Copertina
Autore Margaret Mazzantini
Titolo Venuto al mondo
EdizioneMondadori, Milano, 2011 [2008], Oscar Grandi Bestsellers , pag. 534, cop.fle., dim. 14x21,5x3,4 cm , Isbn 978-88-04-59942-5
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa italiana
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Indice


  9 Il viaggio della speranza
 39 Fu Gojko a portarmi
 63 Mi rinfilai nella mia vita
 95 Aspettiamo nella hall
130 Cosa ricordo di quel giorno?
155 È una chiesa
182 A Dubrovnik il sole galleggiava
204 Andò in fretta
216 Siamo seduti in business
252 Pietro si rigira nel letto
285 La donna della locanda
316 Guardo il cielo fuori
339 Batterie, vitamine, lampade da campeggio
368 Dopo la pioggia escono lumache
388 Pietro è davanti allo specchio
426 La porta si apre sul silenzio
436 La telefonata arrivò a papà
454 I bagagli sono chiusi sul letto
467 Stiamo lasciando Sarajevo
481 Il giorno è cielo vivo
520 Cammino sulla sabbia

531 Ringraziamenti


 

 

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Pagina 9

Il viaggio della speranza



Il viaggio della speranza... parole residue, tra le tante in fondo alla giornata. Le ho lette in farmacia, su un bussolotto di vetro accanto alla cassa, c'era l'asola per infilare i soldi e la fotografia di un bambino appiccicata con lo scotch, uno di quelli da portare lontano per tentare un'operazione, un viaggio della speranza, appunto. Mi giro sul cuscino, macino respiri sonori. Guardo il corpo di Giuliano, fermo, pesante. Dorme come dorme lui, supino, a torso nudo. Dalla bocca ogni tanto cava fuori un piccolo grugnito, come una bestia placida che scaccia moscerini.

Speranza, penso a questa parola che nel buio prende forma. Ha la faccia di una donna un po' sgomenta, di quelle che trascinano la loro sconfitta eppure continuano ad arrabattarsi con dignità. La mia faccia, forse, quella di una ragazza invecchiata, ferma nel tempo, per fedeltà, per timore.

Esco sul terrazzo, guardo il solito. Il palazzo dirimpetto al nostro, le persiane accostate. Il bar con l'insegna spenta. C'è il silenzio della città, polvere di rumori lontani. Roma dorme. Dorme la sua festa, il suo pantano. Dormono le periferie. Dorme il papa, le sue scarpe rosse sono vuote.


La telefonata arriva al mattino molto presto. Sussulto per lo squillo, inciampo lungo il corridoio, forse urlo per sembrare sveglia.

«Chi è?»

C'è rumore nella cornetta, come vento in fuga tra i rami.

«Posso parlare con Gemma?»

L'italiano è buono, ma le parole sono troppo scandite.

«Sono io.»

«Gemma? Tu sei Gemma?»

«Sì...»

«Gemma...»

Ripete il mio nome e adesso sta ridendo. Riconosco questa risata rauca, strappata... mi salta addosso in un attimo.

«Gojko...»

Fa una pausa. «Sì, il tuo Gojko.»

È un'esplosione ferma. Un lungo vuoto che si riempie di detriti.

«Il mio Gojko...» balbetto.

«Proprio lui.»

Il suo odore, la sua faccia, i nostri anni.

«Sono mesi che provo a cercarti attraverso l'ambasciata...»

Ho pensato a lui pochi giorni fa, per strada, dal niente, da un ragazzo che passava e forse gli somigliava.

Parliamo un po': Come va? Che fai? Ho vissuto qualche anno a Parigi e adesso sono di nuovo a casa...

«Organizzano una mostra per ricordare l'assedio... ci sono anche le fotografie di Diego.»

Il freddo del pavimento si arrampica sulle gambe, si ferma nella pancia.

«È un'occasione.»

Ride ancora, come rideva lui, senza una vera allegria, piuttosto per consolare quella tristezza lieve ma perenne.

«Vieni.»

«Ci penso, sì...»

«Non devi pensarci, devi venire.»

«Perché?»

«Perché la vita passa, e noi con lei. Ti ricordi?»

Certo che mi ricordo...

«E ride di noi, come una vecchia puttana sdentata che aspetta l'ultimo cliente...»

I versi di Gojko... la vita come una lunga ballata. Ora mi ricordo il suo modo di toccarsi il naso, di schiacciarselo come cera molle mentre dice quei versi che scrive sulle scatole dei cerini, sulle mani. Sono in mutande, ho i piedi nudi. Gojko è vivo, è sempre stato vivo. Di colpo mi chiedo come ho fatto a rinunciare a lui per tutto questo tempo. Perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?

«D'accordo, vengo.»

Il fango fermo della vita ora è polvere che vola verso di me.

Gojko esulta, urla di gioia.

C'era polvere quando lasciai Sarajevo, s'alzava dalle cose smossa dal vento gelido, turbinava nelle strade, cancellava indietro. Copriva i minareti, i palazzi, i morti del mercato, sepolti dalle verdure, dalle chincaglierie, dai pezzi di legno dei banchi divelti.

Chiedo a Gojko perché mi ha cercato solo adesso, perché solo adesso ha avuto nostalgia di me.

«Sono anni che ho nostalgia di te.»

