Copertina
Autore Giuliana Mazzi
Titolo Daniele Donghi
SottotitoloI molti aspetti di un ingegnere totale
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Saggi , pag. 415, ill., cop.fle., dim. 15,4x21,2x3 cm , Isbn 978-88-317-9171-7
CuratoreGiuliana Mazzi, Guido Zucconi
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe architettura , storia della tecnica , biografie
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Indice

  9 Premessa
    di Giuliana Mazzi e Guido Zucconi

    DANIELE DONGHI.
    I MOLTI ASPETTI DI UN INGEGNERE TOTALE

 15 Introduzione. Un ingegnere polivalente in una fase di passaggio
    di Guido Zucconi


    L'ATTIVITÀ DI PROGETTISTA E FUNZIONARIO


    Gli esordi torinesi

 31 Gli esordi tra formazione accademica e tradizione familiare
    di Francesco Ceccarelli

 45 L'attività di ingegnere e architetto municipale a Torino
    di Filippo De Pieri

 59 Torino 1890: l'Esposizione italiana di architettura
    di Elena Dellapiana

 71 Oltre l'ordinaria amministrazione?
    I difficili inizi della sfida per l'idustrializzazione edilizia
    di Sergio Pace

    A Padova e a Venezia

 87 Tra Padova e Venezia a cavallo del secolo
    di Guglielmo Monti

101 Il tecnico al servizio della città di Padova
    di Marco Maffei

115 Funzionario e professionista a Venezia
    di Martina Carraro

133 L'edificio della Cassa di risparmio di Padova
    di Claudio Rebeschini

    Progettista e agente della Società Hennebique

141 Metodo e sperimentazione nel disegno degli edifici scolastici
    di Maddalena Scimemi

153 Tra sperimentazione e tradizione: il costruttore di teatri
    di Pier Luigi Ciapparelli

171 Dagli archivi Porcheddu: l'impiego del brevetto Hennebique
    di Daniela Ferrero

187 Tracce di Donghi negli archivi Hennebique
    di Michela Rosso


    L'OPERA DI TRASMISSIONE E DIFFUSIONE DEL SAPERE


    La didattica nelle Scuole per ingegneri

205 L'insegnamento dell'architettura tecnica nella Scuola di Padova
    di Giuliana Mazzi

219 L'insegnamento dell'architettura tecnica nella Regia scuola
    d'ingegneria di Napoli
    di Alfredo Buccaro

    Tipi e forme di trasmissione: dalle riviste al manuale

235 La genesi del Manuale
    di Massimiliano Savorra

249 La professione illustrata:
    percorsi donghiani attraverso le riviste d'architettura
    di Antonio Brucculeri

263 Modelli e progetti di edilizia antisismica
    di Clementina Barucci

277 La casa unifamiliare nelle pagine del Manuale:
    modelli architettonici e decorativi
    di Ornella Selvafolta

    Il confronto con la letteratura tecnica italiana
    e dei paesi di lingua tedesca

297 La manualistica italiana dell'Ottocento tra arte e tecnica
    di Fabio Mangone

307 Pubblicistica architettonica nell'area di lingua tedesca
    di Martina Frank

321 La letteratura tecnica sul cemento armato nell'area
    di lingua tedesca
    di Marco Pogacnik

333 Attorno alle fonti del Manuale
    di Ezio Godoli

    Innovazione tecnologica nell'Italia del primo Novecento

343 Edilizia, cantiere e formazione tra Otto e Novecento.
    Testimonianze da «Il Politecnico»
    di Aldo Castellano

357 Il cemento armato.
    Innovazione e sperimentazione nell'età giolittiana
    di Vincenzo Fontana

    APPARATI
    a cura di Massimiliano Savorra

371 Cenni biografici
577 Progetti e realizzazioni
385 Scritti di Daniele Donghi

399 Indice dei nomi
408 Indice dei luoghi

 

 

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Pagina 15

INTRODUZIONE.
UN INGEGNERE POLIVALENTE
IN UNA FASE DI PASSAGGIO
di Guido Zucconi



TRE QUESTIONI, INNANZI TUTTO


L'opera di Daniele Donghi pone una serie di problemi critici i quali riflettono la condizione di un paese (l'Italia) e di un settore (la costruzione), entrambi in rapido mutamento nel periodo compreso tra il 1890 e il 1930. I diversi ruoli svolti in quel campo ci permettono di gettare luce su di un'ampia gamma di problemi che vanno dalla didattica nelle scuole per ingegneri alla realizzazione, dal progetto architettonico alla trasmissione delle tecniche.

