Copertina
Autore Mary McCarthy
Titolo Il gruppo
EdizioneMondadori, Milano, 1964, Nuovi scrittori stranieri 2 , pag. 586, cop.ril.sov., dim. 11,5x19,5x3 cm
OriginaleThe Group [1954]
TraduttoreMagda de Cristofaro
LettoreRenato di Stefano, 1965
Classe narrativa statunitense , paesi: USA
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Pagina 11

I



Fu nel giugno 1933, una settimana dopo il conferimento delle lauree, che Kay Leiland Strong – laureata a Vassar nel '33 – la prima del suo corso a correre intorno al tavolo alla cena delle neolaureate, sposò Harald Petersen – diplomato a Reed nel '27 – nella cappella della chiesa protestante episcopale di St. George, officiante Karl F. Reiland. Fuori, in Stuyvesant Square, gli alberi erano in pieno rigoglio, e le invitate al matrimonio, che arrivavano a due e a tre per volta in tassí, udivano le voci dei bambini che giocavano nel parco intorno alla statua di Peter Stuyvesant. Pagato il tassista, lisciatesi i guanti, le giovani donne, a gruppi di due e di tre, tutte compagne di studi di Kay, si guardavano intorno incuriosite, come se si fossero trovate in una città sconosciuta. Erano prese dalla smania di scoprire New York; cosa incredibile, dato che alcune di loro vi avevano trascorso tutta la vita, in noiose case georgiane molto piú vaste del necessario nella zona dell'Ottantesima Strada o nei palazzi di Park Avenue; e andavano matte per i posticini fuori mano come questo, con tutto quel verde e la casa di raduno dei quacqueri, di mattoni rossi, con gli ottoni lustri e gli infissi bianchi, e vicino la chiesa episcopale color vinaccia. La domenica andavano a passeggio coi loro spasimanti di là dal ponte di Brooklyn e davano una capatina alle sonnolente alture di Brooklyn; esploravano il quartiere residenziale di Murray Hill, il bizzarro Macdougal Alley, Patchin Place e Washington Mews con tutti gli studi degli artisti. Adoravano l'hotel Plaza con la fontana e le mansarde verdi del Savoy Plaza e la fila di carrozze coi vecchi cocchieri in attesa, come in una città francese, di indurle a una passeggiata vespertina per il Centrai Park.

Quella mattina, mentre sedevano compostamente nella cappella silenziosa e quasi vuota, provavano un forte senso d'avventura. Non erano mai state a un matrimonio come quello, per il quale gli inviti erano stati fatti a voce dalla sposa, e non rivolti in forma ufficiale da parenti o da persone piú anziane, amiche di famiglia. A quanto pareva, non ci sarebbe stata luna di miele, perché Harald (lui scriveva il suo nome cosí, secondo l'antica grafia scandinava) lavorava come aiuto regista in un teatro di prosa e quella sera, come al solito, doveva trovarsi in teatro per fare il buttafuori. Tutto ciò aveva fra di loro un effetto molto eccitante e naturalmente giustificava le stranezze di quel matrimonio: Kay e Harald erano troppo attivi e dinamici per permettere alle convenienze di infirmare il loro stile. In settembre, Kay avrebbe iniziato da Macy's un corso di tecnica di mercato, insieme con altre laureate scelte del collegio; ma invece di starsene con le mani in mano tutta l'estate, in attesa di cominciare il lavoro, si era già iscritta a un corso di dattilografia presso una scuola commerciale, per cui, secondo Harald, Kay avrebbe disposto di un atout che alle altre candidate mancava. E, stando a quanto asseriva Helena Davison, che l'anno precedente era stata la compagna di stanza di Kay, i due si erano trasferiti in un appartamento estivo in subaffitto in una bella casa vicino alla Cinquantesima Strada Est, senza un capo di biancheria o un pezzo d'argenteria di loro proprietà, e avevano trascorso l'ultima settimana, dopo la chiusura dei corsi (Helena era appena tornata e aveva visto coi suoi occhi), fra le lenzuola della padrona di casa, quelle destinate agli inquilini in subaffitto!

