Copertina
Autore Sharyn McCrumb
CoautoreEd McBain
Titolo Il portiere - Soltanto odio
EdizioneSonzogno, Milano, 2006, Deviazioni , pag. 222, cop.ril.sov., dim. 145x224x22 mm , Isbn 978-88-454-1336-0
OriginaleThe Resurrection Man [2005] - Merely Hate [2005]
CuratoreEd McBain
TraduttoreNicoletta Lamberti
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe gialli , thriller
PrimaPagina


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Indice


Introduzione                  5

Il portiere                  11
(Sharyn McCrumb)

Soltanto odio               107
(Ed McBain)



 

 

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Pagina 11

Sharyn McCrumb
Il portiere



In un alone di luce elettrica il giovane si ferma barcollando sulla soglia. Passa un istante, forse tre battiti del cuore. Poi il bisturi gli sfugge dalle mani. Lui crolla in avanti, nell'atrio buio, e urta contro la ringhiera nel tratto curvo della scala. Fra quel punto davanti all'aula del secondo piano e il pavimento di marmo sotto ci sono circa dieci metri.

Il vecchio, a pochi passi da lui, non è sorpreso. Ne ha visti troppi di giovani pallidi fuggire di corsa da quell'aula, fuggire dall'odore dolciastro della putrefazione appena smorzato dagli sputi di tabacco che ricoprono il pavimento di legno. Masticano tabacco per mascherare il fetore... Questo ragazzo è nuovo e non conosce ancora i trucchi. Ma all'inizio anche il tabacco ti fa star male. E questo vale per tutti.

Non fa niente per soccorrere il ragazzo. Sono soli nell'edificio, ma comunque, di questi tempi, un gesto così sarebbe inopportuno. Il giovane si potrebbe offendere, e lui deve pensare anche al suo bel vestito di lino bianco. Lui, stanotte, non sta lavorando. È solo venuto a vedere come mai c'è accesa una luce dietro la finestra in alto. Inoltre da tempo ha perso il desiderio di toccare la carne umana. Per cui rimane nell'ombra a osservare quel giovane che disperatamente cerca una boccata d'aria fresca nello spazio cavernoso sotto la cupola.

Ma non si può sfuggire tanto facilmente all'odore dell'aula anatomica e il vecchio sa cosa può succedere se i giovani non riescono a immettere subito aria nei polmoni. Sa che qualcuno dovrà pulire il pavimento dell'atrio. Quel qualcuno non sarà lui. Ora è troppo importante per farlo: toccherà a un altro dipendente, a qualcuno di sua conoscenza. Eppure lui potrebbe facilmente risparmiare un po' di lavoro all'addetto alle pulizie e tanto imbarazzo al giovane. Potrebbe facilmente offrirgli il secchio antincendio.

All'esterno dell'aula di dissezione era stato posto un secchio pieno di sabbia nel caso qualche studente un po' sbadato rovesciasse un lume a olio. Lui lo solleva con un movimento lento e lo porta ai piedi del giovane che, piegato sulla ringhiera, tenta di respirare, ma tossisce, vomita, boccheggia finché i conati non arrivano a vuoto. Ora è in ginocchio, aggrappato al secchio e lo stringe con entrambe le mani. I conati si trasformano in singhiozzi e poi in imprecazioni sottovoce.

L'uomo aspetta, poco distante. Cortese e senza grande interesse per quell'atto liberatorio. Se lo studente si sentisse troppo male per rientrare nell'aula, chiamerebbe qualcuno per assisterlo. Non potrebbe certo offrirgli la sua spalla, a meno che il ragazzo non insistesse. Lui non vuole toccare la gente: i vivi non sono un suo problema. Gran parte degli studenti lo conoscono e lo schivano, questo però è nuovo. Forse non sa chi è la persona che ha incontrato nell'atrio buio. Ma, come tutti, una volta superato il terrore e la repulsione momentanei, si riprenderà per tornare al suo compito. Se non stanotte stessa, domani. Questa per lui è la notte che precede la prima dissezione, dopo tutto, e molti altri sopraffatti dalla nausea hanno poi imparato a controllarsi e sono diventati dei bravi medici.

