Autore Ian McEwan
Titolo La ballata di Adam Henry
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Supercoralli , pag. 206, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-22383-0
OriginaleThe Children Act
TraduttoreSusanna Basso
LettoreCristina Lupo, 2015
Classe narrativa inglese












 

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Londra. Giugno. Una settimana dall'inizio del Trinity Term. Tempo inclemente. Quella domenica sera Fiona Maye, giudice dell'Alta Corte, era a casa, sdraiata su una chaise longue a fissare in fondo alla stanza, oltre i propri piedi scalzi, lo scorcio di una libreria a incasso accanto al camino e, sul lato di una vetrata alta, la piccola litografia di bagnante, a firma Renoir, acquistata trent'anni prima per cinquanta sterline. Un falso, probabilmente. Poco sotto, al centro di un tavolo rotondo in legno di noce, un vaso azzurro. Scomparsa ogni memoria di come ne fosse venuta in possesso. Come pure dell'ultima volta che ci aveva messo a bagno dei fiori. Il camino era spento da un anno. Gocce di pioggia annerite precipitavano sulla grata colpendo fogli appallottolati di carta di giornale ingiallita. Tappeto bukara sul palchetto a listoni tirato a cera. Ai margini del campo visivo, un pianoforte a mezza coda sul cui lucido smalto nero poggiavano foto di famiglia in cornice d'argento. A terra, a portata di mano dalla chaise longue, la bozza di una sentenza. E Fiona sdraiata immobile, con il solo desiderio che tutto questo potesse sparire al fondo del mare.

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Orrore, pietà e dilemma della vicenda si trovavano riassunti nella fotografia mostrata al giudice e a nessun altro. Due neonati di genitori di origine giamaicana e scozzese sdraiati a specchio in una culla del reparto pediatrico di terapia intensiva, nel groviglio di tubi dei respiratori, uniti all'altezza del bacino e dotati di un unico torace, con le gambe divaricate ad angolo retto dalle rispettive spine dorsali a formare una sorta di stella marina a piú punte. Dal metro sistemato lungo l'incubatrice si evinceva che lo sventurato viluppo umano misurava sessanta centimetri di lunghezza. Midollo spinale e vertebre sacrali risultavano congiunti, gli occhi erano chiusi, e le quattro braccia si alzavano in segno di resa affidandosi alla decisione della corte. I nomi apostolici dei piccoli, Mark e Matthew, non avevano ispirato la debita lucidità nel formarsi di alcune parti del corpo. La testa di Matthew appariva dilatata, le sue orecchie semplici rientranze sulla superficie rosata della pelle. Sotto la cuffietta di lana invece, la testa di Mark era normale. Condividevano un unico organo, vale a dire la vescica, situata quasi interamente nell'addome di Mark e, secondo le parole di uno specialista, «in grado di svuotarsi autonomamente attraverso uretre separate». Il cuore di Matthew era grosso ma «pompava male». L'aorta di Mark confluiva in quella di Matthew ed era suo il cuore che teneva in vita entrambi. Il cervello di Matthew, gravemente malformato, non risultava compatibile con uno sviluppo regolare, la sua cavità toracica non ospitava sufficiente tessuto polmonare funzionante. Come disse un infermiere, gli mancavano «i polmoni per piangere».

Mark, che succhiava normalmente, si alimentava e respirava per tutti e due, facendo da solo «tutta la fatica», ed era perciò patologicamente sottopeso. Matthew, inerte, cresceva. In quelle condizioni, il cuore di Mark prima o poi non avrebbe piú sostenuto lo sforzo causando la morte di entrambi. Matthew aveva poche probabilità di sopravvivere per piú di sei mesi. Alla sua morte avrebbe portato con sé anche il fratello. Un ospedale londinese chiedeva con urgenza l'autorizzazione a separare i gemelli allo scopo di salvare Mark, l'unico ad avere la possibilità di crescere normale e sano. Per fare ciò i chirurghi avrebbero dovuto clampare e recidere l'aorta condivisa, di fatto uccidendo Matthew. Dopodiché, dare inizio a una complessa serie di interventi ricostruttivi su Mark. Gli amorevoli genitori, cattolici osservanti residenti in un paesino della costa settentrionale giamaicana, si rifiutavano di legittimare l'omicidio. Dio donava la vita e Dio soltanto poteva riprendersela.

