografie , regioni: Friuli-Venezia Giulia
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al sito dell'editore






 

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Indice


  7  Introduzione
 15  Il mondo dei piedi freddi
 31  La valigia in mano
 47  Un africano friulano
 60  Il campanile non dà banane
 75  Il destino è clandestino
 91  La fabbrica di Mr Mion
107  Lo scrittore metalmeccanico
120  La vida divertida
134  Tenacia femminile
149  Cose già viste
165  Vita di un verniciatore di successo
181  Bambino nascosto
196  Argentina andata e ritorno
208  La casa ritrovata

221  Postfazione
225  Ringraziamenti
226  Bibliografia


 

 

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Pagina 15

Il mondo dei piedi freddi


«Ogni tanto ho nostalgia di quella casa. Un giorno sono salito in macchina e sono andato a vederla: fuori è rimasta la stessa di quando sono arrivato io, ma dentro l'hanno un po' sistemata».

La casa di cui parla Naiaga è un vecchio casolare fuori Manzano. Č immerso in un boschetto di alti pioppi circondato da campi e in lontananza si scorgono le colline coperte di vigneti. Stranamente, le sagome delle fabbriche di sedie che segnano il paesaggio di questo paese di settemila abitanti a quindici chilometri da Udine, si intravedono appena.

Detto così sembra un posto da cartolina, perfetto per un agriturismo esclusivo, in realtà è un luogo disabitato da almeno quarant'anni. Quando Naiaga e alcuni suoi connazionali senegalesi vi entrarono, nella primavera del 1990, non c'era acqua corrente né elettricità. Mancavano anche le finestre. I cinque ragazzi giunti dall'Africa avevano trovato lavoro in alcune fabbriche della zona ma una casa in affitto per loro non c'era. Così, col permesso del proprietario, vennero "lasciati" alloggiare nel casolare abbandonato. Almeno avevano un tetto. Ma poco o nulla più di quello.

Oggi Naiaga abita con la moglie e i tre figli in un condominio di ex case popolari: ha comprato con un mutuo ventennale un appartamento all'ultimo piano. Quel casolare in cui ha vissuto per quattro anni gli è rimasto tuttavia nel cuore. Gli ricorda le difficoltà a cui è andato incontro per farsi una vita in una delle zone più ricche e produttive del Nord-Est italiano.

Nel momento in cui si paventò la possibilita di abitare nel casolare, da alcuni mesi lui e altri quattro connazionali facevano i pendolari tra Trieste, dove dormivano in un albergo vicino alla stazione, e Manzano. Le loro giornate erano molto lunghe: iniziavano alle quattro del mattino, quando si alzavano e si avviavano a prendere il treno. Alle sette erano a Manzano e a piedi raggiungevano la fabbrica. Alla sera, dopo nove o dieci ore di lavoro, spesso perdevano l'ultimo treno utile, così dovevano prendere quello successivo che arrivava a Trieste verso le undici. Prima di poter andare a letto c'era tuttavia da espletare la necessità della cena.

«L'albergatore è stato gentile con noi», racconta Naiaga, «dopo qualche settimana ci ha permesso di cucinare qualcosa in stanza, perché non potevamo andare avanti a mangiare sempre cose pronte. Comunque quella vita era costosa. Dopo due mesi avevo finito i soldi, tra albergo, treno e mangiare non mi rimaneva niente in tasca».

Decisero tutti assieme che dovevano trovare una casa a Manzano. Ma se per trovare un lavoro ci avevamo messo due giorni, per una casa in affitto la ricerca sembrava molto più difficile. Dopo le prime risposte negative chiesero "al padrone" se potevano dormire in fabbrica, sul pavimento, "spostando le pedane", ma questi rispose che non era possibile, era fuori legge. Andarono con lui in Comune, senza trovare una soluzione, e pure dal parroco, che non aveva posto. La gente o non aveva case o era diffidente verso gli stranieri, i primi immigrati africani che si vedevano da queste parti.