La sua voce scompare dietro a un sospiro. C'è di nuovo rumore di vento... di chilometri di distanza.

Di colpo ho paura che la linea cada e torni quel silenzio durato anni, che adesso mi sembra insopportabile.

Rapidamente gli chiedo il suo numero di telefono. È un portatile, lo segno su un pezzo di carta con una penna che non scrive. Dovrei cercarne un'altra ma ho paura a staccarmi dal telefono. Il rumore è sempre più forte. Vedo un filo del telefono che si spezza e cade scintillando... quanti ne ho visti di cavi appesi nel nulla in quella città isolata. Arpiono il passato, calcando sul foglio, con il timore di perderlo ancora una volta.

«Ti richiamo per dirti quando arriva il volo.»

Vado in camera di Pietro, rovescio le sue penne, ricalco quel numero bianco. Pietro dorme, i piedi lunghi fuori dal lenzuolo. Penso quello che penso sempre quando lo guardo steso, che il suo letto è troppo piccolo, ormai, e va cambiato. Raccolgo la chitarra, buttata in terra accanto alle ciabatte. S'arrabbierà dovrò lottare per convincerlo a venire con me.

Mi faccio la doccia e raggiungo Giuliano in cucina. Ha già preparato il caffè.

«Chi era al telefono?»

Non rispondo subito, ho gli occhi laccati, immobili. Sotto la doccia la pelle mi è sembrata dura come un tempo, quando mi lavavo svelta e uscivo di casa con i capelli bagnati.

Gli dico di Gojko, gli dico che vorrei partire.

«Così, all'improvviso?»

Ma non sembra sorpreso.

«L'hai detto a Pietro?»

«Dorme.»

«Forse è il caso che lo svegli.»

Ha la barba della notte, i capelli in disordine gli sporcano la fronte, si vede di più la parte calva al centro della testa. Durante il giorno è sempre a posto, è un animale di città, di caserme, di archivi. Quel disordine è solo per me, e mi sembra ancora la nostra parte migliore, la più odorosa e segreta... quella dei primi tempi, quando facevamo l'amore e poi ci sedevamo nudi e spettinati a guardarci. Siamo marito e moglie, mi è venuto incontro in un aeroporto militare sedici anni fa. Eppure quando gli dico che mi ha salvato la vita scuote la testa, diventa rosso, dice che non è vero, dice siete stati voi, tu e Pietro, che avete salvato la mia.

È ghiotto. Approfitta della situazione, dei miei occhi trasecolati, mangia un altro plum-cake.

«Non lamentarti della pancia, poi...»

«Sei tu che ti lamenti, io mi accetto.»

È vero, lui si accetta, e per questo è così accogliente. Si alza, mi sfiora una spalla.

«Fai bene ad andare.»

Ha letto nel mio sguardo un ripensamento... d'improvviso ho paura. Sono precipitata troppo in fretta indietro, nell'ardore della giovinezza. Che adesso mi sembra solo rimpianto. Ho freddo al collo, devo tornare in bagno ad asciugarmi i capelli con il fon. Sono di nuovo io, una ragazza sconfitta a un passo dalla vecchiaia.

«Devo organizzarmi, devo andare in redazione, non... non lo so.»

«Invece lo sai.»

Dice che mi chiamerà dall'ufficio quando andrà su internet, forse riuscirà a trovare dei biglietti low cost, sorride: «Non credo che ci sia la fila per andare a Sarajevo».

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Pagina 95

Aspettiamo nella hall



Aspettiamo nella hall, io e Pietro. Piove. Pietro guarda dai vetri quell'acqua che scivola, il suo sguardo celeste s'è scurito insieme al cielo. S'è messo una felpa, s'è tirato il cappuccio sulla testa, se ne sta lì, sbracato su un divanetto troppo basso, le gambe larghe, la testa rinsaccata nelle spalle. Davanti all'albergo c'è un internet café, vorrebbe infilarsi lì dentro, mettersi a chattare con i suoi amici. Gli ho detto di no. Così lui s'è tirato quel cappuccio sulla testa e se ne sta lì abbacchiato e strafottente come un calciatore appena espulso. La ragazzina delle colazioni adesso sta passando l'aspirapolvere sulla moquette delle scale. Il filo troppo lungo le si attorciglia intorno ai piedi. Pietro fa un sorriso dei suoi, dice: «Questa è un'incapace totale».

Io dico: «Questa ha l'età tua e già lavora».

Lui allora s'infiamma, incomincia a parlare veloce, smozzicando le parole, dice che anche lui avrebbe voluto lavorare e che io non gliel'ho permesso. È vero, voleva attaccare volantini pubblicitari sui parabrezza delle macchine per venti euro al giorno. Non mi andava che stesse per ore in mezzo al traffico, allo schifo, in compagnia di Biffo, un amichetto troppo furbo, di quelli con gli occhi sempre lucidi di marijuana. Potrei dirgli che quello non era un vero lavoro, era il solito bivacco, che un lavoro per essere considerato tale richiede una vera necessità, e che lui invece ha il motorino, la chitarra, gli occhiali da sole, un libretto di risparmio in banca... ma sto zitta perché non mi va di discutere.