Da un lato, il ricordo di Fiona si riduceva a un tremendo baccano prolungato che aggrediva la sua concentrazione; migliaia di sirene, una folla di streghe in delirio, decise a confermare lo stereotipo dei titoli urlati sui giornali. Medici, preti, ospiti televisivi e radiofonici, editorialisti, colleghi, parenti e tassisti, la nazione intera aveva un'opinione in merito. Gli ingredienti narrativi erano formidabili: la tragedia dei neonati, un padre e una madre buoni, seri, convincenti, innamorati l'uno dell'altra ed entrambi dei loro bambini, la vita, l'amore, la morte, la corsa contro il tempo. Chirurghi senza volto contrapposti a una fede nel soprannaturale. Quanto allo spettro delle posizioni, a un estremo si collocavano i fermi sostenitori della praticità laica, innervositi dai cavilli legali, e armati di un'equazione etica di semplicità elementare: un bambino vivo è meglio di due morti. All'altro, si ergevano i depositari non solo della certezza dell'esistenza di Dio ma anche dell'interpretazione della sua volontà. A entrambe le parti Fiona nell'incipit della propria sentenza ricordava, citando il giudice Lord Ward: «Questo è un tribunale che applica la legge, non la morale, e il suo compito è quello di cercare i principi di legge e applicarli, secondo la situazione in esame, tenuto conto della sua specificità».

Nella tremenda fattispecie un solo esito era se non auspicabile, comunque meno ingrato, ma il percorso legale per raggiungerlo si rivelò difficile. Sotto l'incalzare del tempo, e la pressione insistente del mondo, Fiona riuscí a trovare una via praticabile in poco meno di una settimana e una trentina di cartelle. O almeno cosí parve suggerire la Corte d'Appello, costretta a una scadenza ancora piú severa, il giorno dopo la pubblicazione della sua sentenza. Tuttavia non era proponibile l'assunto che una vita valesse piú di un'altra. Separare i gemelli significava uccidere Matthew. Non separarli, avrebbe comportato l'uccisione di entrambi per omissione di soccorso. Lo spazio giuridico e morale era esiguo e la questione non poteva che essere risolta attraverso la scelta del male minore. Eppure, restava dovere del giudice valutare l'esito che meglio rispondeva agli interessi di Matthew. Non la morte, ovviamente. E d'altra parte l'opzione della vita era esclusa. Senza polmoni, con un cuore inutilizzabile e un cervello non adeguatamente sviluppato, Matthew doveva essere sofferente e comunque destinato a morire quanto prima.

Facendo ricorso a una formulazione inedita che la Corte d'Appello accolse, Fiona dichiarò che, a differenza del fratello, Matthew non poteva vantare interessi.

Ma, seppure preferibile, il male minore poteva restare in ogni caso illegittimo. Come giustificare l'omicidio di Matthew, perpetrato tramite rescissione dell'aorta? Fiona non poté accettare la visione che le proponeva il consiglio della struttura sanitaria e cioè che separare i gemelli sarebbe stato analogo a spegnere il respiratore artificiale di Matthew, in questo caso Mark. L'intervento chirurgico era un'aggressione troppo invasiva, incurante dell'integrità fisica di Matthew per essere definita interruzione di trattamento terapeutico. Fiona individuò lo spunto della propria tesi nello «stato di necessità», sancito dall'ordinamento giuridico in base al quale, in determinate circostanze che nessun parlamento si è mai preso la pena di definire, è consentito violare il codice penale allo scopo di impedire un male maggiore. Fece riferimento al caso dei dirottatori di un volo per Londra i quali, pur avendo terrorizzato i passeggeri a bordo, erano andati assolti in quanto agivano mossi dall'urgenza di evitare la persecuzione nel paese di loro provenienza.

Per quanto concerne la questione nodale dell'intento, la finalità dell'intervento chirurgico non era quella di uccidere Matthew, bensí di salvare Mark. Sebbene in modo incolpevole Matthew stava causando la morte di Mark; pertanto ai medici doveva essere concesso di agire in difesa di Mark rimuovendo la minaccia di un pericolo mortale. Dopo l'intervento separativo Matthew sarebbe morto non in seguito a un deliberato omicidio, ma perché non era in grado di sopravvivere autonomamente.

La Corte d'Appello concordò, il ricorso dei genitori fu respinto e, due giorni dopo, alle sette del mattino, i gemelli entravano in sala operatoria.