Ciò era tipico di Kay, conclusero affettuosamente le ragazze, mentre la storiella circolava da un banco all'altro. Secondo loro, Kay era profondamente mutata dopo un corso sul Comportamento Animale che aveva frequentato il penultimo anno con la vecchia miss Washburn (quella che aveva lasciato per testamento il suo cervello alla Scienza). Tutto questo, insieme col lavoro nel campo del teatro con Hallie Flanagan, l'aveva trasformata da quella timida, graziosa e piuttosto robusta ragazza del West che era, coi capelli neri lucidi e ricciuti e la carnagione del colore di una rosa selvaggia, dedita all'hockey e al canto corale, e caratterizzata da capaci e tesi reggiseni e copiose mestruazioni, in una giovane donna sottile, autoritaria e dinamica, vestita di calzoni, maglietta e scarpe di gomma, con sbaffi di vernice nei capelli sporchi e macchie di nicotina sulle dita. Una ragazza che parlava con disinvoltura di "Hallie" e di "Lester" (l'assistente di Hallie), di praticabili e bozzetti, di fregola e ninfomania; che chiamava ad alta voce le amiche per cognome: "Eastlake", "Renfrew", "MacAusland", e consigliava l'esperienza-prematrimoniale e la scelta scientifica di un compagno... «L'amore è un'illusione» diceva.

Per le compagne del suo gruppo – sette delle quali, ora, si trovavano nella cappella – questo sviluppo della personalità di Kay, da esse delicatamente definito una "fase", era stato tuttavia inquietante. "Can che abbaia non morde", si ripetevano continuamente, la sera tardi, nel salottino comune della Torre Sud della Main Hall, quando Kay era ancora fuori, a dipingere quinte o a far l'elettricista in teatro con Lester. Esse temevano però che un uomo, non conoscendo la brava Kay come la conoscevano loro, potesse prenderla in parola. Avevano riflettuto a lungo su Harald; Kay l'aveva conosciuto l'estate prima quando faceva l'apprendista al teatro estivo di Stanford e i due sessi avevano convissuto nello stesso dormitorio. Lei aveva raccontato che lui voleva sposarla, ma dalle sue lettere il gruppo non aveva riportato la medesima impressione. Secondo il gruppo, almeno, non erano affatto lettere d'amore, ma resoconti di successi personali riportati fra le celebrità del teatro: quello che Edna Ferber aveva detto a George Kaufman, e lui l'aveva sentito con le sue orecchie; e come Gilbert Miller l'avesse mandato a chiamare e una diva gli avesse chiesto di leggerle la sua commedia a letto. "Considerati baciata", finiva la lettera, tout-court; semplicemente: "C. B.", senza una parola di piú. Da un giovanotto "del loro ambiente", secondo la generica espressione delle ragazze, lettere simili sarebbero state considerate offensive; ma l'educazione ricevuta le aveva convinte dell'inopportunità di esprimere giudizi generali sulla base di un esiguo frammento di esperienza personale. Potevano affermare, tuttavia, che Kay non era sicura di lui come pretendeva di lasciar credere. Capitava che lui non scrivesse per settimane, e la povera Kay si struggeva come una candela. Polly Andrews, che aveva in comune con lei la cassetta delle lettere al fermoposta, lo sapeva con certezza. Fino alla sera della cena studentesca, dieci giorni prima, le ragazze avevano avuto l'impressione che il conclamato "fidanzamento" di Kay molto probabilmente fosse un mito. Quasi quasi avevano pensato di rivolgersi per consigli a qualche persona piú esperta, un membro del corpo insegnante o la psichiatra del collegio: qualcuno con cui Kay potesse sfogarsi in tutta franchezza. Poi, quella sera, quando Kay si era messa a correre intorno alla tavolata – il che stava a significare l'annuncio del proprio fidanzamento all'intera classe – e per dimostrarlo si era tolta dal seno palpitante uno strano anello messicano d'argento, la loro preoccupazione si era mutata in una remissiva allegria; avevano battuto le mani e ammiccato col viso e con gli occhi, con l'aria di saperla lunga. Con maggior gravità, e in tono sommesso e raffinato, avevano assicurato ai genitori, venuti per le cerimonie di chiusura, che era un fidanzamento di lunga data, che Harald era "straordinariamente carino" e "straordinariamente innamorato" di Kay. Ora, nella cappella, si aggiustavano le stole di pelliccia e si sorridevano a vicenda muovendo il capo in cenni di assenso, come tante martore e zibellini. Avevano avuto ragione: la ruvidità era solo una fase; e senza dubbio era un punto a favore del "loro" ambiente, il fatto che l'iconoclasta, la cinica, fosse la prima a sposarsi della piccola banda.

