Copertina
Autore Laura Mautone
CoautoreAliprandini,Banda,Bonura,Comida,Forza, Jelincic,Kosuta,Kravos,Lekovich,Locane, Mall,Rebula,Sosic,Spirito,Valente
Titolo Verso dove
SottotitoloScritture di confine da Merano a Trieste
EdizioneFernandel, Ravenna, 2003, Laboratorio 5 , pag. 160, dim. 140x200x10 mm , Isbn 978-88-87433-35-7
CuratoreLaura Mautone
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe narrativa italiana
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Indice

Prefazione, di Laura Mautone                  3

ORIZZONTI LINGUISTICI

Marco Aliprandini, Komisch                    7
Sepp Mall, Stottern (Balbettio)              15
Alessandro Banda, Re fuso                    25
Kenka Lekovich, Smòlcik e Krèmsnita          33

ORIZZONTI GEOGRAFICI

Francesco Locane, Passeranno anche stanotte  59
Pietro Spirito, Passaggi di confine          63
Beppe Bonura, Sudnordsud                     69

ORIZZONTI TEORICI

Miran Kosuta, La profezia di Dzevad          75
Alojz Rebula, Vive l'empereur!               87
Paolo Valente, Trista felicità               97

ORIZZONTI GENERAZIONALI

Massimiliano Forza,
    Il linguaggio segreto del tre           105
Marko Kravos, Tempi brevi                   113
Marko Sosic, Balerina                       131
Dusan Jelincic,
    Quel campo da calcio dei sogni spezzati 137
Luciano Comida, L'ultima frontiera del
    vecchio disertore e le strategie
    della giovane apprendista               147

Gli autori                                  155

 

 

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Pagina 15

Sepp Mall
Stottern (Balbettio)



Mia madre aveva un profumo leggero, fuggevole. Era un profumo che mi ricordava i giorni freschi di primavera, in cui la neve fuori dalla finestra si andava semplicemente sciogliendo. Aveva anche qualcosa di quei flaconi blu trasparenti, appoggiati in fila uno vicino all'altro nel nostro bagno, nei quali la mamma conservava il prodotto per ossigenare i capelli. Qualche volta, però, ero sicuro che non fosse nient'altro che il profumo delle sue lacrime. Mia madre lo raccoglieva nel suo fazzoletto, lo portava in giro per tutta la casa e era colpa di mio padre.


Da quando non era più con noi la mamma piangeva. Percorreva su e giù le scale dell'appartamento e parlava da sola. Lui, mormorava tra sé, lui, lui. Poi correva via da noi, più lontano possibile, su per gli scalini nel corridoio, nella stanza da letto. Lì piangeva a dirotto, a pancia in giù sul letto e noi la guardavamo da sotto il pianerottolo delle scale attraverso la porta rimasta spalancata. Non è niente, gridava con voce strozzata, quando si accorgeva di noi e ci rispediva di nuovo di sotto.

Certe volte le lacrime scorrevano anche a tavola. Mentre distribuiva i piatti, i rigagnoli scivolavano sulle sue guance e niente sembrava poter fermare il loro flusso. Prendeva la pentola dal fuoco e la portava sul tavolo, riempiva i nostri piatti e le gocce cadevano nella minestra, sulla carne, sulla polenta.

Io guardavo mia sorella e lei guardava me e le lacrime che noi mangiavamo corrodevano le nostre corde vocali. Noi spalancavamo le nostre bocche e non emettevamo alcun tono.

Spingevamo muti il cibo dentro di noi e spiavamo nostra madre con la coda dell'occhio. Pulivamo i nostri piatti fino agli ultimi resti e non litigavamo su chi doveva aiutare a lavare i piatti. Ma anche questo non sembrava esserle di alcun conforto.


Erano venuti a prendere mio padre una mattina. Mi ero svegliato a causa dello scalpiccio sulle scale e quando arrivai in cucina, non c'era già più.

I cassetti erano scaraventati a terra e in mezzo agli oggetti sparsi c'era la mamma, che diceva che lui sarebbe tornato presto. Stava lì come se fosse una delle cose buttate fuori dalla credenza. Torna presto, diceva con voce atona e anche Maria lo ripeteva, torna presto, domani, dopodomani.

Ma lui non tornò mai più. Non il giorno dopo, nemmeno quello dopo ancora. L'appartamento venne rimesso in ordine, i cassetti richiusi; io davo alla mamma i vestiti e i documenti e Maria andava da una camera all'altra con la scopa. Così passavano le settimane e l'unica cosa che arrivò fu una lettera che ci venne recapitata da un avvocato. La mamma corse alla stazione di polizia, nella chiesa, dagli avvocati, ma questo non cambiò nulla. Lentamente mi abituai al fatto che una sedia a tavola rimanesse vuota e che la mamma ci fuggisse.


Durante l'ora di italiano Herbert mi chiese che cosa aveva fatto mio padre.