I colleghi che Fiona stimava di piú la cercarono per congratularsi, o le scrissero il genere di lettera che val la pena di conservare in un'apposita cartellina per la vita. La sua sentenza era puntuale ed elegante, si diceva nell'ambiente. L'intervento ricostruttivo su Mark riuscí; l'interesse pubblico andò scemando fino a trasferirsi altrove. Ma Fiona era inquieta, non riusciva a chiudere il caso, di notte restava sveglia per ore a riconsiderare ogni dettaglio, a riformulare certi passaggi della sua sentenza, adottando un'altra linea di azione. Oppure, a meditare su questioni personali, compreso il suo non aver avuto figli. Contemporaneamente, cominciò a ricevere certe piccole buste in tinte pastello contenenti le velenose considerazioni dei devoti. Erano dell'idea che i due bambini sarebbero dovuti morire insieme e pertanto si dichiaravano tutt'altro che soddisfatti della sua decisione. Alcuni davano la stura a un repertorio di insulti, altri affermavano di volerle mettere le mani addosso. Un ridotto numero di questi ultimi affermava di conoscere il suo indirizzo.

Quelle intense settimane non mancarono di lasciare su di lei un segno che si era appena attenuato. Ma che cosa l'aveva turbata esattamente? Era la stessa domanda che le rivolgeva suo marito, il quale in quel preciso momento aspettava una risposta. Prima dell'udienza, aveva ricevuto una nota dall'arcivescovo della diocesi cattolica di Westminster. Nella sentenza Fiona aveva rispettosamente fatto notare che l'arcivescovo preferiva la morte di Mark insieme a Matthew alla possibilità di interferire con la volontà di Dio. Il fatto che un uomo di chiesa fosse pronto ad annientare la prospettiva di un'esistenza significativa in ossequio a un dogma teologico non la sorprendeva né la riguardava. La legge stessa aveva problemi analoghi quando consentiva ai medici di lasciar morire certi pazienti terminali per soffocamento, disidratazione o denutrizione, ma non concedeva il ricorso al sollievo istantaneo di un'iniezione letale.

La notte i pensieri di Fiona tornavano a quella foto dei gemelli e alle decine di altre che aveva esaminato, e ai tanti ragguagli tecnici che aveva ascoltato da medici specialisti riguardo ai problemi dei due neonati e a tutti i vari tagli, clampaggi, collegamenti e suture da operarsi su carne infantile per restituire a Mark un'esistenza normale, ricostruendogli organi interni, e ruotandogli gambe, genitali e viscere di novanta gradi rispetto alla posizione originale. Nel buio della camera da letto, mentre al suo fianco Jack ronfava placidamente, le pareva di sporgersi dal precipizio di una scogliera. Nel ricordo delle immagini di Mark e Matthew vedeva ritratta la nullità futile e cieca. Un minuscolo ovulo non si era separato in tempo a causa di un errore nella catena degli eventi chimici, di un'infinitesimale interferenza nelle reazioni a cascata delle proteine. Un avvenimento molecolare dalle conseguenze sproporzionate sulla realtà esterna, un fenomeno simile a un universo che esplode, in termini di umana sofferenza. Non c'era di mezzo nessuna crudeltà, nessuna vendetta, né l'ombra di un fantasma mosso da intenzioni misteriose. Solo la trascrizione errata di un gene, un'anomalia nelle componenti enzimatiche, un legame chimico interrotto. Un processo di corruzione naturale tanto immemore quanto privo di scopo. Il che non faceva che sottolineare come una vita sana e perfettamente sviluppata fosse in eguale misura fortuita, in eguale misura senza scopo. Cieca buona sorte, atterrare nel mondo con ogni parte del corpo ben formata e al posto giusto, nascere da genitori amorevoli anziché malvagi, o sfuggire alla miseria e alla guerra in virtù di una combinazione geografica o sociale. E trovare perciò tanto piú facile l'essere virtuosi.