Innanzi tutto vi è la questione del "ritardo italiano" del quale Donghi sembra essere cosciente nella fase iniziale; in questa prospettiva egli dichiara di volere colmare il gap con i paesi d'oltralpe da lui meglio conosciuti, Germania e Francia. Il ritardo si manifesta lungo tutti i fronti di attività: sia in termini di conoscenze tecnico-costruttive, sia sul piano delle realizzazioni. Anche la definizione di nuovi tipi edilizi gli appare poco sviluppata, se messa a confronto con altri contesti: in materia di costruzioni pubbliche, soltanto a partire dagli anni ottanta dell'Ottocento emergono nuovi impianti distributivi.

Prima di allora il grande tema dei bâtiments civils è stato mortificato e compresso entro le mura di ex conventi trasformati in scuole e ospedali: l'appello di Camillo Boito per nuovi tipi adatti a una nuova Italia aveva trovato scarso riscontro per mancanza di occasioni. L'ospedale di Gallarate e la scuola alla Reggia carrarese di Padova avevano rappresentato dei casi tanto rimarcabili quanto isolati.

Con il suo manuale e con una serie di altri progetti "mirati", Donghi intende dare un contributo decisivo perché il divario sia, se non colmato, almeno attenuato: da una parte la Germania dei grandi trattati — come quello di Breymann — e la Francia di Hennebique, dall'altro un paese come l'Italia bisognoso di un nuovo, coerente quadro di riferimenti tecnico-edilizi.

La domanda alla quale molti degli autori cercheranno di rispondere è la seguente: Donghi compie una semplice opera di traduzione/traslazione a partire da concetti definiti altrove oppure il suo sforzo registra un autentico balzo in avanti?

Strettamente legato a questo interrogativo, vi è un problema di continuità/discontinuità con una tradizione italiana — soprattutto milanese e torinese — da cui l'opera di Donghi sembra prendere le mosse. Per lui, nella fase iniziale tra 1885 e 1905, Boito costituisce un riferimento importante come dimostrano le lettere inviate con continuità negli anni a cavallo del secolo.

Dopo avere realizzato la Scuola elementare Lucrezia degli Obizzi — esplicito saggio di neo-medievalismo boitiano —, Donghi scrive all'anziano maestro:

I miei lavori in Padova sono più volentieri biasimati che lodati. Non m'importa, poiché faccio quello che sento e quello che mi pare buono. Ma se c'è qualcuno a cui la nuova scuola non piaccia, egli griderà che siamo una coppia e un paio, o ripeterà un motto latino poco lusinghiero per noi. Ed anche questo non importa.

Questa chiamata di correo rispetto a un progetto da molti criticato evidenzia un legame che sarà suggellato di lì a breve, e sempre a Padova, con la cattedra di Architettura tecnica. Nel 1910, Boito lo indicherà come vincitore, a spese di Gustavo Giovannoni che aveva partecipato allo stesso concorso.

Donghi, si badi bene, non è un allievo in senso stretto, ma uno dei tanti "affiliati" che fanno riferimento al maestro veneto-milanese: questo rapporto indiretto è forse mediato da relazioni familiari, ma ciò rende la questione ancora più interessante. Sta infatti a dimostrare una capacità quasi egemonica di Boito lungo una direttrice nord-italiana compresa tra Torino e Venezia, la stessa lungo la quale si dipanerà la sequenza biografica di Donghi.

Con la sua attenzione ai problemi "organici", la sua opera sembra innestarsi direttamente sul tronco del razionalismo boitiano. La domanda in questo caso può essere così formulata: questa tradizione, insieme con una rete di simpatizzanti e affiliati, si esaurisce negli anni precedenti alla prima guerra mondiale? Oppure continua attraverso forme di espressività diverse dalle scenografie neo-medievali?

Un terzo quesito si allaccia alla compresenza dei ruoli svolti da Donghi e alla sua mobilità professionale rispetto a figure consolidate e in via di consolidamento: ingegnere civile, discendente da una dinastia di artisti e costruttori, egli assumerà di volta in volta i panni del tecnico comunale, del libero professionista, del docente e dell'editor specializzato nel campo della letteratura tecnica. Già con il periodo torinese, tra il 1883 e il 1896, tra la laurea e la partenza per Padova, vengono svolte tutte le mansioni che abbiamo qui sommariamente elencato. Certo, un conto è insegnare alla Scuola di disegno serale di Torino e un conto è impartire lezioni agli allievi ingegneri della Scuola di applicazione di Padova, ma egualmente si tratta di un ruolo cui sembra precocemente destinato.

