Copertina
Autore Ian McEwan
Titolo Espiazione
EdizioneEinaudi, Torino, 2002, Supercoralli , pag. 390, dim. 145x220x30 mm , Isbn 978-88-06-16030-2
OriginaleAtonement [2001]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa inglese
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Pagina 7

Lo spettacolo per il quale Briony aveva ideato locandine, programmi e biglietti, costruito il botteghino con un paravento sbilenco e foderato di carta rossa la cassetta dei soldi, era opera sua, frutto di due giornate di una creatività tanto burrascosa da farle saltare una colazione e un pranzo. Quando ebbe concluso i preparativi, non le restò altro da fare che contemplarne la stesura definitiva e aspettare di veder comparire i suoi cugini dal lontano nord. Ci sarebbe stato un solo giorno di tempo per le prove, prima dell'arrivo di suo fratello. A tratti pungente, spesso disperatamente triste, il dramma narrava una storia di cuore il cui messaggio, racchiuso nel prologo in rima, era che un amore non costruito su fondamenta di grande buonsenso ha il destino segnato. La sconsiderata passione dell'eroina per un malvagio conte straniero naufraga nella sventura allorché la protagonista, Arabella, contrae il colera durante una corsa precipitosa verso una cittadina di mare in compagnia del suo promesso. Abbandonata da lui come da quasi tutti gli altri, costretta a letto in una soffitta, la protagonista scopre in se stessa la forza dell'ironia. La sorte le offre una seconda occasione nella persona di un medico in ristrettezze economiche - in realtà, un principe sotto mentite spoglie che ha deciso di lavorare tra i bisognosi. L'uomo la guarisce e Arabella, che questa volta sceglie con giudizio, è ricompensata dalla riconciliazione con la sua famiglia e dalle nozze col principe-dottore in una «ventosa giornata di sole primaverile».

La signora Tallis lesse le sette pagine delle Disavventure di Arabella in camera sua, seduta alla toletta, con un braccio dell'autrice sulla spalla per tutta la durata della lettura. Briony scrutava il viso della madre per non lasciarsi sfuggire il passaggio fugace di un'emozione, ed Emily Tallis stette al gioco producendosi in espressioni di allarme, risatine di gioia e, alla fine, in sorrisi riconoscenti e avveduti cenni di assenso. Prese tra le braccia la figlia, se la sedette in grembo - ah, le tornava alla mente il bel corpicino caldo di quando era piccola, non ancora perduto, non del tutto - e definí la sua commedia «incantevole», acconsentendo subito, con un mormorio soffiato nella spirale stretta dell'orecchio della bambina, a che quell'aggettivo venisse utilizzato sulla locandina da esporre su un cavalletto in ingresso, accanto alla biglietteria.

Briony non poteva saperlo allora, ma quello sarebbe stato l'attimo di maggior successo della sua iniziativa. Niente poté eguagliarne il senso di soddisfazione, tutto il resto si ridusse a una serie di sogni e di delusioni. C'erano momenti nelle notti estive in cui, spente le luci e rintanata nel buio accogliente del letto a baldacchino, Briony lasciava battere il proprio cuore al pensiero di fantasticherie luminose e ardenti, di per sé brevi commediole che prevedevano immancabilmente la presenza di Leon. In un caso, la sua faccia grande e cordiale era sconvolta dalla sofferenza di fronte alla solitudine disperata di Arabella. In un altro, eccolo in qualche ritrovo alla moda della capitale mentre, con il bicchiere del cocktail in mano, si vantava con un gruppo di amici dicendo: «Si, la mia sorellina, Briony Tallis, ne avrete senz'altro sentito parlare». In un terzo, Leon levava in aria un pugno di giubilo mentre il sipario calava, anche se non c'era nessun sipario, era stato impossibile realizzarlo. Il dramma non era destinato ai cugini, bensí al fratello, di cui intendeva festeggiare il ritorno a casa e suscitare l'ammirazione per poi strapparlo alla sventata sequela di fidanzate e indirizzarlo verso una moglie appropriata, quella che lo avrebbe convinto a tornare in campagna, e avrebbe cortesemente richiesto a lei di farle da damigella d'onore.