Per qualche tempo quel caso l'aveva obnubilata, resa meno sensibile, piú indifferente nello svolgimento del suo compito, senza convincerla a parlarne con qualcuno. In compenso, si era scoperta una tendenza alla repulsione fisica, quasi un'incapacità di sostenere la vista del proprio corpo o di quello di Jack senza provare disgusto. Come avrebbe potuto spiegarlo a parole? Non era tanto credibile che, dopo anni e anni di carriera legale, proprio quel caso fra gli innumerevoli altri, con la sua tristezza e i suoi addentellati irrazionali, potesse condizionarla in modo tanto profondo. Per qualche tempo, una parte di Fiona si era rattrappita insieme al povero Matthew. Era stata lei a eliminare un bambino dal mondo, ad accompagnarlo fuori dalla vita con trentaquattro pagine di eleganti argomentazioni in prosa. Che importanza aveva il fatto che, col suo testone gonfio e il cuore incapace di pompare, morire fosse comunque il suo destino? Non era stata meno illogica dell'arcivescovo, ed era giunta alla conclusione che rinchiudersi in se stessa fosse suo preciso dovere. Poi, la ferita si era rimarginata ma aveva lasciato del tessuto cicatriziale nei ricordi, perfino dopo sette settimane e un giorno.

Non avere un corpo, fluttuare libera da ogni costrizione fisica, era ciò che avrebbe preferito in assoluto.

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Una storia che si raccontava meglio in fretta. Dopo la laurea, ulteriori esami, l'abilitazione all'esercizio della professione, il praticantato, la fortunata convocazione presso studi legali prestigiosi, qualche successo iniziale nella difesa di alcune cause disperate: quanto era sembrato logico, in tutto ciò, rimandare l'arrivo di un bambino a dopo i trent'anni. E quando i trenta arrivarono, ecco presentarsi altri casi complicati e interessanti, altri successi. Jack esitava a sua volta, sostenendo la scelta di aspettare ancora un anno o due. E si passò ai trentacinque, quando lui insegnava a Pittsburgh e Fiona sfacchinava quattordici ore al giorno appassionandosi sempre di piú al diritto di famiglia mentre la possibilità di crearsene una propria si allontanava, nonostante le visite dei nipoti. Negli anni successivi cominciarono a girare le prime voci su una sua eventuale nomina precoce in magistratura con conseguenti incarichi a seguire le sedi distaccate. In effetti la convocazione non arrivò, almeno non subito. Passati i quaranta, sorsero le prime ansie riguardo alle gravidanze attempate e al connesso rischio di autismo. E di lí a poco iniziarono le scorribande di altri giovani ospiti a Gray's Inn Square, pronipoti chiassosi ed esigenti che le ricordavano come sarebbe stato difficile inserire un bebè nella loro routine. Poi qualche mesto pensiero di adozione, qualche indagine poco convinta e, nel precipizio degli anni successivi, il tormento del dubbio occasionale, i fermi propositi notturni di affido smentiti nella fretta di correre al lavoro, l'indomani. E quando alla fine, un mattino alle nove e mezza, al Palazzo di Giustizia fu invitata dal presidente dell'Alta Corte ad alzare la mano destra e a prestare giuramento di fedeltà alla corona dinanzi a duecento colleghi imparruccati e, fiera con la toga indosso, pronunciò un bel discorso arguto, Fiona seppe che i giochi erano fatti, e che lei apparteneva alla legge come certe donne del passato si erano votate spose di Cristo.

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Era impressione di Fiona, seppure non suffragata dai fatti, che verso il finire dell'estate 2012 le difficoltà e le separazioni tra coniugi o partner avessero registrato nel Regno Unito un picco delle proporzioni di un'onda di marea anomala, che aveva travolto intere famiglie, disperso proprietà e sogni luminosi, annegato chiunque non fosse provvisto di un poderoso istinto di sopravvivenza. Promesse d'amore abiurate o riscritte, compagni un tempo sereni che si trasformavano in astuti combattenti acquattati dietro i rispettivi avvocati, senza badare ai costi. Beni di famiglia fino a quel momento ignorati che diventavano oggetto di guerre senza quartiere, l'abituale fiducia tra pari che finiva rimpiazzata da «accordi» redatti con scrupolosa attenzione. Nei pensieri dei duellanti, la storia stessa veniva rivisitata e il matrimonio descritto come un'unione destinata sin dal principio a fallire, in quanto fondata su un sentimento illusorio. E i figli? Pedine su una scacchiera, moneta di scambio pronta all'uso da parte di madri, vittime di abbandoni economici o affettivi da parte di padri; pretesti per lo scambio di accuse di maltrattamenti reali o piú o meno cinicamente inventati, perlopiú dalle madri, talvolta dai padri; bambini confusi, costretti a fare ogni settimana la spola tra case diverse in situazioni di affidamento condiviso, portapenne e cappotti smarriti che diventavano ingegnosi capi d'accusa di un avvocato contro l'altro; figli costretti dalle circostanze a vedere i loro padri una o due volte al mese; o a non vederli affatto, quando i piú risoluti tra gli uomini svanivano nelle ardenti fucine di nuovi matrimoni, pronti a sfornare altre nidiate di prole.