«Chi l'avrebbe mai creso?» non poté esimersi dal dire Mary Prothero, detta Pokey, una grassa e allegra ragazza della buona società newyorchese, con le guance rosse e paffute e i capelli gialli, che parlava come uno spiritoso gagà del periodo di McKinley, imitando il padre proprietario di yacht. Era la ragazza problematica del gruppo, ricchissima e neghittosa, che aveva sempre bisogno di ripetizioni, copiava agli esami, spariva ogni week-end, rubava i libri della biblioteca, priva di morale e incapace di machiavellismi, appassionata solo di animali e di caccia. La sua ambizione, menzionata nell'annuario, era quella di fare la veterinaria; era venuta senza protestare al matrimonio di Kay perché ce l'avevano trascinata le amiche, come la trascinavano alle riunioni scolastiche, buttando sassi contro le sue finestre per svegliarla e vestendola alla meglio col mantello e la veste sgualcita. Adesso che erano riuscite a portarla sana e salva in chiesa, l'avrebbero poi spinta a viva forza da Tiffany, per assicurarsi che Kay ricevesse un bellissimo, enorme regalo di nozze: cosa, questa, di cui Pokey, per parte sua, non avrebbe mai capito la necessità, poiché nella sua mente i regali di nozze facevano parte del gravame dei privilegi, collegati ai detective, alle damigelle d'onore, ai cortei di limousine, al ricevimento allo Sherry o al Colony Club. Se una si teneva fuori della società, a che servivano tutti quei fronzoli? Lei andava dicendo ai quattro venti che odiava provare i vestiti, odiava il ricevimento del proprio debutto, avrebbe odiato anche il suo matrimonio, quando avesse avuto luogo; matrimonio che un giorno o l'altro sarebbe pur maturato, diceva, poiché, grazie ai quattrini di papà, poteva scegliere tra un mazzo di corteggiatori. Tutte queste obiezioni le aveva sollevate in tassí, nel viaggio di andata, con quel suo gracchiante miagolio mondano, finché, a un semaforo, il tassista non s'era voltato a guardarla, grassa e bionda, con l'abito di faille blu, la stola di zibellino e il lorgnon di brillanti, che a un certo punto portò ai deboli occhi color zaffiro per guardare l'uomo e subito dopo la sua foto, e dire alle sue compagne, con un bisbiglio deciso e sonoro: «Non è lo stesso uomo».