La situazione viene confermata dal sindaco di allora, Giorgio Pozzetto: «Era un momento particolare: da una parte c'erano gli imprenditori che chiedevano un aiuto per alloggiare gli immigrati assunti nelle loro ditte, dall'altra c'era la gente che si dimostrava ostile. Quando, un paio d'anni dopo, aprimmo il centro di accoglienza utilizzando dei fondi regionali, ci furono forti proteste da parte di chi non voleva gli immigrati».

La situazione si risolse quando qualcuno fece il nome di un imprenditore che possedeva delle vecchie case e, forse, le poteva affittare.

«Siamo andati da lui e ci ha detto che aveva solo una casa vuota, dove non abitava nessuno da quarant'anni. A noi non importava, bastava avere un tetto, ma lui insisteva che non si poteva abitare lì. In quel periodo, alla sera ero così stanco e stufo che ogni angolo che vedevo lungo la strada mi sembrava buono per dormire. Vista la nostra insistenza alla fine ci ha lasciato entrare nella casa e noi abbiamo promesso di sistemarla un po'».

I ragazzi si organizzarono per rendere abitabile la loro "nuova casa". Tapparono le finestre con del nylon e del nastro adesivo, per terra misero dei tappeti. L'acqua per lavarsi e cucinare qualcosa andavano a prenderla in un pollaio distante cinquecento metri. Il problema più grande rimaneva, d'inverno, quello del freddo.

«Dormivo con dieci coperte e mi alzavo tutto sudato ma con i piedi freddi. Per tanto tempo ho pensato che in Europa tutti dormivano con i piedi freddi».

Rimasero nel casolare per due anni e il proprietario non chiese mai un affitto. In paese tutti sapevano della loro situazione, ma una soluzione diversa in tutto quel periodo non venne fuori.

Naiaga è arrivato in Italia dal Senegal nel 1989. Nel Triangolo della Sedia, zona produttiva compresa tra i comuni di Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di Rosazzo, è giunto un po' più tardi, dopo aver trascorso circa un anno a Cagliari. Il suo cammino di emigrante è per un tratto simile e quello di tanti altri per poi divaricarsi e assumere delle caratteristiche originali. Ha un primato che nessuno gli ha ancora riconosciuto e che lui, d'altra parte, non ci tiene a segnalare: è il primo imprenditore africano nell'industria delle sedie. Guida, in società con un friulano, un'azienda con cinque dipendenti che segue le fasi iniziali della filiera produttiva del Triangolo. Quando lo conobbi, nel 2000, aveva da poco cominciato quest'avventura e mi colpì per la determinazione con la quale perseguiva il suo obiettivo di "mettersi in proprio".

Nella zona del Triangolo della sedia risultano attualmente attive circa 900 aziende che danno lavoro a 9mila addetti. Prima della grave crisi che ha colpito il settore negli ultimi due anni, le imprese erano molte di più, circa 1200, e gli addetti si aggiravano sui 14 mila. Viste le caratteristiche del comparto, costituito da 5 grandi gruppi e da un'infinità di aziende piccole e piccolissime, non è facile avere dati precisi. Le microaziende nascono e muoiono rapidamente, soprattutto di questi tempi. Ciononostante, secondo il sindacato Fillea-Cgil, gli stranieri sono stabilmente più di un quarto degli addetti. Rappresentano una realtà ormai radicata, ma poco integrata. Un'indagine commissionata un paio di anni fa dall'amministrazione comunale di Manzano per scandagliare la qualità della vita sul suo territorio, si concluse con una definizione perentoria. I curatori definirono questo un territorio «letteralmente dominato da una religione del lavoro». Per religione del lavoro si potrebbe intendere un atteggiamento culturale dove l'attaccamento al lavoro, alla produttività, è sentito come misura dell'accettazione sociale. In soldoni: più lavori, più sei. Non lavori, non sei. Nei fatti le cose non sono tuttavia così semplici e la storia di Naiaga e dei suoi problemi a trovare casa, stanno a dimostrarlo.

Ma come nasce in un ragazzo africano il desiderio di immergersi dalla parte dell'imprenditore nella realtà produttiva di una piccola regione italiana, dopo aver vissuto in un casolare abbandonato, ai margini della società? Per rispondere a questa domanda è meglio ripercorrere assieme a lui il tragitto esistenziale che è culminato nell'emigrazione.