Al di là del curriculum personale, resta il fatto che quelle funzioni sono in rapida trasformazione per non dire di alcune — come l'ingegnere municipale — definite quasi ex novo proprio in quegli anni. Dopo la legge per Napoli del 1885, dopo il Codice d'igiene pubblica del 1888 e una serie di provvedimenti ad hoc, quella figura viene infatti notevolmente potenziata nell'ambito di un forte incremento dell'iniziativa comunale.

Pensiamo poi al docente di Architettura tecnica, ovvero di una materia prevista nella riforma delle scuole per ingegneri ma rimasta lettera morta o semi-morta fino alle soglie del nuovo secolo: a Padova, prima dell'arrivo di Donghi, i posti sono coperti da non-specialisti ovvero da docenti incaricati, provenienti dalle aree più disparate.

Anche l'attività di progettista-libero professionista sembra collocarsi all'interno di nuovi scenari che vengono definendosi proprio allora: quando, a partire dal 1900, opera nell'orbita della compagnia Hennebique, Donghi è chiamato invece a interpretare un inedito ruolo di relais posto all'intersezione tra progettazione e direzione del cantiere, tra moduli predefiniti e nuovi assetti plani-volumetrici. Né l'ingegnere civile così come definito dai regi ordinamenti, né tanto meno l'architetto Beaux Arts possono rispondere a questo tipo di domanda.

Infine si colloca l'attività di pubblicista/ editor impegnato soprattutto in un settore nuovo o fortemente rinnovato, qual è quello della divulgazione tecnica. Gli strumenti di trasmissione in questo caso sono diversi: si tratta di riviste e di fascicoli monografici da raccogliersi in collezioni come lo stesso Manuale dell'architetto. Tutti però si avvalgono di un'inedita e più generosa relazione tra testo e immagine resa possibile dai progressi tipografici, specialmente a partire dagli anni novanta dell'Ottocento: in questa prospettiva, il disegno (o la fotografia) rappresenta il fulcro di una descrizione empiricamente basata spesso sull'osservazione diretta e comunque sull'analisi di un oggetto ben circoscritto. Nei pochi anfratti dove possiamo ritrovarla, la teoria sembra scaturire da un approccio di tipo induttivo: in nessun caso costituisce il punto di partenza.

La domanda, in questo caso, riguarda tutti i ruoli sopra descritti e la possibilità di considerarli come congruenti, per non dire sinergici, rispetto a un profilo di tecnico onnicomprensivo: in altre parole si tratta di funzioni che vivono di vita propria anche se Donghi le svolge simultaneamente? Oppure siamo di fronte alle quattro facce di una stessa figura di "ingegnere polivalente", come recita il titolo del nostro lavoro? Si vedano, a questo proposito, i tratti dell'"architetto integrale" così come tracciati quasi contemporaneamente da Giovannoni quale riferimento ideale per le nuove scuole superiori.

Esiste inoltre una terza possibilità legata alla capacità di Donghi di "forzare" le diverse funzioni, avvicinandole tra di loro nelle finalità e collocandole in un'unica, strategica visione del proprio ruolo d'ingegnere politecnico. Se così fosse, il suo percorso di tecnico-intellettuale si collocherebbe in modo indipendente, sia rispetto all'architetto integrale di cui abbiamo detto e soprattutto nei confronti dell'ingegnere civile, così come delineato nelle regie scuole di applicazione.

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FORMA E MATERIA


A ricongiungerci a una dimensione critica centrale nella nostra ricerca biennale, vi è il rapporto forma-materiale; rispetto a questo, appaiono come sottocategorie il legame interno/esterno, il nesso struttura/decorazione. Da questo punto di vista, l'opera di Donghi ci pone immediatamente di fronte a un vistoso dualismo tra innovazioni di carattere costruttivo/distributivo e riprese di moduli stilistici di tipo tradizionale.

Questa scarsa coerenza è all'origine di un prolungato disinteresse per la sua opera, in analogia con un giudizio formulato da Liliana Grassi su Boito («ottimo teorico, mediocre progettista»).