E i soldi? La valuta corrente adesso erano le mezze verità e i ragionamenti tendenziosi. Mariti taccagni contro mogli altrettanto taccagne, manovre degne di nazioni al termine di una guerra, decise ad arraffare dalle macerie il magro bottino rimasto, prima della ritirata definitiva. Uomini che facevano sparire il denaro su conti all'estero, donne che pretendevano di vivere nell'agiatezza, per sempre. Madri che impedivano ai figli di vedere il padre, a dispetto di quanto disposto dal tribunale; padri che trascuravano il mantenimento dei figli, a dispetto di quanto disposto dal tribunale. Mariti violenti nei confronti di mogli e figli, mogli insincere e maligne; uno dei contendenti, se non entrambi, dediti all'alcol, o alle droghe, oppure psicotici; e ancora i figli, costretti a trasformarsi in badanti di genitori inadeguati, figli vittime di autentici abusi, sessuali o mentali, sessuali e mentali, bambini la cui testimonianza veniva fatta passare sugli schermi in tribunale. E, a livelli diversi da quelli affrontati da Fiona, nei casi di pertinenza esclusivamente penale, restavano ancora i bambini seviziati, affamati o percossi a morte, sottoposti a rituali animisti per essere liberati da spiriti malvagi; c'erano raccapriccianti giovani patrigni che fracassavano le ossa di neonati, sotto lo sguardo complice e vacuo delle loro madri; e c'erano alcol, droghe, estremo squallore domestico, l'indifferenza dei vicini di casa che una sordità selettiva rendeva immuni agli strilli; e infine assistenti sociali incapaci di intervenire vuoi per incuria vuoi per l'eccessivo carico di responsabilità.

Il lavoro della Sezione Famiglia procedeva come sempre. Era per pura coincidenza delle iscrizioni a ruolo che Fiona si trovava a trattare tanti casi di conflitti coniugali. Pura coincidenza, che stesse vivendo un conflitto a sua volta. Nel suo campo non capitava spesso di spedire gente in galera eppure Fiona in certi momenti si trastullava col pensiero di condannare chi, a spese dei propri figli, reclamava per sé una moglie piú giovane, un marito piú agiato e meno noioso, un quartiere diverso, un po' di novità sessuale, un nuovo amore, una rinnovata visione del mondo, un nuovo promettente inizio prima che si facesse troppo tardi. Pura ricerca del piacere. Estremo cattivo gusto morale. A dare corpo a quelle fantasticherie contribuivano il non avere figli e la sua attuale situazione con Jack, e Fiona, naturalmente, non pensava quelle cose sul serio. Anche se, sepolto nelle segrete dei suoi pensieri, e senza permettergli mai di incidere sulle decisioni da prendere, Fiona ospitava un puritano sdegno per uomini e donne inclini a mandare all'aria la propria famiglia e autopersuasi di agire senza alcun tornaconto e a fin di bene. Tale linea di pensiero non escludeva a priori le persone senza figli, o comunque non Jack. Un soggiorno purificante al fresco per aver inquinato il loro matrimonio in nome della novità? Perché no?

La vita in casa loro nella Gray's Inn, del resto, dopo il ritorno di Jack era silenziosa e tesa. C'erano stati i litigi nel corso dei quali Fiona scaricava un po' di veleno. Ma mezza giornata dopo l'amarezza affiorava di nuovo, cocente come un voto matrimoniale, e non era cambiato nulla, l'aria non si era fatta di certo piú pura. Lei restava una donna tradita. Lui condiva le proprie scuse di recriminazioni, lamentando di essersi sentito accantonato, di averla sentita fredda. Una notte era perfino arrivato a dirle che non era piú «divertente» e aveva perso «la voglia di giocare». Di tutte le accuse furono quelle parole a farle piú male perché vi riconobbe lo stigma della verità, il che non diminuí affatto la sua furia.