Niente, dissi io, proprio niente.

Per niente non si finisce in prigione, disse Herbert. Forse ha ucciso qualcuno, chi lo sa, e fece il segno della ghigliottina con la mano stesa sulla sua gola.

Alla pausa mi portò via dagli altri, perché pensava che non tutti dovessero sapere quella faccenda di mio padre. Ci mettemmo dietro i tigli, dove c'erano i bidoni delle immondizie e Herbert divise a metà il suo panino con la marmellata. Me ne offrì una e disse, che non era quello che intendeva dire. Quella cosa con l'omicidio e così via.

Ma è innocente, dissi io, di certo.

Questo lo dicono tutti, disse Herbert.


Mia madre era semplicemente portata al pianto. Lo diceva qualche volta tra sé e sé, quando non riusciva a frenare il flusso delle lacrime e si accorgeva che noi la osservavamo attoniti. Poi scoppiava a ridere. E io sentivo questa acqua quando tornavo a casa e percorrevo il corridoio, la sentivo quando al campo da calcio aprivo la mia borsa con la maglietta appena lavata e qualche volta perfino quando la sera stavo a letto e fissavo il soffitto. Era dappertutto.

Alta umidità dell'aria, mi prendeva in giro mia sorella e fingeva che per lei tutto ciò non contasse nulla. Ma poi sbatteva le porte e ci mandava tutti al diavolo.

Quando ero da solo con la mamma, qualche volta mi attirava a sé e mi serrava contro la sua pancia, dove le sentivo battere il cuore. Lei sussurrava che non avrei mai dovuto lasciarla, mai, mai e mi abbracciava con tutte e due le braccia. Io scuotevo la testa, volevo dire di no e cercavo di prendere aria nella cavità della sua pancia. Il fazzoletto fradicio nel suo grembiule mi si schiacciava tra la bocca e il naso e io dovevo colpirla con le mani per liberarmi prima di svenire.

Dobbiamo stare uniti adesso, diceva la mamma, tutta la famiglia.

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Pagina 25

Alessandro Banda
Re fuso



            al Barone Maximilian von Krafft,
            disinteressato mecenate
A me non piacciono gli scrittori. Non mi piace la letteratura. I critici letterari, poi, mi fanno letteralmente schifo. La lettura in sé, è una cosa che detesto.

Se devo scegliere tra la lettura (anche una lettura come «Topolino» o «Zagor» o fumetto affine) e una partita in televisione (anche di serie B, anche poco rilevante e giocata da brocchi sfiniti), be': io scelgo sempre la partita. Immancabilmente.

Tra tutte le cose belle che si possono fare nella vita: una lunga passeggiata, una gita in campagna, una bevuta al bar con gli amici, il cinema, il letto (nel senso dell'eros e nel senso del relax), ma perché leggere? E, soprattutto, perché scrivere?

Cosa ci troveranno mai quei debosciati che passano il tempo ad allineare parole, una dopo l'altra, e righe, una sull'altra, e paragrafi e pagine e pagine, e capitoli? Chi lo sa? Sono così belle le pagine bianche, pulite, immacolate, le pagine di quei quaderni grandi senza righe, senza quadretti, senza niente, solo il bianco, il loro bianco indifeso...


Insomma, i letterati non mi piacciono, però ho un amico scrittore, poveretto. (Poveretto lui, s'intende.)

Questo mio amico scrittore - un giovanotto socievole che prende la vita come viene - è anche un tipo simpatico, a parte il fatto che è uno scrittore e scrive, appunto, scrive e scrive. Però è simpatico. E scrive solo quando deve, quando non ne può proprio fare a meno. Scrive per necessità. (Anche se è capace di scrivere su commissione, volendo.) E pubblica poco. Cioè: pubblica anche abbastanza, a dire il vero, ma poco rispetto a quello che scrive, benché scriva, come detto, solo lo stretto necessario. Ma il suo necessario, si vede, non è poi così stretto. Č un necessario piuttosto largo.

Questo mio amico scrittore nonché giovanotto gradevole ha una particolarità che lo contraddistingue. O meglio: che contraddistingue i suoi scritti. Tutto quello che scrive, quando glielo pubblicano, si riempie di refusi.

Quando me l'ha detto (che le sue pagine pubblicate sono piene di refusi) io l'ho guardato con aria interrogativa. «Ma che sono 'sti refusi?» gli ho chiesto. «Errori di stampa» mi ha risposto. «Ah» gli ho detto io. Č così. Qualunque sua pagina su qualsivoglia argomento, ogniqualvolta veda la luce, esca dal buio dei cassetti, zac, è tutta un refuso, una caterva di refusi.


Nella sua lunga carriera di scrittore (ma non troppo lunga, abbastanza lunga, è ancora giovane, dopo tutto) nella sua carriera di scrittore è sempre stato accompagnato dai refusi.

Dapprima i refusi avevano riguardato i titoli. Solo i titoli. Dei suoi racconti.