Il ragazzo si asciuga il viso con un fazzoletto di lino, tira profondi respiri come se il movimento verso l'interno potesse prevenire quello verso l'esterno. "Sto bene", annuncia, conscio della silenziosa presenza poco distante.

"Lei non doveva venire solo", risponde il vecchio. "Se vi fanno lavorare in gruppo c'è un motivo... Perché potete scherzare e sostenervi a vicenda. Le distrazioni ingannano la mente, rendono le cose più facili, se non ci si pensa troppo."

Il giovane alza lo sguardo, riconoscendo la parlata rotonda e la tipica cadenza Gullah. Si preme il fazzoletto sulle labbra e indietreggia di un passo. Sa chi ha davanti. Si aspettava di vedere un addetto alle pulizie, forse, o uno dei professori che lavorano fuori orario, ma questa apparizione, questo individuo leggendario già presente all'epoca in cui suo padre frequentava la facoltà, lo riempie di terrore molto più di quel cadavere coperto da un lenzuolo nell'aula da cui è appena fuggito.

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Pagina 37

Grandison aveva visto bellissimi edifici a Charleston, ma la facoltà di medicina in Telfair Street era qualcosa da contemplare. Un tempio bianco, imponente come una cattedrale, con quattro colonne di pietra che sostenevano il portico e una cupola rotonda sopra il tetto. Appena dentro si apriva uno spazio verso l'alto che arrivava fin sulla cupola e una scalinata curva, su ambo i lati, conduceva alle stanze del piano superiore. La meraviglia che il tempo, purtroppo, aveva deteriorato ancora era superba. Ben presto lo splendore architettonico finì e tutto ciò che vide furono pavimenti sporchi e puzzolenti bidoni di spazzatura.

Per un paio di giorni tagliò legna per il camino e portò secchi d'acqua quando lo richiedevano. "Finché non si sentirà a suo agio", gli aveva detto il dottor Newton. "Poi parleremo del motivo per cui lei è qui."

Durante i primi due giorni che gli avevano concesso per abituarsi alla nuova situazione, Grandison non ebbe contatti con i medici. Forse avevano faccende ben più importanti da sbrigare e lui, ricordando che Alethea Taylor gli aveva consigliato di non creare problemi, continuò a svolgere le sue mansioni senza chiedere nulla a nessuno. E infine, un giorno, venne chiamato alla presenza di questi potenti. Indossava un vecchio camice scartato da qualche medico e si sentiva un po' intimidito, ma non aveva paura perché lo avevano pagato troppo per sprecare tanto danaro facendogli del male.

Un paio di notti gli era capitato di svegliarsi dopo un incubo in cui i medici lo squartavano, ma era una cosa talmente folle che non lo confessò nemmeno alla padrona di casa perché il suo dileggio sarebbe stato raggelante.

George Newton era seduto dietro la scrivania, muoveva nervosamente le mani e aveva l'aria di uno che ha il colletto della camicia troppo stretto. "Ora, Grandison", iniziò, "si è sistemato bene? Ottimo. Lei è un bravo lavoratore e questo è gratificante. Per cui possiamo discutere di quell'altro compito che i suoi doveri comportano."

Fece una pausa, forse aspettando una domanda, ma sul viso dell'uomo vide solo un rispettoso interesse. "Be', allora... questo è un luogo dove si insegna a diventare medici. E anche chirurghi. Un macabro compito, quello di tagliare il corpo di un essere vivente. Purtroppo è necessario. Una generazione fa c'era un chirurgo inglese che vomitava sempre prima di affrontare un intervento. E sa perché?"

Grandison scosse il capo.