Mi alzo, mi avvicino alla reception e chiedo un ombrello. Mi danno uno stecco giallo, floscio, mezzo rotto. La ragazza sulle scale intanto è inciampata davvero, non ha fatto una piega, si è rialzata subito guardandosi intorno col patema che qualcuno l'abbia vista. Ci siamo solo noi. Pietro s'è piantato due pugni sulle tempie e scuote la testa coperta. Ride come un pazzo, singhiozza nella sua felpa azzurra. La ragazza lo guarda seria. Pietro allora finge di sentirsi male, si spinge la pancia, simula un conato di vomito. Indica il posacenere gonfio di cicche sul tavolino. La ragazza s'avvicina, prende il posacenere. Pietro dice thank you, prova a non ridere ma non ce la fa, continua a sghignazzare come un cretino. La ragazza fa una specie di piccolo inchino, col respiro smuove un po' di cenere. Pietro scuote la testa, si scrolla la cenere dai jeans, poi alza le mani, ride. Teneramente, adesso.

«Mi arrendo.»

La ragazzina arriccia il suo viso sodo e chiaro come una piccola patata appena sbucciata, dice: «What?».

Pietro scuote la testa, non sa come si traduce mi arrendo.

Dice: «Sorry».

La ragazzina si volta, poi torna con il posacenere pulito. Ha il volto arrossato.

«You are great» dice con una voce flebile mentre se ne va.

Pietro tossisce, mi guarda.

«Cosa ha detto, ma'?»

«Lo sai, ha detto che sei great, sei grande.»

«Giura?»

Si ringalluzzisce, guarda il corpicino della piccola sarajevita che si allontana... si toglie quella calotta dalla testa, s'aggiusta i capelli.

«Ti piace?»

Mi si rivolta come un serpente. «Ma che sei pazza?! È patetica. A me mi piacciono le ragazze italiane.»

«E perché?»

«Perché le capisco.»

Gojko entra, si ferma sull'uscio. Non ha l'ombrello, le spalle della giacca sono scure di pioggia. Scuote la testa come un cane. Mi cerca con gli occhi, si avvicina, mi bacia. Il suo corpo bagnato è caldo, anche stamattina. Esala un vapore buono, come fieno sotto la pioggia. Si siede, ordina un caffè, s'accende una sigaretta, accavalla le gambe. È in ritardo perché è stato in galleria a dare una mano per la mostra fotografica. È di ottimo umore, ci chiede come abbiamo dormito, se vogliamo fare un po' di turismo, continuare il tour triste, quello dei luoghi della guerra, lui è abituato a farlo perché tutti i turisti lo vogliono. Possiamo andare al cimitero ebraico da dove sparavano gli sniper oppure bivaccare in centro fino all'apertura della mostra.

Pietro dice che per lui è uguale. Poi che preferisce restare in centro. Stamattina ho fatto una sciocchezza, nel dormiveglia ho teso una mano verso di lui e per sbaglio l'ho chiamato Diego, perché la notte era stata troppo invasa da quel fantasmino genovese.

Pietro si è allontanato dalla mano, ha detto: «Mamma...».

Dormivo a metà, ancora. «Oh...»

«Come mi hai chiamato?»

«Non lo so... come t'ho chiamato?», tremavo, perché non me n'ero nemmeno accorta. «Scusa.»

«Tu sei fusa.»

S'è buttato in bagno, per andarsene da me, dal mio corpo tormentato dal passato. Poi è uscito e ho visto che si chinava sul letto per vedere se per caso erano due, se si potevano dividere. Gli ho detto: «Se vuoi cambiamo stanza, ne chiediamo una coi letti separati... anch'io non riesco a dormire con te, ti muovi troppo».

Invece mi veniva da piangere.


Piove ma c'è tanta gente in giro, tanti giovani. Siamo nel viale che porta alla madrasa, gruppi di studenti islamici passano con gli zaini carichi come studenti di una qualsiasi scuola del mondo. L'ombrello dell'albergo è un vero schifo, devo stare attenta a non accecare chi passa. Mi fermo a comprarne uno per Pietro, Gojko non lo vuole, gli è d'impiccio. Gli dico che a una certa età fa male infradiciarsi le ossa, bofonchia che a una certa età fa male tutto, quindi tanto vale non pensarci. Lo prendo sottobraccio.

«Scrivi ancora?»

Mi piacerebbe sentire qualche sua poesia, detta da lui, con quella voce che s'inzuppa di sentimento, di intenzioni. Abbassa il testone, dice che da un po' di tempo, la sera, s'è rimesso a trafficare con le parole.

Gli chiedo come mai ha aspettato così tanto. «Era necessario» dice. «Ci vuole un po' di tempo bianco in mezzo, una garza... ci vuole che Dio ti assista, e non si faccia scrupolo della tua anima consumata. Ci vuole che un giorno a tua insaputa ti aiuti a ripristinare l'equilibrio tra il bene e il male.»

Apre la mano e non lo so perché ci sputa dentro.

«Un giorno sono passato accanto a un prato rosso di papaveri e per la prima volta non ho pensato al sangue, mi sono incantato su quella bellezza così fragile. Bastava molto meno di un'ascia, di una maljutka, bastava un colpo di vento. Era lì fermo per noi, quel prato, in attesa dietro quella curva. Un immenso campo punteggiato di lingue rosse, come cuori caduti dal cielo nell'erba. Ero in macchina con mia moglie. Ci siamo fermati e abbiamo cominciato a piangere. Prima io, poi dopo un po' anche lei mi è venuta dietro come un torrente. È stato un pianto che lentamente ci ha svuotati, ci ha risarciti. E da quella sera abbiamo ricominciato a respirare con il petto. Riuscivamo a sopportarlo. Per anni il nostro respiro è stato fermo alla gola, non poteva andare oltre... Due mesi dopo mia moglie era incinta.»