Briony era una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto. Mentre la camera della sorella maggiore era una baraonda di libri mai chiusi, vestiti mai ripiegati, un letto mai rifatto e posacenere mai svuotati, quella di Briony era il santuario del demone che la animava: nel modellino di fattoria disposto sul davanzale profondo della finestra figuravano gli animali consueti, ma tutti rivolti in un'unica direzione - quella della loro proprietaria -, quasi che fossero sul punto di levare un canto; perfino le galline erano sistemate rigorosamente in cerchio. In effetti quella di Briony era la sola camera ordinata al piano di sopra della casa. Le sue bambole, sedute erette nelle loro ville a piú stanze, parevano obbedire al preciso ordine di non sfiorare mai le pareti; le file composte e spaziate delle varie figure alte un dito sulla sua toletta - cowboy, sommozzatori, topi umanoidi - davano l'impressione di un piccolo esercito sull'attenti.

Il gusto per le miniature rappresentava un aspetto della sua indole metodica. Un altro era la passione per i segreti: un suo prezioso stipetto laccato disponeva di un cassettino segreto che si apriva spingendo l'estremità di un ingegnoso incastro a coda di rondine; qui Briony custodiva un diario chiuso con un lucchetto e un taccuino scritto in un codice di sua invenzione. In una cassaforte giocattolo da aprire con una combinazione di sei numeri segreti conservava lettere e cartoline. Una vecchia scatola di latta stava nascosta da un'assicella del pavimento, sotto il suo letto. La scatola conteneva tesori che risalivano a quattro anni prima, al suo nono compleanno, quando aveva deciso di inaugurare la collezione: una doppia ghianda mutante, un campione di pirite, un incantesimo per la pioggia comprato a una fiera, e un teschio di scoiattolo leggero come una foglia.

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Pagina 37

Secondo la locandina appesa nell'ingresso, la prima delle Disavventure di Arabella sarebbe andata in scena appena un giorno dopo le prove. Tuttavia, non fu semplice per l'autrice-regista recuperare il tempo necessario a svolgere un lavoro produttivo. Come già era avvenuto il pomeriggio precedente, il problema consisteva nel riuscire a radunare il cast. Nella notte Jackson, il severo padre di Arabella, aveva bagnato il letto, come è normale che accada a un bambino turbato e perdipiú lontano da casa, e perciò fu costretto in base alla vigente teoria educativa a portare di sotto in lavanderia lenzuola e pigiama e a lavarseli personalmente, a mano, sotto lo sguardo vigile di Betty a cui era stato ordinato di mantenersi fredda e irremovibile. La cosa non venne presentata al ragazzo come un castigo; l'idea era piuttosto quella di educare il suo inconscio a ricordare che cedimenti futuri avrebbero comportato altro imbarazzo e fatica. Ma non era facile non sentirsi rimproverati - standosene di fronte a un immenso acquaio di pietra che ti arriva fino al petto, con la saponata che ti sale sulle braccia nude e inzuppa le maniche arrotolate della camicia, mentre le lenzuola fradice si fanno pesanti come un cane morto e l'atmosfera di disastro cosmico che ti circonda paralizza la tua volontà. Briony scendeva a intervalli regolari per controllare l'andamento dei lavori. Le era stato proibito si aiutare Jackson, che ovviamente non aveva mai fatto un bucato in vita sua; i due successivi lavaggi, gli innumerevoli risciacqui e la vigorosa strizzatura a due mani con il mangano, insieme al tremebondo quarto d'ora passato dopo al tavolo di cucina davanti a pane e burro e un bicchier d'acqua, sottrassero alle prove un buon paio d'ore.