"Perché il paziente è sveglio e il dolore è talmente forte che si può morire. Noi perdiamo il cinquanta per cento delle persone che operiamo, anche se facciamo tutto nella maniera giusta. Muoiono per lo choc, per collasso cardiaco, forse anche per il dolore. Ma nonostante queste perdite, stiamo imparando. Dobbiamo imparare. Dobbiamo aiutare più gente e ridurre la tortura che sono costretti a subire. E questo mi porta al compito che lei, signor Harris, dovrà svolgere, qui alla facoltà." Fece una pausa, con la penna picchiettò sulla scrivania in attesa che il nuovo dipendente facesse qualche domanda ma gli rispose solo il silenzio. Alla fine riprese. "C'era un chirurgo inglese che asseriva: 'Dobbiamo mutilare i morti per non dover mutilare i vivi'.» Un'altra pausa. "Ciò che intendeva era che noi medici dobbiamo imparare dal corpo umano e fare pratica per acquisire una certa tecnica chirurgica. Ed è meglio fare pratica su un corpo morto che su uno vivo. Capisce il senso di tutto questo?"

Grandison deglutì a fatica, e alla fine riuscì ad annuire. "Sì, signore."

George Newton sorrise. "Bene, se capisce questo, Grandison, io vorrei che lei fosse il governatore della Georgia, perché lui non lo capisce. In questo Stato tale pratica è contro la legge... anzi lo è in tutti gli Stati... Non si possono utilizzare i cadaveri per studi medici. La gente non vuole che noi contaminiamo i morti, così dicono, e allora, a causa dell'ignoranza, contaminiamo i vivi. E questo è assurdo. Noi dobbiamo servirci dei morti per aiutare i vivi."

"Sì, signore. Per me va bene, signore."

Il medico sembrava perso nei suoi pensieri. Finalmente riprese: "Grazie, Grandison. Sono felice di avere il suo consenso. Però ci serve qualcosa di più. Mi dica, lei crede che gli spiriti dei morti aleggino nei cimiteri? Che non vogliano essere disturbati? Che tentino di far del male a chiunque possa lavorare sui loro resti?"

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Pagina 79

DOTTOR GEORGE NEWTON
DICEMBRE 1859


Ho appena rinunciato alla carica di preside della facoltà di medicina. Non ho molto tempo per sistemare i miei affari, e dato che Ignatius Garvin è perfettamente in grado di assolvere i miei precedenti doveri, non mi rimane che una sola cosa di cui preoccuparmi. Se riesco a lasciare la mia adorata Fanny e i miei bambini perfettamente tutelati dal punto di vista finanziario, allora posso anche andarmene da questo mondo senza tanti rimpianti. Avrei voluto veder crescere i miei figli... invecchiare accanto alla mia cara moglie... sperando che Dio avesse in serbo per me una morte più facile.

Nessuno ancora sa che sto morendo e ci vorrà qualche settimana prima che la malattia mi porti via, ma non voglio pensare al tempo che ho davanti perché so abbastanza di questa malattia da tremare al pensiero di ciò che mi aspetta. Però dovrò controllarmi. Dovrò essere coraggioso, per non causare a Fanny più dolore di quanto ne patirà per la mia perdita.

Ho tanti documenti da esaminare. Investimenti, azioni, istruzioni per gli amministratori... la mia vita non mi è mai parsa tanto complicata. Presto cominceranno i dolori, il che mi renderà incapace di prendere decisioni sagge riguardo la mia famiglia. Per lo meno sono riuscito a salvaguardare la famiglia del nostro fedele dipendente, Grandison Harris. Grazie a Dio ho fatto in tempo perché gli avevo promesso di far trasferire qui, ad Augusta, Rachel e il bambino. E questo è avvenuto alcuni mesi fa. Non ho ancora cinquant'anni. Sono sano nel corpo e nella mente. Mi sono sposato da poco. Pensavo di aver ancora davanti tanti anni per svolgere un buon lavoro alla facoltà e proseguire nella ricerca. Suppongo che i medici pensino di non dover mai affrontare la morte. Diventeremmo pazzi, se pensassimo diversamente.