Per esempio: aveva scritto, con uno stile molto partecipe, la storia di una donna di nome Veronica, il cui titolo era Esiti sulle scale: un delicato resoconto su questa donna timida (di nome Veronica) che non si sapeva mai decidere a suonare alla porta dell'uomo di cui era innamorata. E, a stampa, se l'era ritrovato, il titolo del delicato resoconto, trasformato in Esisti sulle scale: l'inferno di una barbona.

Aveva elaborato un pezzo gustoso il cui protagonista aveva la mania del francese, delle espressioni in lingua francese, che metteva dappertutto, come il prezzemolo (persil), e il pezzo si chiamava, ovvio, Francesismo. Ma, sulla rivista che gliel'aveva ospitato (gloriosa rivista ora defunta) era comparso come Franceschino.

Deluso dalle narrazioni intimiste e dalle stravaganze linguistiche s'era dato all'avventura. No, non lui. Non era un tipo avventuroso. Aveva tentato il racconto d'avventure: Cercatori d'ambra, una vicenda ricca di colpi di scena. Come al solito, il quotidiano (era un quotidiano questa volta) che gliel'aveva stampata, questa storia movimentata, l'aveva fatta diventare Cercatori d'ombra, titolo mistico, o monastico, niente a che vedere con l'avventura.

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Pagina 137

Dušan Jelincic
Quel campo da calcio dei sogni spezzati



Stasera ho finito presto il lavoro in redazione. Non mi succede spesso. Che faccio, vado a casa? Con la testa ancora in fibrillazione, in cui si sovrappongono notizie di agenzia, articoli e telefonate, non riuscirei a dormire. E poi c'è un bel cielo terso disseminato di stelle. Ideale per evocare ricordi e vorticarli nell'universo infinito... Salgo in macchina e parto per le rive illuminate e ancora piene di gente, soprattutto vicino ai ristoranti di pesce e alla gelateria di moda sul molo della pescheria.

D'estate Trieste si trasforma. La gente va sul Carso a respirare aria fresca, e se resta in città se ne va nelle trattorie o nei bar all'aperto a giocare a carte e a chiacchierare fino a mezzanotte e oltre. Rallento in vicinanza del molo Audace, poi cambio idea. Per i miei gusti c'è ancora troppa gente per passeggiare. E ancora troppo chiasso. Proseguo e mi immergo nella pace del passeggio Sant'Andrea. Lì ci sono gli aceri e i castagni che ti avvolgono nella loro calma e disponibilità. La passerella del Porto nuovo è già alle mie spalle e non ho ancora deciso dove andare. Non girerò con la macchina tutta la notte, come facevo con la vecchia Seicento dei miei vent'anni pieni di gioia, speranza, felicità e disperazione.

Alla fine dell'autostrada, tra tutti quei piloni sinistri, intravedo un edificio familiare, uno di quelli che mi entrarono nel cuore in tenera età senza più uscirne: la torre dei Lloyd. Sento un sollievo dentro di me e appena dopo ne comprendo il motivo. Poco avanti svolto a destra, infilo la strada che tra le case, la ferrovia e il verde trascurato dei rovi polverosi va verso la torre, e infine parcheggio. Il mio viaggio per adesso è finito. Scendo dalla macchina e indeciso infilo i gradini che portano su quello che una volta era un campo da calcio. Infine mi fermo, mi guardo intorno e mi siedo sul muretto. Stento a riconoscere il posto.

Là dove una volta c'era il campetto, il nostro campo da calcio, si ergono scuri i pilastri dell'autostrada, e nascoste tra i rovi e rifiuti di ogni genere - tra cui, chissà perché, in prevalenza materassi - ci sono ancora le porte. Rovesciate, arrugginite, rotte, dimenticate. Qui ho passato buona parte della mia gioventù, che con questo chiaro di stelle sta pian piano tornando in me.



«Sc'iavo, sc'iavo!» gridava Giacomo, un bambino che fino ad allora avevo ritenuto mio amico. Non compresi quelle parole, ma mi ferì il tono offensivo con cui venivano pronunciate. Quell'altro, sporchetto e trascurato, Franco, figlio del calzolaio, si avvicinò a me e a mio fratello Zlatko e mi sputò in faccia delle stilettate di disprezzo che ancora non capivo: «Vergognosi! Vergognosi!» Io biascicai uno stupito «Perché?», ma lui continuò: «Vergogna! Vergogna! Mio papà dice che dovreste vergognarvi! Andate via! Andate via!»

Quando ce ne tornammo a casa piangenti mio padre mi spiegò, come si spiega a un bambino, che in questo mondo esiste ancora della gente cattiva che ce l'ha con qualcuno per delle cose che appartengono al passato e vomitano il loro odio su creature innocenti, creando altro odio. Chissà perché allora mi venne in mente un particolare: una gigantesca carta geografica dell'Istria che il calzolaio teneva nella sua bottega.

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