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Pagina 60

Il campanile non dà banane


La villa con la ringhiera di ferro. Così mi ha descritto al telefono la sua dimora Paul, o Paolo, come lo chiama lo stato italiano. Ora che sono giunto nella via indicatami in questo piccolo paese dello spilimberghese faccio tuttavia fatica a distinguere una casa dalle altre. Tutte sembrano avere la ringhiera di metallo e il muretto. Poi scorgo un signore alto dallo sguardo severo, cui l'età ha forse tolto un po' dell'originaria stazza. Mi aspetta appoggiato alla ringhiera, la bassa ringhiera di ferro che dovrebbe distinguere la sua casa dalle altre.

La casa è adornata dentro e fuori con coprivasi, lampioni, tavolini, intarsiati con gusto e maestria nel ferro. «Li ho fatti io», dice orgoglioso quest'uomo nato in Francia nel 1927 accompagnandomi a vedere la sua officina, nell'ampio scantinato della villa. C'è una forgia dove fonde il metallo, un incudine e degli attrezzi di altri tempi. «Nessuno lavora più così al giorno d'oggi», commenta un po' malinconico. Sulla parete c'è un dipinto, un affresco senza pretese che riporta i nomi di alcune città e conclude con una frase sibillina: "Udine, Paris, Bruxelles, Caracas, Zurigo, Spilimbergo. Č nato un fiore". Le città sono le tappe della vita raminga di Paul, un emigrante figlio di emigranti. La frase finale è riferita alla nipotina, nata alcuni anni fa. «L'ho disegnato quando è nata mia nipote. Per me è un modo per ricordare la vita che ho fatto io e celebrare la sua nascita».

Tracciare il filo della vita di Paul non è facile, ci sono dei colpi di coda inaspettati che scompaginano una situazione che si andava stabilizzando. Ma per chi è cresciuto negli anni della guerra - il discorso vale per qualsiasi guerra ma qui parliamo della seconda guerra mondiale – la necessità di inventarsi un presente e un futuro ha significato scelte improvvise e radicali, con la speranza che si rivelassero poi quelle giuste. Procedendo per tentativi anche temerari si misura la perfettibilità della propria esistenza, cercando di migliorarsi, come raccomandavano i vecchi un tempo.

Il tratto iniziale della sua vita è legato alla Francia, dove il padre emigra nei primi anni venti del Novecento assieme ad altri compaesani. Luigi, il padre di Paul, faceva parte di quella singolare "colonia" di emigranti politicizzati che tra le due guerra partirono dal comune di Tavagnacco per trasferirsi in Francia. Un libro pubblicato recentemente ne inquadra i percorsi di vita collettiva, legati alla militanza antifascista e al lavoro nella nuova patria, il più delle volte nel settore delle costruzioni (L'altra Tavagnacco. L'emigrazione friulana in Francia tra le due guerre, Comune di Tavagnacco 2003). Imprenditore edile e fervente socialista, Luigi si stabilisce nella zona della Champagne dove nascono i due figli. Poco dopo la famiglia si sposta a Parigi, dove il piccolo Paul frequenta le scuole. Lui e sua sorella vengono iscritti all'anagrafe come cittadini francesi, così da garantire maggiore solidità all'attività imprenditoriale del padre. «Per poter avere un'impresa tutta sua doveva naturalizzare i figli», spiega Paul. Ogni estate moglie e figli trascorrono un paio di mesi nella casa dei nonni in Friuli. A parte una volta, quando la madre decide di fare ritorno dopo pochi giorni in Francia - «I carabinieri venivano sempre a chiedere di mio padre e mia madre aveva preso paura». Nel 1941, con il conflitto bellico ormai endemico, la situazione si inverte e la famiglia cerca tranquillità lontano da Parigi, nella regione natia. Il padre arriverà però solo nel 1943, alla caduta del Fascismo.

«Mio padre in Francia non si interessava molto di politica, pensava più al lavoro e alla famiglia, comunque non ha mai fatto mistero delle sue idee e io sono cresciuto in un ambiente antifascista».