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Pagina 211

È successo dal parrucchiere. In quella bolla calda di fon, di odori buoni di shampoo, di tinture. Mi piaceva andarci, appoggiare la testa indietro su uno di quei lavandini piantati nel parquet. La ragazza friziona, si porta via lo sporco di città e quello dei miei pensieri... e per un attimo sembra che tutto possa andarsene in quello scolo alle mie spalle. Tiro su la testa, mi danno il piccolo asciugamano nero... cammino verso gli specchi in questo grande salone del centro che sembra un loft newyorkese. Niente pubblicità burine di balsami e acconciature alle pareti, solo grandi quadri grigiastri, sfuggenti marine che incoraggiano a sperare in un futuro confortante, quando le persone normali saranno estinte e resteranno solo gli stylist.

Con i miei ciuffi bagnati aspetto Vanni, il capo di questo ricovero per capelli maltrattati dallo smog e dalle piccole infelicità. È l'ora di pranzo, c'è un po' di confusione. Galline ricche sotto i caschi, avvocatesse, commercialiste e monumentali battone in attesa di qualche politico, perché il Parlamento è a due passi. Uno dei ragazzi vestiti di nero mi mette davanti un pacco di riviste.

«Vuole leggere qualcosa?»

Avrei il mio libro. Ma non mi va di concentrarmi, mi va di galleggiare in questo limbo, in questo acquario glamour. Sfoglio, pubblicità di vestiti, di rossetti, un articolo sulla ricostruzione dell'imene, pubblicità di reggiseni, il reportage di un viaggio per mercatini a Londra, lettere di donne deluse dagli uomini. Mi fermo. Guardo la fotografia di una donna con un bambino in braccio. Il titolo rosso dice LA CICOGNA ARRIVA DA LONTANO.

Leggo l'intervista a questa donna francese, sterile dopo le cure per un cancro. La sorella le ha donato un ovulo che è stato fecondato in vitro e poi impiantato nell'utero di una terza donna, una ragazza ungherese, la cicogna appunto. Leggo il nome tecnico di quella possibilità: maternità surrogata. Penso a mia madre, al surrogato per il brodo che comprava in farmacia.

Vanni si avvicina, mi bacia sulla guancia, mastica una gomma americana, è un gay robusto ma atletico, cammina scalzo in quel tappeto di capelli, come un armatore sul suo panfilo. Mi tira su i ciuffi, si guarda nello specchio insieme a me. Trattiene il fiato, sforbicia... tocca i capelli come un artista tocca la materia. Mi friziona con la sua mano esperta, e il taglio si materializza.

«Ti piace?»

«Mi piace.»

Butta un occhio alla rivista, si prende un posacenere, resta a fumare accanto a me, fuma e mastica la gomma americana. Ne parliamo, lui dice: «Anche la Madonna, se ci pensi, ha affittato l'utero a Dio...».


Piove. Una goccia più grande delle altre cola sul vetro della finestra, la seguo. Un lungo taglio d'acqua che divide la notte. Il respiro del naso adesso sembra il battito della terra, e quella goccia una lacrima preistorica che divide il nostro mondo dal loro.


Papà stamattina ha portato i mandarini. Prima di salire da noi passa al mercato qui sotto. Gironzola, annusa. È la parte buona della città, dice, l'ultimo avanzo di una umanità che ancora vive insieme. Il resto è solitudine. Ha un cane adesso, una specie di bracco dal pelo sfilacciato. È un buon motivo per uscire, per camminare. Posa il sacchetto di carta marrone, riempie la casa di quell'odore fresco. Un po' di vitamine, dice.

Ci sediamo tutti e tre in cucina. Sbucciamo mandarini. Poi Diego mangia anche le bucce, gli piacciono.

Le valigie sono lì, ancora aperte. Diego ha tirato giù dal soppalco il suo zaino, ha voluto quello. S'è arrampicato sulla scala, stava per cadere. Ha lanciato lo zaino sul pavimento. Quando lo ha raccolto, l'ha annusato. Ha riconosciuto l'odore dei viaggi, delle notti negli aeroporti, dei sogni e delle ferite.

È la mia vecchia pelle, ha detto.

Il cane di mio padre gironzola attorno allo zaino, annusa anche lui.

«Non è che sto cane ci piscia, sui bagagli, papà?»

«Vieni qui, Pane, cuccia.»

«Che nome è Pane?»

«Mangiavo un panino per strada, gli ho tirato un pezzo di pane, non se n'è andato più, m'è rimasto dietro.» Carezza quel cane che gli va subito vicino, allunga il muso come un orfano mellifluo. I mandarini sono finiti. Papà guarda le valigie. Non ha mai smesso di guardarle. «Che tempo trovate, piove?»

Intanto toglie il sacchetto pieno della pattumiera.

«E dai, papà, che fai, ci butti l'immondizia?»

«Che mi costa?»

«Lascia.»

È più forte di me, più ostinato. Trattiene quel sacchetto con rabbia.

«E fammi fare qualcosa, Cristo!»