Nel caso di Donghi, la frattura appare esemplarmente proposta nella sede della Cassa di risparmio di Padova. Diverso appare invece l'esito espressivo là dove l'esibizione del dato strutturale diviene architettura, come nel demolito teatro di Abano e nelle parti interne del Teatro sociale di Rovigo. Oppure laddove stringenti ragioni di economia impongono una certa laconicità decorativa, come accade in alcune fabbriche destinate all'istruzione.

Vengono in mente, a questo proposito, alcune Précisions formulate da Le Corbusier:

[...] Osservate questo: l'ingegnere, ammirevole di fronte a compiti meticolosi, curvo sul suo regolo calcolatore, si trova, quasi sempre, in ribellione contro le sue proprie creature [...]. Solo l'economia, la scarsità di denaro l'hanno costretto ad abbandonare la propria opera allo stadio puro del mero funzionamento e in una condizione di una certa purezza. Quando il denaro abbonda, eccolo assassinare la propria opera.

Da una parte vi è il cavalcavia di Padova opera estrema, nella sua scarna essenzialità dettata da condizioni particolari; dall'altra i ridondanti fronti della sede della Cassa di risparmio. Nel mezzo si squadernano diverse e contraddittorie oscillazioni tra minimalismo e massimalismo decorativo: a seconda del budget, della localizzazione e della destinazione d'uso, il quantum d'ornato aumenta o si restringe a mo' di soffietto.

Ma perché parlare di contraddizioni e non di variazioni? Non è il nostro il riflesso condizionato di chi tende a sopravvalutare gli aspetti formali, a ricercare prestabilite coerenze tra tecnica ed espressione architettonica?

Al contrario, dall'opera di Donghi, al di là dei diversi risultati, sembra emergere una consapevole sottovalutazione degli aspetti linguistici. All'inizio sembra aderire superficialmente a un razionalismo di stampo boitiano, come si può evincere dal consuntivo che egli traccia a proposito dei suoi progetti padovani (e, ancora una volta, al centro di questa dichiarazione d'intenti troviamo la Scuola elementare Lucrezia degli Obizzi).

Il sottoscritto [egli afferma] ha preferito lo stile più semplice che ritrova le sue origini nelle forme dello stile neo-medievale, o meglio lombardo, stile che egli ha di preferenza adottato a Padova, adattandolo ai sistemi costruttivi e ai materiali da impiegarsi, perché i più recenti edifici di quella città, essendo di detto stile, egli ha creduto conveniente di uniformarvisi.

La scuola alla Reggia carrarese sembra dunque fissare uno standard espressivo a cui egli dichiara di adeguarsi. In realtà Donghi dimostrerà poco interesse per i problemi legati alla forma architettonica.

Per rendersene conto basta scorrere l'indice della prima serie del Manuale pubblicata nel 1906: Donghi ripercorre lo schema induttivo tipico dei trattati di art de bâtir o di edilizia, riprendendo un modello collaudato, già a suo tempo definito da Rondelet.

All'origine vi sarebbero i materiali da costruzione, assunti nelle loro proprietà chimico-fisiche: leganti e inerti, calci, cementi, pietre da taglio e laterizi, legno e ferro. Da qui si procede, attraverso la descrizione di tecniche combinatorie, fino a definire forme archetipe come archi e piattabande: dal problema della forma, inteso in senso universale, si dovrebbe poi passare direttamente alle questioni dello stile.

Nel primo volume, dedicato alla Costruzione architettonica, Donghi delinea così quattro grandi tradizioni (carpenteria, muratura, coperture e opere metalliche), descrivendo una serie di procedimenti connessi. Lo schema logico dovrebbe raccordare problemi di scala diversa e i quattro filoni dovrebbero trovare immediata traduzione in tecniche pronte per l'uso.

In realtà non è sempre percepibile la coerenza tra le parti; vivono infatti di vita propria i molti dettagli riguardanti le componenti da realizzarsi fuori opera. Tra queste vi sono le pietre artificiali/decorative e le mensole prefabbricate, le travi in ferro ovvero tutta una serie di componenti relativamente nuove per il contesto italiano.