Se non altro Jack aveva smesso di dirle che l'amava. Dieci giorni prima, durante l'ultima discussione, si erano ripetuti ogni cosa da capo, ogni singola invettiva, ogni replica, ogni frase a lungo meditata e debitamente costruita e, nel giro di poco tempo, si erano ritirati in buon ordine, sfiniti di sé oltre che l'uno dell'altra. Da allora, piú niente. Procedevano nelle rispettive routine, svolgendo il proprio lavoro in parti diverse della città e, quando si ritrovavano confinati sotto lo stesso tetto, tendevano a scansarsi con garbo studiato, come ballerini a una festa di campagna. Se le questioni domestiche li costringevano a conversare, facevano a gara a chi era piú educato e laconico, evitavano di mangiare insieme, lavoravano in stanze separate, ciascuno deconcentrato dalla cruda consapevolezza radioattiva dell'altro al di là di una parete. Senza bisogno di deciderlo, declinavano tutti gli inviti che prevedessero l'adesione di entrambi. L'unico gesto conciliante da parte di Fiona fu quello di consegnargli la chiave nuova.

Da qualche accenno evasivo ma mesto di lui, Fiona dedusse che nella camera da letto dell'esperta di statistica Jack non doveva aver varcato i cancelli del paradiso. Non che la cosa la rassicurasse poi tanto. Sarebbe probabilmente tornato a provarci altrove, se non lo stava addirittura già facendo, per di piú libero, questa volta, dai penosi vincoli della sincerità. Le sue «conferenze di geologia» potevano essere senz'altro una comoda copertura. Fiona ricordava di aver giurato di lasciarlo se fosse andato fino in fondo con Melanie. Ma non aveva avuto il tempo di mettere in atto un ammutinamento di tali proporzioni. E si ritrovava indecisa, diffidente del proprio stesso stato d'animo. Se le avesse concesso piú tempo dopo essersene andato, sarebbe potuta giungere a una decisione ferma e operare in modo concreto alla demolizione o alla ricostruzione del loro matrimonio. Cosí invece si fece assorbire dal lavoro come era sua abitudine e si attrezzò a sopravvivere un giorno dopo l'altro alla tragedia sommessa di quella vita a metà insieme a Jack.

Le cose migliorarono un po' quando una nipote di lui lasciò da loro le figlie per il weekend, due gemelle di otto anni la cui presenza obbligò l'attenzione di entrambi a riversarsi altrove, dilatando perfino le dimensioni dell'appartamento. Per due notti Jack dormí sul divano in soggiorno, senza che la cosa suscitasse alcuna domanda. Erano bambine allevate bene, alla vecchia maniera, avevano modi seri e riservati pur non essendo esenti dall'occasionale litigio violento tra loro. Ogni tanto una delle due - non erano difficili da distinguere - andava da Fiona mentre lei stava leggendo e le si piazzava davanti, con una manina fiduciosamente appoggiata su un ginocchio, pronta a rovesciarle addosso un fiotto argentino di aneddoti, pensieri, fantasticherie. Fiona partecipava al discorso offrendo le proprie storie. Per ben due volte durante la loro visita le capitò, mentre raccontava, di essere travolta da una tale ondata di tenerezza per la bambina da sentirsi chiudere di colpo la gola e bruciare gli occhi. Come a una vecchia stupida. La addolorava constatare quanto Jack ci sapesse fare con i bambini. A rischio di mettersi fuori uso la schiena, come era successo quella volta con i tre figli del fratello di Fiona, si lasciava trascinare in giochi scatenati ai quali le bambine reagivano con attacchi di incontenibili strilli. A casa la loro madre amareggiata dal divorzio di certo non le lanciava in aria a testa in giú. Jack le portava ai giardini e le istruiva su una versione del cricket che si era inventato lui, e leggeva loro una lunga fiaba della buonanotte con poderosa vivacità comica e un vero talento nell'improvvisare le voci.