Mi chiedo come sia potuto succedere. Diranno che è stato quell'incidente col calesse, poco prima di Natale, e forse è vero. Quel castrone è un cavallo bizzarro. Nervoso. Non ci si può fidare di lui quando ci si trova nelle strade affollate o quando sente i cani abbaiare. Devo ricordarmi di dire a Henry di venderlo, perché non voglio che possa causare dei danni a Fanny, se dovesse imbizzarrirsi di nuovo. Io ero molto scosso e anche contuso quando mi ha sbalzato fuori dal calesse, in mezzo al fango, ma mi sono ferito forse durante la caduta? Non ricordo di aver visto tagli, o sangue.

Il dottor Eve mi aveva visitato, trovandomi abbastanza bene: niente ossa rotte, niente ferite interne. Aveva ragione, finché è durato. Tutti i miei colleghi sono venuti ad augurarmi Buon Natale e a rendermi omaggio. Naturalmente non avevano portato le loro mogli. Nessuna rispettabile donna bianca accetta l'ospitalità di questa casa, perché pensano che la presenza di Fanny sia una contaminazione. Dopo tutto noi non siamo sposati legalmente, per lo meno secondo le leggi vigenti in questo Paese. Fanny giura che non gliene importa. "Sono tutte vecchie galline", dice. Ma di certo ha affascinato gli uomini che mi ritengono fortunato. E lo ero... finché non mi è arrivata addosso questa tragedia... anche se nessuno di quei dottori ha mai sospettato qualcosa.

Anch'io vorrei non aver avuto sospetti e andare, ignorando gli orrori che mi aspettano, verso gli spasmi della fase finale, come un bambino che cade su un chiodo arrugginito e non sa. Ma io sono un medico. Io so. E quando penso a quella parola è come se delle dita gelide mi stringessero la gola.

Tetano.

Oh, ne so tanto. Troppo... ma non abbastanza. Ho visto tanta gente morire di questa malattia. I muscoli che si tendono e si contraggono negli spasmi e il paziente non ha il controllo dei suoi movimenti, è una sensazione terribile come quella che devono aver provato i prigionieri sulla ruota della tortura ai vecchi tempi. Il corpo è devastato dalla pena al di là dell'immaginabile, ma nonostante questi tormenti fisici, la mente rimane lucida, inalterata. E dubito che la lucidità sia una benedizione. Il delirio o la follia potrebbero essere una liberazione dall'agonia, ma anche questo è negato al malato. Non esistono cure. Nulla può fermare il progredire della malattia, né far regredire i suoi effetti. Forse manca una settimana alla fine e sono certo che per allora invocherò la morte come una liberazione e una benedizione.

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Pagina 107

Ed McBain
Soltanto odio



Sul parabrezza del taxi della vittima era stata tracciata una stella di David azzurra con la vernice spray.

"Molto insolito", osservò Monoghan.

"La stella azzurra?" domandò Monroe.

"Be', anche quella", rispose Monoghan.

I due detective della Omicidi fiancheggiavano Carella come una coppia di reggilibri. Tutti e due indossavano abiti neri, camicie bianche e cravatte nere e tutti e due facevano un po' pensare a impiegati delle pompe funebri, il che non era poi molto lontano dal loro mestiere. In quella città i detective della Omicidi erano i controllori della morte e dovevano operare in veste di consulenti e supervisori. L'indagine vera e propria veniva svolta in concreto dal distretto che aveva risposto alla chiamata. In quel caso l'87.mo.

"Comunque mi riferivo al tassista assassinato", spiegò Monoghan. "Da quando hanno cominciato a installare quei divisori di plastica... Quando è stato? Quattro, cinque anni fa?... Gli omicidi dei tassisti sono scesi praticamente a zero."

A parte questa notte, pensò Carella.

Alto e slanciato, in piedi in atteggiamento rilassato, Steve Carella faceva pensare a un atleta, cosa che non era. La stella azzurra lo inquietava. Inquietava anche il suo collega. Meyer sperava che quella stella non fosse l'inizio di qualcosa. In quella città – in questo mondo – le cose cominciavano troppo in fretta e impiegavano troppo tempo per finire.