Paul non può dimenticare il cugino impiccato dai tedeschi a Premariacco assieme ad altri dodici partigiani nel 1944. Un eccidio tra i più terribili compiuti durante l'occupazione nazista del Litorale Adriatico.

Il giovane Paul, che parlava francese e friulano – «L'italiano l'ho praticato quando ci siamo stabiliti qua» - e aveva appena finito le scuole medie a Parigi, si trova in una terra che conosceva solo come luogo delle vacanze. Comprende in quel momento la sua diversità rispetto ad un ambiente rurale ancorato al passato: «La mentalità di qui era diversa, per me non fu facile abituarmi». Trova lavoro come apprendista meccanico in un'officina e poi come fabbro, mentre frequenta dei corsi di disegno industriale a Spilimbergo. Alla caduta del Fascismo entra in contatto con la nascente Resistenza e diventa uno dei più giovani partigiani della zona. Affianca i più anziani (tutti ex emigranti, alcuni con alle spalle la partecipazione alla Guerra di Spagna) nelle operazioni facendo da corriere. Un'esperienza, quella della Resistenza, che oggi ricorda con amarezza, per quanto ne è seguito.

«Io ero poco più che un ragazzino, ma sentivo forte il bisogno di ribellarmi contro il Fascismo, purtroppo oggi vedo che la memoria della Resistenza non è rispettata. Qui trovi sempre quello che ti ricorda che i partigiani hanno rubato una vacca o fatto qualcosa che non andava. Non è giusto, in Francia e in altri paesi la Resistenza è una memoria condivisa da tutti, ma qua non è così».

Il rapporto di Paul con la terra dove ha scelto di passare la vecchiaia non è idilliaco. Un tratto che, purtroppo, è comune a molti emigranti rientrati. In alcuni paesi del Friuli esiste perfino un termine non troppo cortese per definire chi rientra al paese dopo anni di vita all'estero: raventāts. Letteralmente, trapiantati. Paul non è propriamente uno di essi, perché i suoi natali non sono legati all'Italia, ma il meccanismo che deve aver subito è lo stesso. Questo rapporto di attrazione-repulsione verso la terra dei suoi genitori sarà un fattore decisivo nella scelta di partire che prenderà alla fine della guerra.

«Dopo la guerra volevo tornare in Francia a ogni costo. Avevo il passaporto francese e quindi non avevo problemi ad entrare. Sono tornato a Parigi, dove dopo poco tempo ho trovato lavoro nella metropolitana come meccanico».

La situazione non è tuttavia destinata a durare perché c'è di mezzo la chiamata al servizio militare, che per un figlio di immigrati significa quasi certamente l'invio nelle zone critiche del Nord Africa, nell'Algeria inquieta dove venivano segnalati i primi atti di guerriglia del Fronte di liberazione nazionale. Paul è intimorito da questa possibilità e ripara in Belgio, dove la sorella si è intanto stabilita col marito.

«Lì mi sono trovato bene. Per gli italiani in Belgio l'unico destino possibile era quello della miniera, e di italiani ce nerano tanti, ma per fortuna io avevo un passaporto francese e ho trovato un buon lavoro come meccanico. Al consolato mi hanno detto che potevo stare alcuni mesi e mi hanno messo in allerta sulla chiamata. Volevano che tornassi in Francia per assolvere i miei doveri. Allora ho deciso di farla finita, ero stufo di queste pressioni, e ho rinunciato alla cittadinanza francese. Se ci penso ho fatto male, potevo cercare di avere la doppia nazionalità, ma in quel momento non volevo avere più storie coi francesi».

La decisione è brusca, ma dettata anche dal fatto che la sua esperienza di partigiano gli valeva l'esonero dal servizio militare in Italia. Ora italiano in Belgio, Paul potrebbe continuare indisturbato il suo lavoro ma riceve una lettera dal padre, dall'Italia, che gli chiede di rientrare.