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A dicembre, il giorno del concerto, Fiona era a casa dal tribunale alle sei, appena il tempo per farsi una doccia e cambiarsi. Sentí Jack in cucina e lo salutò di sfuggita mentre andava in camera da letto. Lui, chino sul frigorifero aperto, le bofonchiò qualcosa. Quaranta minuti dopo Fiona riemergeva nell'ingresso in abito di seta nera e scarpe alte di vernice. Le davano una buona presa sui pedali del piano. Si era messa un girocollo semplice d'argento. Il profumo era Rive Gauche. Dall'hi-fi poco utilizzato del soggiorno arrivava il suono di un brano al pianoforte, un vecchio disco di Keith Jarrett: Facing You. La prima traccia. Fiona si fermò ad ascoltare davanti alla porta della stanza. Era da un pezzo che non sentiva piú quelle melodie esitanti in parte arrangiate. Si era scordata la disinvoltura con cui guadagnavano sicurezza e prendevano vita, mentre la mano sinistra si lanciava in uno strano boogie con note alterate la cui forza insistente diventava inarrestabile, come una locomotiva a vapore in accelerazione. Soltanto un musicista allenato al repertorio classico poteva padroneggiare l'indipendenza delle mani come Jarrett. Almeno secondo il parere tendenzioso di Fiona.

Jack voleva farle pervenire un messaggio perché quello era uno dei tre o quattro album che tanto tempo prima avevano costituito la colonna sonora del loro innamoramento. Quei giorni dopo gli esami, dopo l'allestimento tutto al femminile di Antonio e Cleopatra, quando lui l'aveva convinta a fermarsi prima una e poi decine di notti di seguito nella sua mansarda con la finestra a oblò che affacciava a est. Dove Fiona aveva scoperto che «estasi dei sensi» era qualcosa di meglio di un'espressione retorica. Dove per la prima volta da quando aveva sette anni le era capitato di urlare di piacere. Di abbandonarsi e precipitare in uno spazio disabitato e remoto; piú tardi, sdraiati a letto uno accanto all'altra, avvolti nelle lenzuola come divi del cinema dopo una scena d'amore, avevano riso di tutto quel baccano. Per fortuna, l'appartamento al piano di sotto era sfitto. Quanto a Jack, spigliato giovane dalla lunga chioma, le aveva detto di non aver mai ricevuto un complimento migliore in vita sua. Fiona disse che non riusciva a immaginare come avrebbe mai recuperato, nelle ossa e nella spina dorsale, forza sufficiente per riprovarci. Né se sarebbe mai tornata in vita. Ma ci riprovò, invece, e con discreta frequenza. Era giovane.

Fu in quei mesi che, nel tempo non passato a letto, Jack pensò di conquistarla ulteriormente con il jazz. Ammirava la sua competenza musicale, ma voleva liberarla dalla tirannia di partiture serenamente annotate e personalità geniali defunte da secoli. Le fece ascoltare 'Round Midnight di Thelonious Monk e le comprò lo spartito. Non era difficile. Ma la sua esecuzione, piatta e priva di accenti, la faceva somigliare a un brano di Debussy poco degno di nota. Bene, le disse Jack. I grandi maestri del jazz adoravano Debussy e avevano imparato molto dalla sua musica. Fiona ascoltò di nuovo, tornò insistente a esercitarsi su quanto leggeva sullo spartito, ma il jazz non lo sapeva suonare. Le mancavano il ritmo, il senso della sincope, la libertà; le sue dita ubbidivano passivamente alle note e ai tempi della partitura. Ecco perché si era data alla giurisprudenza, disse al suo innamorato. Per il suo rispetto delle regole.

Rinunciò al jazz, che imparò tuttavia ad ascoltare, e proprio Jarrett divenne il suo artista preferito. Portò Jack a sentirlo a Roma, al Colosseo. L'abilità tecnica, la straripante, naturale emissione di estro lirico di proporzioni mozartiane, eccole di nuovo, dopo tanti anni, ancora capaci di paralizzarla in ascolto, ricordandole che persone divertenti lei e Jack erano, un tempo. Sí, quella musica era stata scelta ad arte.

Procedette nel corridoio per bloccarsi ancora sulla soglia del soggiorno. Jack si era dato da fare. Aveva finalmente cambiato un paio di lampadine bruciate. E sistemato varie candele in giro per le stanze. Le tende chiuse tenevano fuori il buio e la pioggia svogliata della sera invernale e, per la prima volta dopo piú di un anno, nel camino ardeva un fuoco vivace, di ciocchi di legna oltre che di carbone. Jack la aspettava con una bottiglia di champagne. Davanti a lui, sul tavolino basso, un piatto di formaggio, olive e prosciutto crudo.

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