"Il registro dei viaggi sembra normale", disse Monroe, guardando il portablocco che aveva recuperato a bordo del taxi, esaminando velocemente orari e luoghi scritti a mano sul foglio. "Era entrato in servizio a mezzanotte e ha scaricato l'ultimo cliente all'una e quaranta. Voi ragazzi quando avete ricevuto la chiamata?"

L'auto quattro, di pattuglia nel settore Adam dell'87.mo, aveva scoperto il taxi parcheggiato lungo il marciapiede di Ainsley Avenue alle due e trenta di mattina. L'autista era afflosciato sopra il volante, con un foro di proiettile nella nuca. Il sangue colava fin dentro il colletto. La vernice azzurra colava in piccoli rivoli sul parabrezza. I poliziotti in uniforme avevano telefonato alla squadra detective circa cinque minuti dopo.

"Siamo arrivati sulla scena alle tre meno un quarto", rispose Carella.

"Sembra che stia arrivando il medico legale", brontolò Monoghan.

Cari Blaney stava scendendo da una berlina nera con lo stemma dell'ufficio del medico legale. Blaney era l'unica persona al mondo con gli occhi viola che Carella conoscesse. Era anche vero che non conosceva personalmente Liz Taylor.

"Cosa vedo?" domandò Blaney, indicando il portablocco che Monroe aveva in mano. "Stai inquinando la scena del delitto?"

"Te l'avevo detto", disse Monoghan con aria saputa.

"Era in piena vista", spiegò Monroe.

"È questa la vittima?" chiese Blaney, avvicinandosi al taxi e guardando all'interno dal finestrino aperto sul lato del conducente. Era una sera dolce d'inizio maggio. Gli spettatori che si erano raccolti sul marciapiede dietro i nastri gialli di CRIME SCENE erano in maniche di camicia. I detective in giacche sportive e cravatta. Blaney e la coppia della Omicidi in abiti a due pezzi e cravatta; tutti e tre avevano un aspetto particolarmente formale, come se fossero capitati al party in strada sbagliato.

"La MCU è già passata?" chiese Blaney.

"Li stiamo aspettando", fu la risposta di Carella.

Blaney si riferiva alla Mobile Crime Unit, che in certe città si chiama CSI. Prima che i tecnici della Scientifica esaminassero la scena, neppure al medico legale era consentito toccare qualcosa. Monroe ebbe la sensazione che la domanda del medico fosse stata una frecciata personale rivolta a lui, solo perché aveva preso il maledetto portablocco dal sedile anteriore. Comunque Blaney non gli era mai stato simpatico, perciò che andasse pure 'affanculo.

"Perché non ci facciamo una tazza di caffè?" suggerì il medico legale, che, senza aspettare compagnia, si avviò verso la tavola calda aperta tutta la notte sul lato opposto della strada. Quello era un quartiere nero, e quella particolare zona era occupata in gran parte da negozi al dettaglio che alle tre e un quarto di mattina erano tutti chiusi.

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Pagina 130

Mentre Carella e Meyer dormivano come due grizzly in letargo, Kling e Brown lessero i rapporti dei colleghi, notarono che la vedova del tassista aveva dichiarato che il luogo di culto della famiglia si chiamava Majid Hazrat-i-Shabazz e così, alle undici di quella mattina, uscirono dalla sala agenti per andare alla moschea.

Se si erano aspettati scintillanti minareti bianchi, archi e cupole, rimasero amaramente delusi. In città c'erano più di cento moschee, ma pochissime erano state originariamente progettate come tali. Quasi tutte erano state trasformate in luoghi di culto da case private, magazzini, negozi e loft. In effetti erano solo tre i requisiti richiesti a qualsiasi costruzione che volesse definirsi moschea: che uomini e donne fossero separati durante la preghiera, che all'interno dell'edificio non ci fossero immagini di esseri animati e che venisse stabilita la quibla, cioè l'orientazione della preghiera in direzione della Kabba della Mecca.