Il mattino dopo insiste per accompagnarci lui all'aeroporto. Sarebbe più comodo un taxi, più veloce. Invece ci tocca quest'uomo che è mio padre, che si sveglia all'alba e ci aspetta in macchina, troppo in anticipo come un autista solerte. Citofona.

«Sono qui sotto, fate con comodo.»

Gli piace quell'alba, è felice come se andasse a pescare. Ha la barba fatta e s'è messo pure la cravatta, come un vero autista. Odora del suo dopobarba, e del caffè che s'è preso al bar.

Così sono dietro a questa nuca, grigia e famigliare. Come da piccola, quando mi accompagnava a scuola. Non ero brava in matematica, soffrivo. Copia, mettiti vicino a qualcuno che ti fa copiare. Io diventavo rossa, non mi sembrava un consiglio adatto al mio orgoglio. Tu non capisci niente, papà. Invece capiva tutto. Impara solo quello che ti piace, Gemma, il resto lascialo agli altri, non ti accanire.

Guida concentrato, facendo attenzione a tutto. Ed è come se volesse darci un segno, dirci di stare attenti anche noi. Non ha incertezze. Sa dove andare, quale rampa salire all'aeroporto per lasciarci davanti all'ingresso giusto, sembra che abbia studiato il percorso. Apre il bagagliaio, corre dentro a cercare il carrello. Ci saluta in fretta, non vuole pesare. Vuole essere un professionista, stamattina, di quelli che portano la gente a destinazione e se ne vanno perché hanno altri impegni. Lui non ha impegni ma fa finta di sì. Risale in macchina, annuisce. Le mascelle tese nel vetro. Ha detto una sola parola: telefonate.

Forse si ferma a Fiumicino, fa una passeggiata sulla spiaggia, aspetta l'ora di pranzo, la mezza. Gli piacciono i merluzzi fritti. Lo immagino che ne divora un bel piatto, sono sicura che prenderà anche il vino, una bottiglia fresca, se la scolerà, si farà le guance rosse. Da solo sbracherà, lo conosco. Tutta la vita a cercare di essere un buon esempio, per me che sono sempre stata un po' ottusa, e capirò il privilegio di un padre così solo quando se ne sarà andato, come le mosche e il vento, come sempre tutto.

Le mosche sono sul cestino del pane, uno di quei cestini di plastica che danno al mare, ai ristoranti degli stabilimenti. Mio padre mangia e beve, si gode il sale, la vista blu del mare. Da lì può vedere gli aerei che si alzano e fanno quel cerchio prima di trovare la rotta.

Ci siamo noi su uno di quegli aerei, ci ha accompagnato con gli occhi, ha alzato il mento. Appena poco fa eravamo vicini e grandi, corpi e odori, e adesso siamo destini messi in cielo. Mio padre guarda la distanza tra il niente e il tutto, tra quella scoreggia di fumo bianco in mezzo alle nuvole e questo amore quaggiù, stretto nel cuore che comincia a essere anziano.

«Cosa pensi?» mi chiede Diego mentre l'ala dell'aereo segue la scia riflessa del sole nell'oblò.

«No, a niente...»

C'è papà sull'ala dell'aereo che sembra fermo.

C'è qualcosa che non mi dici, vero Gemmina?

Cosa, papà?

Non me lo dire, non importa.

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Pagina 313

La gente camminava tranquilla, quella mattina, donne con i foulard, uomini con la cravatta. Bisognava mostrare il pugno chiuso con il medio fuori a quelli lassù, al club delle tre dita cetniche. È un messaggio per loro, infilatevi nel culo i vostri fucili di precisione. Quei foulard, quei passi ordinati, stavano lì a dire quello. A testimoniare che la vita continuava. La clinica ostetrica era stata colpita, l'edificio di "Oslobodjenje" era ormai un bersaglio per tiratori sfaccendati. Chi non aveva niente da fare gli sparava un colpo. La città pareva vuota, poi si rianimava, come un pascolo. Sul muro sotto casa era apparsa una scritta:

NON SIAMO MORTI STANOTTE.

La guardavo tutte le mattine dalla finestra, mi si chiudeva la gola.

C'era stata buriana il giorno prima, era bruciato lo stadio Zetra, nel villaggio olimpico, si era liquefatto quel cappello di metallo così caro a tutti. I pompieri e i volontari s'erano affannati per ore. Ormai la gente sapeva che dopo le grandinate peggiori la montagna taceva per un po'. Era stato ordinato il cessate il fuoco, senza più revoche, erano state messe sanzioni a quelli di Belgrado. Non si poteva non fare la fila. Per l'acqua, per il pane, per le medicine... si rischiava la ghirba a star lì tutti insieme come piccioni, ma quella era una giornata di fiducia, di donne che chiacchieravano sul marciapiede, di ragazzini che scappavano tra le gambe. C'era il sole. Era in via Vase Miskina, dove adesso c'è una delle rose più grandi. Anche la piccola porta c'è ancora, non vendono più il pane ma c'è.

I nomi sono scritti, piccoli, ordinati, accanto alla stella e alla luna musulmane, accanto a un versetto del Corano.