Alla fine si ha la sensazione che la complessità del sistema produttivo non permetta di realizzare la corrispondenza tra materiali costruttivi e forme architettoniche. Da un certo momento in poi, lo stesso Donghi sembra divenire consapevole della difficoltà di definire in modo oggettivo il problema della forma e decide, alla fine, di trattare l'"estetica decorativa" (o "componente artistica") come parte a sé stante, addendum da sommarsi al corpus principale dell'opera.

Egli conclude l'opera alla fine del 1934; in coda al volume dedicato alla Composizione architettonica, un centinaio di pagine trattano il problema della «decorazione architettonica od estetica decorativa» da intendersi come questione distinta dall'"estetica strutturale". Così viene a essere definita la decorazione:

Veste quasi sempre necessaria per ottenere il carattere e l'effetto espressivo che ogni opera architettonica deve offrire, essendoché non sono molte le opere che soltanto dalla forma globale strutturale [...] rivelino di primo acchito il proprio carattere.

Insistendo sulla necessità e legittimità dell'ornato, egli riprende i "principi di estetica" già descritti in un compendio di lezioni universitarie pubblicato nel 1922. A partire da un diverso dosaggio delle due componenti fondamentali (la tecnica e l'estetica), il mondo della costruzione può essere diviso in tre grandi categorie: i fabbricati, gli edifici e i monumenti. A quest'ultima area, l'unica a prevalenza artistica, assegna i temi propri dell'architettura religiosa e i monumenti commemorativi: attribuisce l'assenza di un autentico stile contemporaneo all'affievolimento del senso di spiritualità, tipico dell'età presente.

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MODELLI E PROGETTI DI EDILIZIA ANTISISMICA
di Clementina Barucci



I tecnici italiani – scriveva Renato Fabbrichesi nel 1939, commemorando la scomparsa di Daniele Donghi – ricorderanno di Lui l'innata audacia innovatrice [...], nei suoi libri, colleghi ed ex allievi constateranno l'onesta esposizione di concetti traducibili prontamente in concrete realizzazioni, e nei suoi concisi articoli, sveleranno la visione di nuovi problemi tecnici, con le connesse brillanti risoluzioni.

Per Daniele Donghi il problema della progettazione antisismica costituisce uno degli aspetti che l'architetto, nella sua pluralità di competenze dovrà curare affinché una fabbrica risponda alle «condizioni imposte dalla comodità, dal buon impiego dello spazio, dalla economia costruttiva, dall'igiene, dalla solidità, dalla durata» e infine anche «dalla sicurezza contro i pericoli del fuoco e delle perturbazioni atmosferiche e telluriche».

A questa specifica problematica rivolge la sua attenzione in diversi momenti della sua intensa attività pubblicistica; i suoi contributi in materia consistono in memorie e brevi note, redatte in occasione dei più disastrosi eventi tellurici manifestatisi tra Otto e Novecento, ai quali l'autore del Manuale offre risposte immediate inserendosi nel dibattito che ha luogo nella stampa specializzata e sui quotidiani, e fornendo indicazioni ispirate a un senso pragmatico per quanto riguarda gli aspetti organizzativi e con indicazioni tecniche sui sistemi da adottare. Oltre a questi interventi occasionali apparsi tra il 1887 e il 1909, una trattazione più sistematica della materia vedrà la luce alla metà degli anni trenta col capitolo dell' Appendice del Manuale dell'architetto dedicato alla prevenzione dei danni dei terremoti, come una delle cause che possono compromettere la «sicurezza» dei fabbricati.

Il suo primo intervento, che ha per tema I paraterremoti, è un breve articolo apparso sul settimanale torinese, la «Gazzetta del Popolo della Domenica» del marzo 1887, sollecitato dal sisma che aveva colpito la Liguria il 22 febbraio di quello stesso anno. Donghi, in quel momento a Torino, dove prestava servizio come impiegato nell'Ufficio dei lavori pubblici della città piemontese, illustrava tale sistema di prevenzione, basato sull'interpretazione elettrica del fenomeno sismico formulato dal fisico francese Bertholon e riproposto in tempi diversi anche in Italia, tra gli altri da Emilio Guarini. Avrà occasione di illustrare ancora questo sistema, sul quale, peraltro, non esprimerà giudizi personali, limitandosi a riportare l'opinione altrui, molti anni più tardi, nell' Appendice del Manuale.