Cominciava a cadere una pioggia leggera, quando Kling e Brown scesero dall'auto della polizia senza contrassegni e si avviarono verso un edificio di mattoni gialli, che un tempo era stato un piccolo supermercato, all'incrocio tra la Lowell e la Franks. Le vetrine erano nascoste dietro saracinesche di metallo. I mattoni gialli e le saracinesche verdi erano coperti di graffiti. Sopra l'ingresso, un cartello con elaborati caratteri tracciati a mano, bianchi su fondo nero, annunciava il nome della moschea: Majid Hazrat-i-Shabazz. Sul marciapiede si attardavano uomini in svolazzanti vesti bianche e berretti da preghiera ricamati, uomini in abiti formali scuri e minuscoli berrettini e ragazzi in giacconi di squadre sportive e berretti da baseball con la visiera sulla nuca. Il venerdì era l'inizio dello sabbath musulmano e i fedeli venivano chiamati alla preghiera.

I detective notarono alcune donne entrare nella moschea da una porta laterale su una fiancata dell'edificio.

"Mia madre conosce una signora musulmana, su a Diamondback", disse Brown. "Frequenta la moschea di lassù... sai, ci sono moltissimi neri musulmani."

"Lo so", disse Kling.

"Insomma, nella moschea dove andava a pregare questa signora non c'è abbastanza spazio per separare gli uomini dalle donne. Così pregano tutti insieme nella stessa sala. Ma le donne siedono dietro gli uomini. Be', questa sorella vecchia e grassa un venerdì arriva tardi e trova la sala già piena di uomini che le dicono che per lei non c'è più posto. Accidenti se si è arrabbiata! Ha cominciato a strillare: 'Qui siamo in America, io sono una musulmana devota come qualsiasi uomo qua dentro, perciò come mai c'è posto solo per i fratelli?' A quel punto l'imam, che è come dire il loro predicatore, le cita le scritture, che dicono che solo agli uomini è richiesto di presentarsi alla preghiera del venerdì, non alle donne. È per quello che fanno entrare prima gli uomini. Tutto lì. E lei allora gli risponde che per l'Islam le donne dovrebbero essere rispettate e riverite, perciò come mai lui la tratta a quel modo? Ed è uscita dalla moschea e non ci ha più rimesso piede. Da quel giorno prega a casa sua. Questa è una storia vera", concluse Brown.

"Ci credo", disse Kling.

Quel venerdì il discorso dell'imam riguardò il tassista morto. L'imam parlò prima in arabo – che naturalmente né Kling né Brown capivano – e poi tradusse le sue parole in inglese, forse a beneficio dei due detective, o forse per riguardo ai fedeli più giovani nella grande sala piena di correnti. I maschi se ne stavano in ginocchio nella parte anteriore del locale. Dietro un divisorio mobile e traslucido, Brown e Kling intuivano la presenza di un numero ristretto di donne velate.

L'imam disse che pregava affinché il conflitto in Medio Oriente non stesse ora raggiungendo la città, città che aveva già vissuto tante tragedie. Disse di pregare perché un innocente servo di Allah, gran lavoratore, non avesse pagato con la vita le azioni di un popolo lontano, dedito unicamente alla distruzione...

I detective pensarono che parlasse degli israeliani.

... e perché la firma della stella sul parabrezza del taxi della vittima non fosse una promessa di ulteriore violenza.

"È sciocco piangere per le nostre perdite", concluse l'imam, "poiché tutto è stabilito da Allah. Solo lavorando per la grande nazione dell'Islam possiamo comprendere il vero significato della vita."

Le fronti degli uomini toccarono il pavimento di cemento.

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Pagina 159

Anthony Inverni disse ai detective che non voleva essere chiamato Tony.