Erano donne, uomini, bambini che giocavano... E non sapevano che sarebbero stati incisi sul muro, fotografati dai cellulari dei turisti all'infinito. Era la fila per il pane, c'era un buon odore. Era una giornata di fiducia, di lepri che mettono la testa fuori. Era fine maggio, le rondini becchettavano le briciole di chi smozzicava il pane per strada. Qualche fortunato ci fu. Gente più svelta, più tempestiva, che s'era messa in fila presto, prima degli altri, e se n'era appena andata con il suo filone di pane o una di quelle pagnotte senza lievito e senza sale. Ma ci fu anche qualcuno che rimase per caso, che si mise a parlare, a scambiare due battute con un conoscente. Caddero tre granate, due per strada, una al mercato lì davanti. E tutti quelli che c'erano fecero un viaggio, schizzarono. La piazza divenne una scena teatrale, stracci rossi ovunque. Avrebbe fatto il giro del mondo, quello schifo rosso. Quel pane zuppo di sangue.

«Non credevo che un bambino avesse tanto cervello» disse un vecchio uomo aggrappato a un bastone. «Non finiva più di uscire, quel cervello.»

Una donna era seduta sul muretto, non piangeva. Stringeva due figli morti, uno di qua e uno di là, come fiori recisi. Un'altra cercava di riacchiapparsi la sua gamba, le andava dietro strisciando sui gomiti. Un uomo era più buffo degli altri. Riverso come uno di quei guanti che la gente trova per strada e appoggia a una transenna, perché magari chi lo ha perso ripassa di lì. Guanti spaiati, tristi, sporchi di fango. Ecco, lui se ne stava li come un guanto appoggiato a uno di quei tubi di ferro che dividono le strade. Ma non aveva più la pancia. Solo un grosso buco circolare, un po' sfilacciato. Dietro si vedeva la gente in fuga, le barelle, e lui era lì come un effetto speciale.

Gojko quel giorno sembrava impazzito, era corso subito lì, urlava ai giornalisti di filmare...

«Così adesso si accorgeranno di noi!»

Raccolse una pagnotta, la spezzò, la mollica era intrisa di sangue rosso come sugo. La offrì ai giornalisti.

«Ecco, tenete e mangiatene tutti, questo è il nostro sangue...»

Poi schizzò via, disperato come Giuda che va a impiccarsi.


Più tardi la città taceva. Era stata una giornata di fiducia. Erano arrivati quei giovani con le tute mimetiche e i caschi azzurri come il cielo... la gente si era illusa che fossero angeli custodi, che fosse finita. Invece adesso l'ospedale era pieno di carne da ricucire. Anche la montagna taceva. Le televisioni del mondo non facevano che passare quel nastro truculento. E gli animali lassù s'erano rintanati a bere rakija per festeggiare la fama.


Partimmo due giorni dopo. Era tornata la corrente, tutte le lavatrici di Sarajevo si erano messe a funzionare nella notte. Mi sembrò un buon segno. Raggiungemmo Zagabria su un pullman che aveva addirittura l'aria condizionata, era uno di quelli che solitamente portavano i pellegrini a Medjugorje. Da li riuscimmo a prendere tranquillamente un aereo. Volevo dire tante cose a Diego, gli dissi: «Un piatto di spaghetti, ci pensi?».

Diego sorrise.

I suoi occhi erano rossi, bisognava portarlo da un medico, era la prima cosa che contavo di fare. Adesso pensavo che Dio non ci avrebbe mai più lavato gli occhi.

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Pagina 360

Piove... il cielo cola, si sfalda. Ha tuonato e lampeggiato tutta la notte, i boati della natura si sono mischiati con quelli della cattiveria umana. Sono rimasta sveglia a lungo ad ascoltare quella gara nel cielo, come se Dio si fosse indispettito, e avesse messo in atto tutta la sua furia in quel cielo che gli appartiene, bagnando le bocche dei cannoni, degli obici, della contraerea adattata a terra, i tagli delle trincee. Non deve esserci altro che fango, lassù nelle montagne. Forse gli alberi dei boschi non ce la faranno a trattenere quest'alluvione, la terra franerà a valle come liquame, trascinando gli orti, le case dei Sangiacchi.

La pioggia bersaglia i teli delle finestre e da ore c'è questo rumore terribile. Fa freddo, la stagione precipita, queste mura sporche di crepe che si allungano fino al soffitto non ci proteggono più. C'è un odore di umido e di panni sporchi. Diego è raggomitolato sotto le lenzuola, la testa coperta, i piedi nudi, gialli. La bombola del nostro fornello da campo è spirata, ne è uscita un'ultima esalazione azzurra... una fiamma che è durata pochissimo, poi se n'è andata verso l'alto, proprio come un'anima esausta. Scendo nella cucina comune a cercare un po' di caffè. C'è Velida in fila, le gambe bagnate fino alle ginocchia, una brocca di ferro smaltato in mano. Fa un salto, sussulta, la brocca cade.

«È un tuono, è soltanto un tuono...» le dico.

Mi chino, le restituisco quel bricco che s'è sbreccato in due punti e adesso si vede l'anima di ferro.

«Un'altra cosa rotta...» sorride.

Ha uno strano odore anche lei. L'odore dei cittadini di Sarajevo. E non è soltanto l'acqua che manca, perché oggi ci si lava con la pioggia, è la stanchezza, il panico che trasuda dai corpi. Un odore di premorte. Come quello delle bestie terrorizzate che d'un tratto emanano un fetore insopportabile per difendersi. Sono corpi sottosopra, stomachi alterati di gente che mangia erba e non dorme ed esce di casa con la certezza di morire.