«Hanno proprio l'aria di due colombi!» mormorò per calmarla Dottie Renfrew, di Boston, mentre Harald e Kay entravano dalla sagrestia e prendevano posto davanti al curato in cotta bianca, accompagnati dalla piccola Helena Davison di Cleveland, ex compagna di stanza di Kay, e da uno smunto giovanotto biondo coi baffi. Pokey faceva uso dell'occhialetto, strizzando come una vecchia gli occhi dalle ciglia pallide; questa era la prima occasione che le capitava, di vedere Harald, perché l'unica volta che lui era venuto al collegio, durante un week-end, lei era andata a caccia. «Mica male, a parte le scarpe» sentenziò. Lo sposo era un giovane magro e nervoso coi capelli neri e lisci e una figura molto bella, asciutta, da schermidore. Indossava un abito blu, camicia bianca, scarpe di camoscio marrone e cravatta rosso cupo. Pokey prese poi a esaminare Kay, che portava un leggero abito di seta marrone chiaro con un grande collo di mussola di seta bianca e un ampio cappello di taffetà nero con una coroncina di margherite bianche; al polso abbronzato aveva un braccialetto d'oro appartenuto a sua nonna e in mano reggeva un mazzo di margherite e di mughetti. Con le guance accese, i capelli neri, lucidi e ricciuti, e gli occhi nocciola scuro, sembrava la ragazzotta di campagna di certe vecchie cartoline illustrate. Le cuciture delle calze erano storte, e i talloni delle scarpe di camoscio nero rivelavano tracce d'usura, nei punti in cui avevano urtato l'uno contro l'altro. Pokey aggrottò le ciglia: «Ma non lo sa che il nero porta sfortuna a un matrimonio?» Si lagnò. «Sta zitta» fu la ringhiosa e furibonda risposta. Pokey, offesa, si guardò intorno e vide Elinor Eastlake, di Lake Forest, la bruna e taciturna bellezza del gruppo, che la fulminava con un lampo dei suoi occhi verdi e allungati. «Ma Lakey!» protestò Pokey. La ragazza di Chicago, intellettuale, impeccabile, sdegnosa, ricca quasi come lei, era l'unica del gruppo a incuterle rispetto. Dietro la sua miope bonomia, Pokey era una snob raziocinante. Secondo lei era fuori questione che solo Lakey, fra le sette compagne di camera, avrebbe assistito al suo matrimonio; e viceversa, naturalmente. Le altre sarebbero venute solo al ricevimento. «Scema» sbottò la bellezza di Lake Forest, digrignando i suoi dentini di perla. Pokey fece roteare gli occhi. «Com'è nervosa» commentò con Dottie Renfrew. Le due ragazze, divertite, spiarono di sottecchi il profilo imperioso di Elinor; le bianche e sottili narici da ritratto rinascimentale erano contratte per la sofferenza.

Per Elinor, quel matrimonio era una tortura. Tutto era cosí stridente e stonato: il vestito di Kay, le scarpe e la cravatta di Harald, l'altare spoglio, la penuria di invitati dello sposo (una coppia e un uomo tutto solo), l'assenza della parentela. Intelligente e dotata di una sensibilità morbosa, urlava, dentro di sé, per la pena che le davano quelle mortificazioni, principali e secondarie. L'ipocrisia era l'unica spiegazione che poteva trovare per quel cinguettante coro di "che carini!" e "che emozione!", che si era levato ad accogliere la coppia al posto della marcia nuziale. Elinor era sempre fermamente convinta dell'ipocrisia altrui, perché non poteva ammettere che gli altri non vedessero tutto ciò che vedeva lei. Ora, per esempio, immaginava che le ragazze presenti "dovevano" per forza aver notato quello che aveva notato lei, "dovevano" per forza provare per Kay e Harald un senso di atroce umiliazione.