Appena finita la guerra Luigi era stato nominato sindaco di Spilimbergo. Era uno dei più noti antifascisti della zona e gli venne chiesto di assolvere il ruolo prestigioso ma gravoso di primo sindaco dopo la Liberazione dal nazi-fascismo. L'esperienza durò poco più di un anno. «Era un lavoro impegnativo e del tutto gratuito», racconta il figlio. Chiusa quell'esperienza Luigi esclude per il momento di riprendere la strada dell'emigrazione e si ripropone di avviare una nuova attività assieme al figlio, questa volta in Friuli. E Paul arriva.

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Pagina 107

Lo scrittore metalmeccanico


Che fine hanno fatto i libri della biblioteca scolastica?

Mentre porgo la domanda mi sento come uno che si informa sulle condizioni del campo di grano quando la casa del contadino è stata spazzata via da un uragano che ha travolto anche gli abitanti. Mi mordo la lingua, ma ormai è fatta.

Bozidar non si scompone, ha accettato, spera per l'ultima volta, di ripercorrere gli ultimi quindici anni della sua vita e per lui questa domanda è uguale alle altre.

«Una mia collega è andata alla scuola dopo che era stata trasformata in caserma dai soldati della forza di pace. Le hanno detto di guardare in cortile. Lì, gettati alla rinfusa in mezzo alla neve, c'erano i libri della biblioteca assieme a vari materiali didattici. Ne ha recuperati alcuni, quelli messi meglio, ma i più erano ormai inservibili».

I libri della scuola, il liceo di Maglaj, cittadina di quindicimila abitanti a centoventi chilometri a nord di Sarajevo, erano un po' anche i suoi. Per dodici anni in quell'istituto era stato docente di lettere.

«Ero il responsabile della biblioteca, nel corso di vari anni avevo raccolto circa quattordicimila volumi. Prima della guerra era probabilmente la più grande biblioteca scolastica della provincia».

Il destino seguito dai libri del liceo di Maglaj, dispersi alla rinfusa in un territorio estraneo a quello consueto, sembra lo stesso delle migliaia di bosniaci finiti in cinquanta stati del mondo, fuggiti dal loro paese in guerra trasformati dall'oggi al domani in profughi, emigranti coatti, rifugiati, nuovi apolidi. Č stato calcolato che in seguito alle guerre che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia circa cinque milioni di persone hanno cambiato indirizzo: più di un quinto della popolazione registrata nel paese nel 1990. Sono sfollati in altre zone del territorio del defunto stato federale oppure all'estero. Bozidar è uno di loro. Ha lasciato la Bosnia nel 1992, l'anno in cui in quella Repubblica tutto è cambiato, e dopo una peregrinazione lunga alcuni mesi è arrivato in Italia. Oggi vive con la moglie e il figlio in una casa di paese, acquistata attraverso un mutuo, a pochi chilometri da Udine.

La sua storia mi aiuta ad entrare nei gangli della guerra più vicina, temporalmente e geograficamente, a casa nostra dopo la Seconda Guerra Mondiale. Č anche un modo per comprendere una delle ragioni alla base delle migrazioni moderne. In un mondo in squilibrio permanente sono sempre più numerosi coloro che fuggono da situazioni di guerra, di violenza istituzionalizzata, di paura. I conflitti dell'ex Jugoslavia hanno provocato un'emorragia di persone verso l'estero. In Friuli Venezia Giulia, l'area in Europa occidentale più prossima al teatro del conflitto, i cittadini delle Repubbliche dell'ex Jugoslavia costituiscono quasi un terzo della popolazione straniera extracomunitaria, sono il gruppo più numeroso e questo è un tratto che distingue la fisionomia del fenomeno migratorio della regione rispetto al resto d'Italia. Fra di essi, sono in maggior numero coloro che provengono da Serbia, Montenegro e Kossovo, subito dietro vengono le comunità croata, bosniaca, macedone e, infine, quella slovena. Si tratta di circa 16 mila persone su di una popolazione straniera che conta circa 52 mila persone.