Piove su quella piccola fila nel cortile. Donne in ciabatte, zuppe che tremano.

«Guarda come ci siamo ridotti...»

Velida stamattina può piangere, perché piove così tanto che nessuno si accorgerà delle sue lacrime. Una donna in fila la spinge, lei si fa di lato, la lascia passare. Poi le cede anche la sua razione di latte, che il vivandiere ha trovato chissà dove, sono mesi che non si vede un po' di latte vero. M'arrabbio, le dico che è troppo magra per permettersi di essere così generosa. Ma lei non vuole ridursi come un animale, rifiuta quella lotta tra disperati.

«Ha dei figli» dice, «io ho soltanto la morte.»

Alza la testa, i capelli bagnati le denudano il capo, sono ciuffetti di lana fradicia.

«Ormai la vedo, fino a poco tempo fa la tenevo a distanza, ma ormai è qui, l'ho lasciata entrare... si siede in cucina come me, mi guarda davanti ai fuochi spenti, mi fa compagnia. M'invita a danzare. Stanotte indossava le mie scarpe italiane, quelle del viaggio di nozze, color cammello, aperte sul tallone.»


Torno su con un po' di caffè. Diego è già pronto per uscire, ha un'incerata rossa, leggera e strappata sulla schiena

«Dove vai?»

Non ce la fa a stare chiuso li dentro, non gli importa della pioggia, anzi gli piace.

Ha riparato lo strappo sull'incerata con due pezzi di scotch bianco, quello della nostra cassetta medica nella scatola da scarpe.

Se ne va con quella croce sulla schiena. Gli dico che sembra un bersaglio perfetto. Scuote le spalle, sorride. Fino a poco tempo fa mi sarei buttata addosso a lui per trattenerlo, ma ormai non ho più forza. È diventato fatalista come tutti i sarajeviti. Il destino è come il cuore, mi ha detto, è dentro di noi fin dal primo istante, quindi è inutile cambiare strada.

Imbecille.

Lo seguo. Senza giubbotto antiproiettile, perché pesa troppo, perché anch'io oggi abbasso la guardia. Sono stanca, la stanchezza rende temerari.

E poi, forse, con tutta questa pioggia i fucili saranno bagnati, e la vista dei cecchini appannata, squamata. Forse è più facile farla franca sotto la pioggia.

Lo seguo nei camminamenti gocciolanti, negli androni deserti, tra lastre di muri divelti, spostati dalle granate, che hanno ritrovato un loro equilibrio spettrale. Si vede di che cosa è fatto un muro... di quale trama, di quale polvere. C'è questo sguardo interno, osceno. Intimità attraversata, scoperchiata, resa pubblica nel pubblico dolore.

Eppure nessuno guarda più, si tira dritto.

Gli occhi passano accanto ai cadaveri e non si fermano, non si voltano. La guerra è dentro questi passi che continuano, questi occhi stanchi che scartano.

Gi occhi sono gli unici pezzi di vetro che non cadono, restano li nei loro telai tra le ossa, costretti a guardare, a ingoiare immagini che ammalano il corpo.

Piove. Cammino dietro mio marito, ogni tanto lo perdo, poi lo ritrovo. Sono affamata.

Diego ha quella croce bianca sulla schiena di plastica rossa. S'infila al mercato coperto. Gente solitaria gira su se stessa, sembrano pazzi, carcerati di un nosocomio, camminano a testa bassa come bestie in un recinto dove passano scosse elettriche. Ogni tanto qualcuno trema come se avesse toccato quel confine che non uccide, ma soltanto scuote, logora il sistema nervoso. Non c'è niente da comprare, solo misera merce di scambio, una cuccuma di rame, una bottiglia di grappa... un barattolo di confettura di prugne, un accendino Bic.

Diego si china, raccoglie qualcosa. tira fuori una banconota.

Intorno c'è solo acqua, viene giù a strappi violenti come se fosse scaraventata a secchiate.

Diego fotografa la gente che deambula muta in quella cornice d'acqua, pesci moribondi, venuti a galla.

Ormai sono completamente bagnata. Per terra c'è solo fango, poi una testa calva, staccata a un manichino, esplosa fuori da un negozio, le labbra rosse, luccicanti di pioggia, gli occhi finti sgranati. Mi fermo a guardare quell'assurda testa che mi sembra così sola, e quasi vorrei chinarmi e raccoglierla e portarla con me, posarla sul tavolino di un bar e parlarci. Diego sta attraversando il Ponte Cumurija. Vorrei tornare indietro, ma mi sembra che indietro non ci sia più nulla. Corro dietro di lui... dietro quella croce bianca.