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Pagina 98

Era ormai uscito dagli alberi e aveva raggiunto il punto in cui il sentiero sfociava sulla strada. La luce calante ingigantiva la cupa distesa del parco, e il pacato brillio giallo delle finestre oltre il lago conferiva una bellezza quasi solenne alla villa. Lei era là dentro, magari in camera sua, a prepararsi per la serata sul lato non visibile dell'edificio, al secondo piano. Sul versante della fontana. Robbie allontanò dalla mente il violento pensiero di lei nella luce del giorno, non volendo presentarsi a cena turbato. Le suole dure delle scarpe ticchettavano sulla strada inghiaiata come un enorme orologio, e lui si costrinse a pensare al tempo, all'enorme ricchezza di cui disponeva, al lusso di un'intera fortuna ancora da spendere. Non si era mai sentito cosi giovane, né aveva provato una simile smania, quell'impazienza di dare inizio alla storia. C'erano uomini a Cambridge che si dimostravano agili sul piano intellettuale, che ancora se la cavavano discretamente su un campo da tennis, o su una canoa, pur avendo vent'anni piú di lui. Almeno vent'anni dunque per dare corso alla storia piú o meno a quello stesso livello di benessere fisico: quasi lo stesso tempo che aveva alle spalle. Vent'anni lo trasportavano innanzi al futuristico 1955. Di quali fatti significativi sarebbe stato al corrente allora, che gli erano ignoti adesso? Chissà se avrebbe potuto disporre di un'altra trentina d'anni ancora, da vivere a passo un po' piú tranquillo?

Pensò a se stesso nel 1962, ormai cinquantenne, vecchio, ma non fino al punto di essere inutile. E immaginò il maturo e saggio dottore che sarebbe diventato, con le sue storie segrete, tragedie e successi ammucchiati dietro le spalle. Come le pile di libri, migliaia, perché avrebbe avuto uno studio, tetro e vastissimo, stipato dei ricchi trofei di una vita di viaggi e pensieri: erbe rare dalla foresta pluviale, frecce avvelenate, invenzioni elettriche non portate a termine, statuette di steatite, teschi rimpiccioliti, arte aborigena. Sugli scaffali, manuali di medicina e filosofia, certo, ma anche i testi che attualmente occupavano l'angusto spazio nel sottotetto del villino: le liriche del diciottesimo secolo che l'avevano quasi convinto a diventare un architetto di giardini, la sua terza edizione di Jane Austen, il suo Eliot e Lawrence e Wilfred Owen, l'opera omnia di Conrad, l'inestimabile copia del Villaggio di Crabbe del 1783, l'Housman, la copia autografa della Danza della morte di Auden. Perché il punto era senz'altro questo: lui sarebbe stato un medico migliore per il fatto di aver letto tanta letteratura. La sua sensibilità elaborata gli avrebbe suggerito analisi profonde della sofferenza, della follia autolesionista o della mera sfortuna che conducono gli esseri umani alla malattia! Nascita, morte, e in mezzo un cammino di fragilità. Principio e fine, questi i fenomeni di cui si occupava un dottore, e altrettanto faceva la letteratura. Aveva in mente il romanzo del diciannovesimo secolo. Grande tolleranza e ampie vedute, un'umile generosità di sentimenti e l'imparzialità di giudizio; il suo modello di medico sarebbe stato aperto ai mostruosi disegni del fato, come alle vane e ridicole resistenze all'ineluttabile; avrebbe tastato polsi dal battito indebolito, ascoltato ultimi respiri, sentito mani febbricitanti farsi piú fresche, e avrebbe riflettuto, come solo letteratura e religione possono insegnare a fare, sul coesistere di miseria e nobiltà nel genere umano...