"Mi fa sembrare un maccarone", spiegò. "I miei nonni sono nati qui, i miei genitori sono nati qui, mia sorella e io siamo nati tutti e due qui, siamo americani. Se mi chiamate Tony, divento automaticamente italiano. Per come la vedo io, gli italiani sono quelli che sono nati in Italia e che vivono in Italia, non americani che sono nati qui e vivono qui. E noi non siamo neppure italo-americani, per inciso, perché gli italo-americani sono quelli che sono arrivati qui dall'Italia e poi sono diventati cittadini americani. Quindi non chiamatemi Tony, okay?"

Aveva diciannove anni, i capelli neri e ricci, la carnagione olivastra e gli occhi castano scuro. Seduto al tramonto sui gradini d'ingresso del suo palazzo in Merchant Street, vicino alla Ramsey University, mentre si abbracciava le ginocchia, sarebbe potuto essere un ebreo biblico acquattato davanti a una capanna di fango in un mondo antico. Ma il rabbino Cohen l'aveva etichettato come goy alla prima occhiata.

"Ehi", fece Carella, "chi di noi l'ha chiamata Tony?"

"Stavate per farlo. Me lo sentivo."

Chiamare un indiziato con il suo nome di battesimo era un vecchio trucco da poliziotti, che però in realtà Carella non aveva avuto intenzione di usare con il giovane Inverni. Anzi, era d'accordo con lui per quanto riguardava la proliferazione di tutti quegli americani preceduti da un trattino in una nazione che declamava le parole "Uniti Noi Siamo", come se fossero state uno slogan pubblicitario nuovo di zecca. Ma il padre di Carella si era chiamato Anthony. E si era fatto chiamare Tony.

"Come preferisce che la chiamiamo?" domandò al ragazzo.

"Anthony. Anthony potrebbe essere britannico. Anzi, appena mi laureo mi cambio il cognome in Winters. Anthony Winters. Potrei essere il primo ministro d'Inghilterra: Anthony Winters. Winters è la traduzione inglese di Inverni."

"Lei che università frequenta, Anthony?" gli domandò Carella.

"Questa", rispose Inverni, indicando con un cenno del capo le torri non molto distanti. "La Ramsey University".

"Studia per diventare primo ministro?" gli chiese Meyer.

"Scrittore. Anthony Winters: come suona per uno scrittore?"

"Benissimo", rispose Meyer, saggiando il nome.

"Anthony Winters... perfetto. Compreremo i suoi libri."

"Nel frattempo, però", disse Carella, "ci parli del suo piccolo scontro con il rabbino Cohen."

"Quale scontro?"

"Il rabbino sembra pensare di averla fatta arrabbiare."

"Be', è vero. Insomma, perché non vuole mettere una buona parola per me con il padre di Becky? Ho tutti trenta e lode, sono nella lista d'onore dell'università, cosa sono, una specie di paria? Voi sapete cosa significa paria?"

Meyer pensò che fosse una domanda retorica.

"Non sono neppure cattolico, tanto meno un paria", continuò Anthony, accalorandosi sempre di più. "Ho smesso di andare in chiesa nel momento stesso in cui ho capito cosa cercavano di vendere. Insomma, dovrei credere che una vergine ha partorito? Il Figlio di Dio, nientemeno? È roba che risale agli antichi greci, no? Con tutti quegli dei che si intrufolavano negli affari degli umani. Ma per favore!"

"Esattamente quanto si è arrabbiato?" chiese Carella.

"Abbastanza", rispose Anthony. "Ma avreste dovuto vedere Becky! Quando le ho raccontato cosa mi aveva detto il rabbino, voleva precipitarsi in sinagoga per ucciderlo."

"Quindi lei frequenta ancora la ragazza. È così?"

"Certo che la frequento ancora! Noi due ci sposeremo, cosa credete? Pensate che quel bigotto di suo padre ci fermerà? Pensate che il rabbino Cohen riuscirà a impedircelo? Noi due ci amiamo!"

Buon per te, pensò Meyer. E mazeltov. Comunque sei stato tu ad ammazzare quei due tassisti, come il buon rabbino sembra credere?

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