Rasenta la Papagajka, quel brutto edificio troppo colorato, quel pappagallo steso dalle granate. Cammina ancora, non si guarda alle spalle. Si infila in una costruzione più bassa delle altre, è una ex scuola... stanze in fila, nere come grotte. Aule senza più infissi né porte, finiti nelle stufe come i banchi di cui è rimasto solo qualche scheletro di ferro. C'è puzza di escrementi. Diego sembra conoscere a memoria quell'itinerario. Passa accanto a un muro dove c'è ancora una carta geografica della vecchia Jugoslavia e una fotografia di rito crivellata di colpi. Un uomo sta facendo a pezzi un'asse di legno superstite, non mi guarda nemmeno. Cammino dietro ai passi di mio marito. Si sentono voci, suoni... di gente che non si capisce se ride o piange. Ogni tanto c'è una tenda, o un tappeto tenuto da chiodi sul buco di una porta, proteggono miserabili intimità... materassi ammucchiati in terra, stufe di fortuna. Probabilmente è un rifugio per profughi. Poi sento quell'odore di legna e vernice che bruciano insieme. Diego è arrivato, ha sollevato il lembo di un telo di plastica e s'è unito al gruppo di persone accovacciate al centro di quella stanza accanto a un fuoco fatto per terra, sull'impiantito umido... un fuoco fiacco, che esala solo fumo.

Resto dietro la plastica. Frugo tra quelle povere schiene. Quando mi accorgo inghiotto, il respiro sembra polvere di vetro che rovina la gola. Con il capo coperto non si vedono i capelli, sembra una delle tante musulmane sfinite, contadine scappate dai loro villaggi incendiati. Diego apre lo zaino, si siede lì accanto. Lei si appoggia alla sua spalla, lo stava aspettando. Bevono l'acquavite che lui ha portato, si passano la bottiglia. E dopo la passano agli altri.

Poi Aska si alza. Ha ancora i suoi scarponi da guerriera, però è vestita alla turca con le salvare, i pantaloni alla zuava delle musulmane. Lei e Diego escono per strada. La pioggia le butta indietro il velo e adesso oltre la falce bianca della fronte si intravede il rosso dei capelli.

Sono insanguinata da una strana euforia, una gioia violenta che mi taglia la testa. Avanzo nel silenzio irreale di questa pioggia che divora ogni altro rumore. Non camminano veramente insieme, lui le va dietro, leggermente discosto. Sembrano due amanti che hanno discusso.

Li seguo nei camminamenti obbligati, tra cortine di lamiera e blocchi di cemento. Ora sono all'aperto, in uno di quei passaggi scoperti dove c'è la scritta ATTENZIONE AI CECCHINI...

Mi fermo, sento la paura nelle gambe, nella pancia. C'è quella fessura da cui s'intravede il verde plumbeo dei monti. Le abetaie immerse nella pioggia sembrano guerrieri che avanzano. Qualcuno ha attraversato a zig zag correndo... e ho sentito la raffica. Un uomo che per fortuna adesso è in salvo dall'altra parte dell'incrocio, respira piegato su se stesso. Puzzo di paura... sudo nei vestiti bagnati.

Non ci posso credere, Aska avanza. Resto a fissare allucinata quell'attraversamento. Non corre, cammina placida come se quello non fosse un incrocio maledetto di Sarajevo, ma Roma o Copenhagen.

Diego si è fermato, come se non avesse più voglia di seguirla. Poi di colpo esce allo scoperto, corre come il portantino di un'ambulanza con la sua cerata rossa e quella croce di scotch sulla schiena... la strattona, la trascina per un braccio, le urla di correre, di togliersi da lì. Le fa scudo con il suo corpo.

La raffica non arriva, forse il cecchino ha finito il turno, o forse anche lui è rimasto a fissare incredulo quella pecora dai capelli rossi, quel balletto indolente.

Ora Diego e Aska sono in salvo dietro la carcassa di un tram. Lei si è accesa una sigaretta. Restano lì non so quanto tempo, come bestie bagnate. Lei fuma un'altra sigaretta. Fuma anche lui, non mi sembra che parlino. Sono accovacciati in silenzio, le ginocchia all'altezza del naso. Poi si stringono, di colpo, come se all'improvviso avessero fatto pace, e lei l'avesse fatto apposta a rischiare la vita poco fa, ad andarsene così lenta a quell'incrocio, forse soltanto per punirlo. Lui le ha tolto il velo, le carezza i capelli. Si posa tra quei capelli con la fronte, resta a respirare in quel manto bagnato.

E a me sembra di sentire l'odore di quell'abbraccio, l'odore caldo di una cuccia, di un ricovero.

È un gesto che faceva i primi tempi, quando aveva lasciato la sua città e ancora non riusciva ad adattarsi completamente a Roma. Allora mi posava la fronte addosso, sulla spalla, vinto da una stanchezza interna. Restava lì, piantato nelle mie ossa, lo sguardo nascosto di un bambino sconfitto, che non vuole farsi vedere mentre perde per bisogno d'amore.

Aska sembra molto più forte di lui. Lo consola rigida, impacciata, quasi infastidita da quel cedimento.

Si solleva in piedi, è più alta e più magra di come la ricordavo, sembra una candela nera. E proprio dalla magrezza il ventre affiora, una protuberanza rotonda, come un gonfiore. Potrebbe sembrare il ventre di un corpo affaticato dalla guerra, da quella cattiva alimentazione, dalle ortiche, dai brodi di farina, dall'acqua indigesta colorata dalle pasticche disinfettanti... un ventre ammalato di verminosi. Ma io so che non è così. Quel ventre mi entra dentro come una granata. Indietreggio spanzata come quell'uomo in via Vase Miskina, quel guanto bucato appeso a una transenna.

Me li lascio alle spalle. Vago in quel luna park incendiato. Raccolgo la testa del manichino, me la porto a spasso sotto il braccio.

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