Saranno i disastrosi eventi sismici verificatisi del primo decennio del Novecento a sollecitare i suoi successivi contributi sui temi dell'organizzazione dei soccorsi e sui modelli per l'edilizia antisismica; tema quest'ultimo che diviene, negli anni che vanno dal terremoto calabrese del 1905, a quello che colpì l'area dello stretto di Messina nel 1908, argomento di vivace attualità e oggetto di un interesse generalizzato che tocca non solo la cultura tecnica ma anche l'opinione pubblica nazionale. Il suo impegno in questo settore è attestato, in questi anni, dai contributi ospitati tanto sulle pagine delle riviste specializzate, quanto su quelle dei quotidiani.

Negli scritti apparsi in tali occasioni Donghi ha modo di mettere a frutto la sua esperienza milanese svolta tra il 1900 e il 1904 come direttore della filiale della Società Porcheddu, detentrice italiana del brevetto Hennebique per le costruzioni in calcestruzzo armato, fondamentale per le sperimentazioni sul nuovo materiale nell'ambito delle quali aveva attuato le sue prime pionieristiche realizzazioni, ricordate da Fabbrichesi, tra cui il primo solaio di calcestruzzo armato per le Scuole elementari Lucrezia degli Obizzi in Padova.

Nei suoi interventi e nelle sue proposte in tema di edilizia antisismica emerge una costante difesa di questo materiale da costruzione, che si veniva affermando in quegli anni anche in Italia e che proprio nel campo delle costruzioni antisismiche trovava un campo di sperimentazione particolarmente ricco di aspettative; del calcestruzzo armato, capace «di sostituire da solo vari elementi costruttivi», nella Prefazione al Manuale del 1905 si indicavano le enormi potenzialità costruttive ed espressive. Nel primo decennio del Novecento, un'ampia gamma di sistemi e modelli fondati sull'impiego di materiali diversificati arricchisce il panorama della cultura tecnica, sia attraverso la letteratura manualistica che grazie ai numerosi brevetti. Nell'ambito delle diverse tecniche prospettate Donghi si dichiara convinto assertore dell'impiego del cemento armato, considerato come l'unico materiale atto a risolvere ogni genere di problema: «la scoperta dei meravigliosi effetti che si possono conseguire dal connubio del metallo col calcestruzzo cementizio [...] potrà dar luogo, pel rivolgimento che ha portato nell'arte del costruire, a un nuovo genere d'architettura». Un aspetto che va messo in rilievo è il suo pragmatismo negli scritti e nelle proposte sui soccorsi da prestare in caso di sisma, attitudine questa che gli derivava anche dalla sua esperienza di funzionario nelle pubbliche amministrazioni, prima presso il Comune di Padova, dal 1896 al 1900, e poi dall'ottobre del 1904 fino al 1910 come ingegnere capo dell'Ufficio tecnico del Comune di Venezia.

La sua lettera su l' Edilizia sismologica, apparsa ne «Il Monitore tecnico» nel settembre 1905, è una risposta al dibattito che si era sviluppato su quella stessa rivista e sul «Corriere della Sera» a seguito del terremoto calabrese dell'8 settembre di quell'anno; conteneva osservazioni sulle norme da seguire nelle «costruzioni dei paesi soggetti ai terremoti». In quella breve nota richiamava l'attenzione sul Regolamento edilizio per l'Isola d'Ischia, emanato a seguito del terremoto che colpì Casamicciola e gli altri centri dell'Isola il 28 luglio 1883, le prime organiche normative dello Stato italiano, che riprendevano in parte quelle pontificie successive al terremoto di Norcia del 1859. Le norme del 1884 non toccavano per altro quella che Donghi segnalava come la «questione capitale delle fondazioni» che, secondo la sua opinione, dovranno essere uniche per tutto il fabbricato e il meno profonde possibili, criterio che risulta confermato — ricordava — anche dalle avveniristiche ipotesi giapponesi dell'«appoggio su rulli, su sfere, su pietre tonde», citate ad avvalorare la sua tesi.

Al contrario di chi riteneva che l'edificio dovesse essere lasciato libero di muoversi rispetto al suolo, proponendo appoggi su sfere o su un banco di sabbia, Donghi ribadisce la necessità che la fondazione costituisca «una grande platea, una vera suola», e si presenti «come un esteso zatterone reticolato di legno e di ferro, di modo che diventi elastica ed infrangibile anche quando sotto di essa il terreno si apra»; essa dovrà «allacciarsi solidamente coi muri che la sovrastano mediante raccordi curvi più o meno estesi».

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