Rivoltosi ai fedeli, il curato tossi. «Venite avanti!» ingiunse bruscamente alla giovane coppia, con una voce, osservò Lakey in seguito, piú da conduttore d'autobus che da ministro del culto. La nuca dello sposo si fece rossa; i suoi capelli erano tagliati di fresco. A un tratto, le amiche riunite nella cappella rammentarono che Kay si era autoproclamata un'ateista scientifica; lo stesso pensiero attraversò le menti di tutte. Cos'era successo durante il colloquio in sacrestia? Era praticante, Harald? Non sembrava probabile. E allora come mai si erano decisi a sposarsi in un'antica e affermata chiesa episcopale? Dottie Renfrew, una devota osservante episcopale, si strinse con le mani la pelliccia intorno alla gola delicata e rabbrividí. Le venne in mente che forse stava commettendo un sacrilegio: era praticamente certa che Kay, orgogliosa figlia di un medico agnostico e di una madre mormone, non era stata nemmeno battezzata. D'altra parte il gruppo sapeva che Kay non era una persona di assoluta schiettezza. Aveva forse mentito al pastore? In tal caso, era valido quel matrimonio? Una chiazza di rossore apparve alla scollatura di Dottie, avvampando la "v" di pelle lasciata scoperta dalla camicetta di crêpe de Chine fatta a mano. Gli occhi marrone, turbati, scrutarono le amiche; la sua carnagione rovinata dall'eczema si copri di macchie. Sapeva a memoria che cosa seguiva, adesso: «Chiunque conosca alcun valido motivo per il quale costoro non possano essere legittimamente uniti in matrimonio, parli ora; altrimenti taccia d'ora in avanti e per sempre». La voce del curato s'impuntò su una nota interrogativa, poi egli lasciò vagare lo sguardo lungo i banchi. Dottie chiuse gli occhi e pregò, conscia di un silenzio di morte nella cappella: Dio o il dottor Leverett, la sua guida spirituale, volevano davvero che lei parlasse? Pregò che non lo volessero. L'occasione passò, quando udí la voce del curato che riprendeva, alta e solenne, quasi a condanna della coppia, alla quale si stava rivolgendo: «Chiedo ed esigo da entrambi, come se rispondeste nel giorno tremendo del Giudizio, quando verranno svelati i segreti di ogni cuore, che – qualora uno di voi due conosca qualche impedimento alla sua legittima unione in matrimonio – lo confessi. Poiché, siatene certi, se alcuno viene unito diversamente che con il Verbo di Dio, il suo matrimonio non sarà valido».

Si sarebbe udito un ago cadere, come in seguito avrebbero convenuto le ragazze. Ognuna tratteneva il fiato. Agli scrupoli religiosi di Dottie era subentrata un'ansietà nuova, che era comune a tutto il gruppo. La consapevolezza generale, che Kay avesse "convissuto" con Harald, le riempiva di un'improvvisa sensazione di illiceità. Si guardarono furtivamente attorno, e una volta ancora notarono l'assenza di un parente qualsiasi o di una persona anziana. Questo distacco dalle convenzioni, che era parso "cosí divertente" prima che iniziasse la cerimonia, le colpiva ora come una cosa deplorevole e sinistra. Persino Elinor Eastlake, beffardamente conscia che la fornicazione non era il genere di impedimento cui si alludeva nel rituale, quasi si aspettava di vedere qualche ignota presenza prendere corpo e sospendere la cerimonia. Nella sua mente, c'era un ostacolo spirituale a quel matrimonio; essa considerava Kay una persona crudele, arida e stupida, che sposava Harald per ambizione.

Adesso tutti, nella cappella, avevano notato che c'era qualcosa di strano, o almeno cosí pareva, nelle pause e negli accenti del celebrante. Mai avevano sentito pronunciare con tanta enfasi le parole "il matrimonio non sarà valido". Dalla parte dello sposo, un prestante giovanotto coi capelli castani e un che di dissoluto, strinse improvvisamente i pugni e mormorò qualcosa fra i denti. Puzzava terribilmente d'alcool e appariva oltremodo nervoso. Durante tutta la cerimonia non aveva fatto altro che chiudere e aprire le mani, belle e forti, e mordersi le labbra ben disegnate. «È un pittore; ha divorziato da poco» bisbigliò, alla destra di Elinor Eastlake, la biondissima Polly Andrews, che era un tipo tranquillo ma sapeva sempre tutto.

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