Nella primavera del 1992, anche chi in Bosnia non riusciva a concepire il conflitto etnico che stava lacerando la repubblica federale, dovette aprire gli occhi su di una realtà diversa. I segnali che la situazione stava degenerando erano più d'uno. Già a gennaio era stata proclamata una inedita "Repubblica del popolo serbo di Bosnia Herzegovina". Come ricorda lo storico Joze Pirjevec nel suo saggio Le guerre jugoslave 1991-1999 (Einaudi 2001, pp. 123-124), il leader dei serbi di Bosnia, lo psichiatra-poeta Radovan Karadzic, da tempo aveva espresso in un verso cupamente premonitore la sua aspirazione anti-borghese: «Assaliamo le città, per ammazzare le vipere». E l'indizio che conduce alla lettura che molti osservatori diedero della guerra di Bosnia: più che un conflitto interetnico, uno scontro premeditato tra città (centro di convivenza e cultura) e campagna (dove era più facile mitizzare la purezza etnica). Non fu forse così sempre e ovunque ma la storia del conflitto ha offerto molte conferme di tale fenomeno. L'esercito jugoslavo aveva in quel momento sul territorio della Bosnia più di metà del suo potenziale bellico, i musulmani e i croati stavano creando le rispettive milizie paramilitari. Mentre le tre componenti nazionali - serba, croata e musulmana, quest'ultima definita nei censimenti ufficiali anche come "bosniaca" - si avviavano verso un destino fratricida fomentato da dirigenti e leader politici senza scrupoli e da interessi internazionali, una maggioranza silenziosa insisteva nel desiderare una soluzione pacifica dei problemi. Bozidar faceva parte di questa maggioranza.

«Il sei aprile (giorno in cui la Comunità europea riconobbe l'indipendenza della Bosnia Herzegovina dopo un referendum a cui aveva partecipato il 64 per cento degli aventi diritto, n.d.r.) con l'associazione di cui ero presidente organizzammo una manifestazione pacifista in un cinema. Vennero così tante persone che dopo un po' dovemmo spostarci in strada e alla sera ci trovammo in circa ottomila persone. La guerra non ci serve, dicevamo. C'erano operai, studenti, persone di tutte le età. Ma i governanti delle tre etnie ormai la pensavano diversamente».

La vita, nella cittadina di Maglaj, non fu più la stessa. Il conflitto entrò nelle vite delle persone, scavando solchi tra le famiglie, i quartieri, i colleghi di lavoro.

«In Bosnia dagli anni sessanta in poi i bambini nati da matrimoni misti erano circa il trentacinque per cento, ma credo che nella mia scuola la percentuale superasse il cinquanta. Un giorno, una mia allieva mi disse che nel suo condominio non c'era nessuno di razza pura. Io difendevo con la forza delle parole questa complessità, ero contro la guerra, ogni forma di guerra, io stesso non posso che definirmi jugoslavo, mia moglie è di origine croata, io serba-bosniaca, ma chi deteneva il potere aveva un'altra idea. A un certo punto il clima divenne impossibile, ogni forma di dialogo impraticabile. Un consigliere comunale chiese il mio licenziamento perché, disse, "Non si può accettare che gente così insegni ai nostri figli". Ma io parlavo di pace, loro di guerra. Venni minacciato più volte. Alla fine, fuggimmo, di notte, senza pensare che non avremmo più fatto ritorno».

Da alcune settimane le milizie serbo-bosniache avevano cominciato a bombardare Sarajevo. L'assedio di quella che era il luogo simbolo dell'incontro di culture della Jugoslavia sarebbe durato quattro anni.

«Il giorno dopo il primo bombardamento di Sarajevo sulla lavagna della mia classe trovai una scritta: Noi non vogliamo dividerci. Non vogliamo la guerra, vogliamo la pace».

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Pagina 134

Tenacia femminile


Da bambino ricordo di aver visto, a casa dei nonni materni, una foto che ritraeva alcuni uomini vestiti a festa in piedi su di un promontorio che sovrastava una città di mare. Il paesaggio alle spalle di questi uomini, tra i quali c'era mio nonno, era carico di suggestioni. Il porto, le navi, il golfo, apparivano disegnati da quanto erano perfetti e il bambino ne rimaneva affascinato. Sul retro della fotografia una fugace nota ricordava l'occasione e il luogo in cui era stata scattata: Pasqua del 1940, Durazzo, Albania.

