Autore Ian McEwan
Titolo Macchine come me
Sottotitoloe persone come voi
EdizioneEinaudi, Torino, 2019, Supercoralli , pag. 290, cop.rig.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-24184-1
OriginaleMachines Like Me and People Like You
EdizioneCape, London, 2019
TraduttoreSusanna Basso
LettoreGiorgio Crepe, 2019
Classe narrativa inglese , fantascienza , mente-corpo , informatica: sociologia












 

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Pagina 3

Uno


Era anelito religioso corroborato dalla speranza, era il sacro graal della scienza. Le nostre ambizioni in corsa su un ottovolante: un mito della creazione trasformato in realtà, un atto di mostruoso narcisismo. Non appena divenne fattibile non ci restò altra scelta che provarci, e al diavolo le conseguenze. A dirla nel piú nobile dei modi, cercavamo di sottrarci alla nostra condizione mortale, di affrontare se non di sostituire la divinità con un io esemplare. In parole più povere, inteddevamo ideare una versione migliore e più moderna di noi stessi e gioire del trionfo dell'estro, del brivido della nostra maestria. Nell'autunno del ventesimo secolo finalmente accadde, il primo passo verso la conquista di un sogno antico, l'inizio di un lungo insegnamento in base al quale ci saremmo detti che, per quanto complicati fossimo, per quanto imprecisa e difficile risultasse la descrizione dei nostri gesti e comportamenti, anche i piú banali, potevamo essere imitati e perfezionati. E io ero presente in quell'alba gelida: un giovane e smanioso pioniere dell'adozione.

Certo, le creature artificiali erano un cliché molto prima del loro arrivo, il che spiega come mai, al momento buono, per alcuni furono una delusione. Piú agile della storia, come del progresso tecnologico, l'immaginazione aveva già messo in scena quel domani in romanzi, e poi film e sceneggiati televisivi, come se lo sguardo vitreo, le movenze innaturali della testa, una certa rigidità della schiena di qualche attore umano bastassero a prepararci alla vita con i nostri cugini del futuro.

Io stavo con gli ottimisti, favorito da un'inattesa disponibilità di fondi a seguito della morte di mia madre e della vendita della casa di famiglia che scoprimmo costruita su un'area di vantaggioso sviluppo urbanistico. Il primo autentico umano artificiale dotato di aspetto fisico e intelligenza realistici, movimenti ed espressioni facciali verosimili fu messo in vendita la settimana prima che la task force britannica desse inizio alla sciagurata missione nelle Falkland. Adam costava 86000 sterline. Lo portai a casa, nel mio brutto appartamento nella zona nord di Clapham, a bordo di un furgone noleggiato. Era stata una decisione incauta, la mia, ma mi confortava sapere che Sir Alan Turing, eroe di guerra, genio e nume tutelare dell'era digitale, si era fatto consegnare lo stesso identico modello. È probabile che volesse farlo smontare nel suo laboratorio per studiarne a fondo il funzionamento.

Dodici esemplari di quella prima linea di produzione si chiamavano Adam, tredici Eve. Scontato, d'accordo, ma commercialmente valido. Dato il discredito scientifico riguardo ai fondamenti ideologici del concetto di razza, i venticinque soggetti erano stati progettati per coprire un'ampia gamma di etnie. Erano corse voci, poi trasformatesi in reclami, che il modello arabo non fosse distinguibile dall'ebreo. La programmazione arbitraria unita all'esperienza di vita avrebbe garantito ogni latitudine in materia di preferenze sessuali. In capo alla prima settimana, le Eve erano esaurite. A uno sguardo superficiale, il mio Adam poteva passare per un modello turco o greco. Pesava quasi ottanta chili, perciò dovetti chiedere aiuto a Miranda, la vicina del piano di sopra, per portarlo dentro dalla strada sulla portantina monouso presente nella confezione.

Mentre gli si caricavano le batterie, misi su un caffè e cominciai a scorrere le quattrocentosettanta pagine del manuale online. Era scritto in un linguaggio perlopiù chiaro e preciso. Ma Adam era il prodotto di diversi contributi e, in certi punti, le istruzioni assumevano il fascino stralunato di un nonsense. «Per attenuare il range di volubilità umorale, dissollevare la copertura del pettorale B347k: l'output di scheda madre produrrà un emoticon sbarazzino».