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Pagina 157

Decise di non chiudere le porte finestre, e sedette a un'estremità deldivano. Non avrebbe potuto dire di sentirsi esattamente in attesa. Nessuno di sua conoscenza la eguagliava nella capacità di restare immobile, senza nemmeno un libro in grembo, per poi spostarsi con dolcezza tra i pensieri come si potrebbe procedere all'esplorazione di un giardino sconosciuto. Aveva imparato l'esercizio della pazienza in anni passati a scongiurare emicranie. Ansia, concentrazione, lettura, osservazione, desiderio: tutte cose da evitare in favore di una lenta deriva di associazioni mentali, mentre i minuti si accumulavano come mucchi di neve e il silenzio cresceva intorno a lei. Seduta qui ora sentiva l'aria della sera sfiorarle l'orlo del vestito sugli stinchi. La sua infanzia era tangibile come la seta cangiante dell'abito: un sapore, un suono, un odore, ognuno di questi elementi si mescolava agli altri per dare corpo a qualcosa che era ben piú di uno stato d'animo. C'era una presenza nella stanza, Emily a dieci anni, una bambina perfino piú introversa di Briony, triste e trascurata, che passava ore a interrogarsi sull'enorme vacuità del tempo, e a meravigliarsi del fatto che il diciannovesimo secolo stesse per finire. Era proprio da lei restarsene seduta in disparte, anziché unirsi agli altri. Lo spettro infantile era stato evocato non da Lola che imitava Hermione, né dall'imperscrutabile serietà dei gemelli ora ingoiati dalla notte. Si trattava piuttosto di un lento ritiro, un rifugiarsi dentro un mondo autonomo che andava di pari passo con la fine imminente dell'infanzia di Briony. Il fantasma era tornato a tormentarla. Briony era la sua ultima figlia, e non ci sarebbe stato piú nulla tra il presente e la tomba di altrettanto essenziale e felice quanto l'occuparsi di un bambino. Sciocca non era. Sapeva benissimo che era solo vittimismo abbandonarsi alla contemplazione della propria apparente rovina: Briony avrebbe senz'altro imitato la sorella, andando al Girton College, mentre lei, Emily, si sarebbe fatta ogni giorno piú anchilosata e insignificante; l'età e la stanchezza le avrebbero restituito Jack, senza che nessuno sentisse il bisogno di chiarire. Ed ecco che lo spettro dell'infanzia, aleggiando nello spazio della sala, veniva a ricordarle l'esiguità dell'arco di una vita. Come finisce tutto in fretta. Altro che immensa vacuità del tempo, era una corsa a perdifiato. Inesorabile.

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Pagina 287

Erano rari i momenti della giornata in cui la sua mente poteva vagare libera. Qualche volta le veniva assegnato un incarico al dispensario ed era costretta ad aspettare che arrivasse il farmacista. In quei casi percorreva il corridoio fino a una scala accanto alla quale una finestra si affacciava sul fiume. A sua insaputa, il peso del corpo le si appoggiava al piede destro mentre lei puntava lo sguardo sul Parlamento senza neanche vederlo, e andava col pensiero non al suo diario, ma al racconto lungo che aveva scritto e inviato a una rivista. Durante il suo soggiorno a Primrose Hill aveva preso in prestito la macchina da scrivere dello zio e, occupata la sala da pranzo, aveva battuto con due sole dita la stesura definitiva del racconto. Ci aveva passato sopra l'intera settimana, per piú di otto ore al giorno, fino a farsi venire male al collo, fino a quando la vista non le si era riempita di riccioli tipografici in continuo movimento. Eppure, quasi non ricordava un piacere piú grande di quello provato alla fine, quando sistemò con le mani la pila di pagine - ben centotre - e sentí, sulla punta delle dita indolenzite tutto il peso della creazione. Interamente sua. Nessun altro avrebbe potuto scrivere quelle parole. Si tenne una copia a carbone, avvolse il racconto (che termine inadeguato a definirlo) in carta da pacchi marrone, prese l'autobus per Bloomsbury, raggiunse a piedi l'indirizzo sulla Lansdowne Terrace, sede della nuova rivista «Horizon», e consegnò il pacco alla cortese signorina che venne alla porta.