Fu con quell'immagine in mente che, cinquantuno anni dopo la data riportata sulla foto, aprii gli occhi sulla realtà dell'Albania e di quella città che mi era apparsa così suggestiva da bambino. Nel mese di marzo del 1991, dallo stesso porto dove era sbarcato mio nonno per sostenere le ambizioni imperiali del Duce, partivano vecchie navi cariche di uomini e donne di ogni età. Più tardi si contarono in circa ventimila gli albanesi che, quasi presi da un raptus escapistico, nell'arco di poche settimane erano saltati a bordo di questi scafi malandati con l'idea di raggiungere l'Italia e sfuggire così dalle incertezze dell'Albania post-comunista.

Ana e le sue tre bambine erano a bordo di una di queste navi.

Alcuni mesi prima, nell'estate del 1990, l'Abania era stata scossa dalle prime manifestazioni di protesta pubbliche in quarantacinque anni, quanto era durato il duro regime nazional-comunista retto per quasi tutto il tempo da Enver Hohxa, morto nel 1985. Migliaia di persone si erano riversate all'interno delle ambasciate dei paesi occidentali chiedendo asilo. Circa 800 di esse vennero accolte in Italia, ricevute con benevolenza in quanto "dissidenti" di un regime in via di sfaldamento in un paese con forti legami con il nostro. Per loro, i primi immigrati albanesi, la strada dell'asilo politico non fu difficile, ma bastarono pochi mesi e un certo numero di navi perché il clima generale cambiasse, e degli albanesi si cominciasse a parlare con toni diversi, sempre più orientati verso l'allarmismo, l'insofferenza, per finire nel razzismo.

Fra quei primi fortunati accolti da profughi in Italia c'era il marito di Ana, anzi l'ex marito, visto che da circa un anno vivevano separati. Oggi entrambi risiedono in Friuli, in paesi diversi della provincia di Udine. Lei ha con sé le tre bambine, ormai diventate ragazze, e convive con un friulano.

Ana è una donna minuta di 46 anni, ha uno spirito istintivamente comunicativo e gioviale. Mentre mi racconta la sua storia, le sue tre figlie, due gemelle di quindici anni e la maggiore di venti, siedono attorno a noi, sedute sul divano e sul tappeto, intervenendo con commenti e richieste di chiarimenti. Parte della storia familiare è poco nota anche a loro, che sono cresciute in quello che considerano, legittimamente, il loro paese. Per la mamma è diverso, anche se tutti i suoi parenti ormai vivono in Italia il legame con l'Albania è ancora forte.

«Se non ci fossero state le bambine, sarei tornata in Albania», dice riferendosi ai primi tempi. Ma oggi la situazione è cambiata. Da alcuni anni si è legata ad un uomo di qua, che ha costruito con lei, le sue figlie e la nonna arrivata dall'Albania, una nuova famiglia. Insieme hanno deciso di comprare casa e per questo stanno pagando un mutuo.

«Per comprare casa ho dovuto vendere il mio appartamento a Durazzo e un po' mi dispiace. Se avessi soldi, mi piacerebbe avere una casa anche là per andare a trascorrere le vacanze. Quella rimane pur sempre la mia terra».


In Italia Ana in un primo momento non ci voleva venire. In Albania aveva un lavoro da infermiera, un lavoro che le dava soddisfazione. Aveva lavorato per molti anni nell'ospedale cittadino e dopo il parto gemellare era passata in servizio presso un istituto per bambini abbandonati. Riusciva a gestire la sua vita professionale anche con le tre bambine, che dopo la separazione dal marito aveva scelto di crescere da sola, con l'aiuto dei familiari. Raggiunta rocambolescamente l'Italia, l'ex marito aveva tuttavia cominciato a scriverle. Nelle sue lettere le descriveva la nuova situazione, diceva di essere cambiato, le faceva promesse di una nuova vita, lontana dalle tensioni che scuotevano quello che era stato il paese più silenzioso del mondo. La moglie e le bambine costituivano ancora la sua famiglia, una famiglia che in Italia diceva di voler riprovare a tenere unita. Ana per alcuni mesi tentennò di fronte alle promesse dell'uomo.