Infine, con le caviglie intrappolate fra cartoni e polistirolo, eccolo lí, nudo, seduto al mio minuscolo tavolo da pranzo, con gli occhi chiusi, e un cavo elettrico nero che gli usciva dall'apposita spina ombelicale e raggiungeva la presa da tredici ampere nel muro. Ci sarebbero volute sedici ore per avviarlo. Seguite da una serie di aggiornamenti e personalizzazioni. Io volevo averlo in funzione subito, e Miranda anche. Come una coppia di genitori giovani, non vedevamo l'ora di sentirlo pronunciare le sue prime parole. Altro che un microfono scadente piazzato nel petto. Dalla roboante retorica pubblicitaria sapevamo che emetteva suoni utilizzando fiato, lingua, denti e palato. La sua pelle, oltre che realistica, era già tiepida al tatto, e liscia come quella di un bambino. Miranda sosteneva di aver visto un fremito nelle sue ciglia. Ero convinto che le vibrazioni dipendessero dai treni della metropolitana in corsa una trentina di metri sotto di noi, ma non dissi nulla.

Adam non era un giocattolo erotico. Ciononostante era sessualmente capace e in possesso di mucose che comportavano il consumo di mezzo litro d'acqua al giorno per mantenersi funzionanti. Lo osservai seduto al tavolo e notai che era discretamente dotato, non circonciso, e provvisto di fitto pelo pubico scuro. Questo esemplare umano artificiale di ultima generazione rispecchiava probabilmente gli appetiti dei suoi giovani creatori informatici. Gli Adam e le Eve, dovevano aver deciso, sarebbero stati esuberanti.

Era venduto come articolo da compagnia, sparring partner intellettuale, amico e factotum in grado di lavare i piatti, fare i letti e «pensare». Di registrare e rievocare ogni istante della sua esistenza, ogni cosa vista o sentita. Al momento non era ancora abilitato a guidare, né autorizzato a nuotare, farsi la doccia o uscire sotto la pioggia senza ombrello, e nemmeno a utilizzare una motosega senza supervisione. Quanto a capacità di accumulo e durata, grazie allo sviluppo tecnologico in campo elettrico, era in grado di correre diciassette chilometri in due ore senza ricarica o, in alternativa, di conversare non stop per dodici giorni. Era programmato per una vita ventennale. Si presentava di corporatura compatta, spalle forti, pelle scura, folti capelli neri pettinati all'indietro; viso affilato, naso leggermente aquilino a suggerire intelligenza acuta, occhi pensosamente socchiusi, labbra tirate che sotto il nostro sguardo andavano perdendo il colorito cadaverico bianco-giallognolo per guadagnare una ricca tinta umana e forse rilassarsi perfino un poco agli angoli. Miranda commentò che ricordava «un portuale del Bosforo».

Davanti a noi sedeva l'ultimo balocco, il sogno di ogni epoca, il trionfo dell'umanità, o l'angelo che ne annunciava la morte. Esaltante al massimo, ma al tempo stesso frustrante. Sedici ore seduti ad aspettare erano eterne. Pensai che per quanto mi era costato il disturbo, Adam mi sarebbe dovuto arrivare già carico e pronto all'uso. Era un tardo pomeriggio d'inverno. Tostai del pane e prendemmo un altro caffè. Miranda, alle prese con un dottorato in storia sociale, disse che le sarebbe piaciuto avere accanto la giovanissima Mary Shelley a osservare con noi da vicino, non già il mostro di Frankenstein, ma questo bel giovane di carnagione scura intento a prender vita. Dissi che le due creature avevano in comune almeno la fame di vivificante energia elettrica.

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Secondo lo strano fenomeno per cui uno riserva le confidenze ai pressoché estranei, a Simon avevo detto della mia nuova fidanzata. Ci aveva già visti in edicola insieme, e si era fatto un'idea.

Ora, ogni volta che passavo da lui, la sua prima domanda era immancabilmente: «Come vanno le cose?» E gli piaceva aggiungere, per nessun altro motivo se non il desiderio di mostrarsi gentile: «È destino. La ragazza non potrà evitarla, è chiaro. Auguro eterna gioia a entrambi». Avevo allora la percezione del cumulo di delusioni alle sue spalle. Era abbastanza vecchio da poter essere mio padre e voleva per me quello che a lui era sfuggito.

Non c'erano altri clienti quando Adam e io entrammo nell'edicola strapiena, con il suo odore che era un misto di carta stampata, polvere di arachidi e prodotti da bagno economici. Simon si alzò dalla seggiola che occupava dietro la cassa. Poiché non ero solo, non mi avrebbe rivolto la domanda consueta.

Feci le presentazioni. - Simon. Lui è il mio amico Adam.

Simon annui. Adam disse «Salve» e sorrise.