Quello che la emozionava dell'opera era soprattutto la struttura, la precisione geometrica utilizzata per descrivere l'incertezza della moderna sensibilità. A suo giudizio l'epoca delle risposte chiare era finita. E cosi pure quella di personaggi e intrecci. A dispetto dei tipi pittoreschi abbozzati nel suo diario, nei personaggi Briony non credeva piú. Il concetto stesso si fondava su errori che la moderna psicologia aveva sottolineato. Anche le trame del resto costituivano una sorta di macchinario arrugginito dagli ingranaggi inceppati. Un romanziere moderno non avrebbe potuto utilizzare trame e personaggi piú di quanto un musicista potesse comporre una sinfonia mozartiana. Erano il pensiero, la percezione, i sensi a interessarla, la coscienza come fiume nel tempo, e poi il modo per rappresentarne il fluire, e i corsi d'acqua che andavano a ingrossarlo, e gli ostacoli che ne deviavano il cammino. Se solo fosse riuscita a riprodurre la purezza della luce di una mattina estiva, le sensazioni di una bambina affacciata alla finestra, la curva del volo radente di una rondine su uno specchio d'acqua. Il romanzo del futuro non doveva assomigliare in nulla a quelli del passato. Briony aveva letto Le onde di Virginia Woolf tre volte pensando che perfino la natura umana stesse subendo una grande trasformazione e che soltanto l'arte, un nuovo modo di concepire la letteratura, sarebbe stata in grado di cogliere il senso di quel cambiamento. Penetrare all'interno di una mente e mostrarne il lavoro e il lavorio interiore e inserire tutto questo in una struttura geometrica: ecco un autentico trionfo artistico. Su questo rifletteva l'infermiera Tallis sostando nei pressi del dispensario, in attesa che tornasse il farmacista, con lo sguardo perso oltre il Tamigi, dimentica del pericolo di essere scoperta dalla caposala Drummond in quella postura sconveniente, su un piede solo.

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Pagina 310

Tirocinanti e studentesse del secondo anno lavorarono dodici ore senza interruzione. Le altre tirocinanti e le infermiere qualificate non si fermarono, e nessuno ricordava da quanto tempo fossero impegnate nei reparti. In seguito Briony pensò che tutto l'addestramento ricevuto le era stato utile sul piano della preparazione, soprattutto in termini di abitudine all'obbedienza, ma solo quella notte aveva capito che cosa significava essere un'infermiera. Non aveva mai visto piangere un uomo in vita sua. Dapprima la cosa l'aveva sconvolta, ma nel giro di poche ore non ci badava nemmeno piú. D'altra parte lo stoicismo di alcuni soldati la sorprese fino a lasciarla stupefatta. Gli uomini che tornavano in reparto dopo l'amputazione di un arto, parevano sentirsi in dovere di fare battute atroci. E adesso con che cosa la prendo a calci mia moglie? Ogni segreto del corpo veniva reso pubblico: ossa sporgenti dalla carne, brandelli di viscere fuoriusciti, nervi ottici scoperti. Da quella prospettiva tanto inedita quanto indiscreta, Briony imparò una cosa ovvia e semplicissima che aveva sempre saputo, come tutti: ogni persona è, tra le altre cose, un oggetto facile da rompere e difficile da riparare. Quell'esperienza l'avvicinò quanto piú le sarebbe mai stato possibile al campo di battaglia, perché ogni caso al quale prestò aiuto ne conteneva alcuni elementi essenziali: sangue, grasso, sabbia, fango, acqua di mare, proiettili, schegge di granate, olio per macchine, o l'odore di cordite e quello umido e dolciastro delle uniformi intrise di sudore nelle cui tasche si trovavano avanzi di cibo rancido e pezzetti fradici di cioccolata Amo. Spesso, quando per l'ennesima volta tornava al lavandino dove l'aspettavano i rubinetti alti e il sapone di soda, era sabbia di mare quella che si sfregava via dalle dita. Lei e le altre tirocinanti registravano la presenza delle compagne ormai solo come infermiere, non come amiche; a malapena si rese conto che una delle ragazze che l'avevano aiutata a sistemare il caporale MacIntyre sulla padella era Fiona. Certe volte, quando uno dei soldati di cui si stava occupando soffriva particolarmente, si sorprendeva della tenerezza impersonale che l'aiutava a mantenere la distanza dalla sofferenza consentendole di lavorare in modo efficace, senza mostrare orrore. Fu allora che comprese il significato del suo lavoro, e avrebbe tanto desiderato essere già diplomata, disporre di maggiore professionalità. Immaginò che avrebbe potuto rinunciare a ogni ambizione di scrittrice e sacrificare l'intera esistenza, in cambio di quei momenti d'amore assoluto.

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