Quella sera, era tardi, le undici passate, quando un fratello dell'ex marito suonò alla sua porta dicendole di prendere le bambine e seguirlo subito al porto dove stava salpando una nave per l'Italia, lei disse istintivamente di no. Non voleva gettarsi in un'avventura. Il cognato insistette, disse che una donna sola con tre bambine nell'Albania di quei giorni non ci poteva stare. Nella sua vita serviva la presenza di un uomo, e quell'uomo era il marito che le voleva in Italia.

«Mia madre mi disse di non fidarmi del mio ex marito, che non sarebbe cambiato neanche in Italia».

Arrivarono al porto in mezzo ad una grande confusione. La "Tirana" era zeppa di persone ma nessuno controllava quante ce ne potessero stare.

«Secondo me c'era un accordo tra i governi, non mi spiego come fu possibile che le navi partissero in quelle condizioni».

La partenza venne ritardata da un incidente avvenuto nel porto, un incendio scoppiato su di un'altra nave ferma nella rada. La tensione saliva, nessuno capiva e spiegava niente, la gente cominciò a scendere precipitosamente, Ana prese le bambine per mano e tornò a casa.

«Io in Italia così non ci vado», disse ai parenti. Ma il giorno dopo uno dei suoi fratelli venne ad avvisarla che la nave quel giorno sarebbe effettivamente partita e lei doveva esserci. Doveva portare le bambine lontano dal caos.

Erano giornate terribilmente confuse. Pochi giorni prima, il 20 febbraio, a Tirana gruppi di manifestanti avevano demolito la grande statua di Enver Hoxha senza che la polizia intervenisse. In un paese che aveva convissuto con il più longevo e spietato culto della personalità dell'intero blocco comunista, era un segnale inequivocabile di una situazione ormai fuori controllo. Il governo di Ramiz Alia, il successore di Hoxha, vacillava di tronte alla crisi economica, alle proteste popolari e alle promesse populiste di Sali Berisha e del suo Partito democratico, ben presto finanziato dalla potente comunità albanese degli Stati Uniti.

«Mi convinsi a partire per le bambine. In Albania non si stava tranquilli, c'erano furti, violenze, cose mai viste prima».

La sera successiva alla partenza fallita, la nave alfine riuscì a salpare.

Ana dice di aver rimosso tutto quello che successe nelle venti ore successive, quante ne passarono prima di raggiungere Brindisi e l'Italia. Rimase stordita dal fatto di trovarsi sul ponte ammassata accanto ad altre persone senza una valigia, una borsa, nulla. Tutti erano saliti sulla nave con indosso solo i vestiti e una speranza senza fine. Anche lei e le sue bambine non avevano portato bagagli, solo una borsa con un po' di cibo. La figlia più grande, che al tempo era una bambina di sette anni, ricorda che erano gli unici ad avere del cibo e dell'acqua.

«Quello che avevamo portato finì in pochi minuti, non potevamo mangiare solo noi con tutti quegli occhi di bambini che ci guardavano», dice la ragazza.

Ana visse il viaggio con l'angoscia di proteggere le sue bambine da una situazione assolutamente precaria. Non c'era modo di utilizzare dei servizi igienici, tutto avveniva sul ponte, allo stesso modo per i grandi e per piccoli, con le conseguenze che si possono immaginare.

La nave arrivò a Brindisi la sera successiva ma lo sbarco venne autorizzato solo il mattino dopo. Pur nella confusione generale, l'accoglienza fu positiva. La madre con le tre bambine venne fatta scendere tra i primi e accompagnata in ospedale per un controllo. Poi furono accompagnate in un campo di accoglienza dove, a distanza di un giorno, vennero raggiunte dal marito e padre.

«Oltre all'angoscia per quel viaggio, dentro di me non ero tranquilla, mi ero portata dietro un grande dubbio, non ero convinta di riprendere la vita con lui, ma decisi di dargli fiducia».

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