Mi tranquillizzai. L'inizio era buono. Se Simon aveva notato la stranezza degli occhi di Adam, non lo diede a vedere. Era una reazione comune, avrei presto scoperto. La gente supponeva si trattasse di una deformità congenita e distoglieva educatamente lo sguardo. Simon e io ci mettemmo a parlare di cricket - tre colpi consecutivi da sei punti e un'invasione di campo al T20 India-Inghilterra - mentre Adam se ne stava in disparte davanti a uno schieramento di merci in lattina su uno scaffale. Dovevano essergli risultate istantaneamente note in termini di storia commerciale, quota di mercato, valori nutrizionali. Ma mentre noi chiacchieravamo, era ovvio che lui non stava davvero osservando i piselli in scatola, o altro. Il suo viso era una maschera di ghiaccio. Non si muoveva da un paio di minuti. Temevo che stesse per succedere qualcosa di poco gradevole. Simon fingeva garbatamente di non aver notato. Non era da escludere che Adam si fosse messo in modalità di riposo. Mi presi un appunto mentale: gli occorreva un miglioramento in termini di plausibilità fisica quando non era impegnato in qualcosa. Gli occhi li aveva aperti, ma non sbatteva le palpebre. Forse l'avevo portato nel mondo troppo presto. Simon si sarebbe offeso sapendo che avevo cercato di spacciare Adam per una persona, un amico. Poteva sembrargli una presa in giro, uno scherzo di cattivo gusto. Avrei imbrogliato un simpatico conoscente.

La conversazione sul cricket cominciava a languire. Lo sguardo di Simon si fermò su Adam, prima di tornare a me. Mi disse in tono discreto: - È arrivato il suo «Anthropos».

Ottimo pretesto per dirigermi verso le riviste, dove stava Adam. Anni addietro, Simon aveva sgomberato lo scaffale alto destinato alle pubblicazioni pornografiche optando invece per roba specialistica, riviste letterarie, atti di convegni accademici a livello internazionale, storia, entomologia. In zona abitava un discreto numero di intellettuali âgé male in arnese.

Mentre mi voltavo, Simon aggiunse: - Ce la fa da sé? - Una battuta benevola per alleggerire la tensione. Simon è piú alto e di solito è lui ad allungarsi fin lassù.

Bastò una parola a riportare Adam in vita. Con un debolissimo ronzio che mi augurai di essere stato il solo a sentire, si rivolse a Simon in tono formale: - Da sé, ha detto. Che coincidenza. Negli ultimi tempi mi è capitato di riflettere sul mistero del sé. Secondo alcuni si tratterebbe di un elemento o di un processo organico inscritto nelle strutture neurali. Altri insistono nel definirlo una mera illusione, un sottoprodotto delle nostre tendenze narrative.

Cadde il silenzio, poi, irrigidendosi un po', Simon disse:

- Ebbene, signore? Lei ha deciso? Dei due qual è?

- È il modo in cui sono fatto. Sono costretto a concludere che dispongo di un fortissimo senso del sé, che certamente si tratta di una realtà e che un giorno le neuroscienze saranno in grado di darne una definizione completa. Ma anche allora non lo conoscerò meglio di adesso. Tuttavia mi capita di avere dei dubbi e di chiedermi se non potrei essere soggetto a una sorta di errore cartesiano.

A quel punto avevo in mano la mia rivista e mi preparavo ad andarmene. - Prenda i buddisti, - disse Simon. - Loro preferiscono farne a meno.

- Ah sí? Mi piacerebbe incontrarne uno. Lei ne conosce?

Il tono di Simon fu veemente. - No, signore. Assolutamente no.

Sollevai una mano in segno di saluto e ringraziamento e, prendendo Adam per un gomito, lo guidai verso la porta.

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Rimasi in cucina sprofondato in una vecchia poltrona di cuoio con un napoleone di bianco moldavo in mano. Che soddisfazione poter seguire il filo di un ragionamento in assenza di avversatori. Di sicuro non ero il primo a pensarlo, ma la storia dell'autostima umana potrebbe essere vista come un susseguirsi di inesorabili retrocessioni proiettate verso l'estinzione. Un tempo occupavamo la sala del trono al centro dell'universo, insieme al sole e ai pianeti, con l'intero mondo osservabile che ci roteava intorno in una danza di inveterata devozione. Poi, in sfida al clero, l'astronomia impietosa ci ridusse a un pianeta orbitante intorno al sole, non piú di una palla di roccia fra le tante. Ma se non altro, ancora in disparte, ancora squisitamente unici, incaricati dal creatore di dominare ogni cosa viva. Poi la biologia ci spiegò che eravamo tutt'uno con gli altri esseri viventi, che avevamo ascendenze comuni con batteri, viole del pensiero, trote e pecore. Al principio del ventesimo secolo finimmo relegati in un esilio ancora piú remoto, quando divenne nota l'immensità dell'universo e perfino il sole fu degradato a uno tra i miliardi di soli nella nostra galassia, tra miliardi di galassie. Ci asserragliammo infine nella coscienza, nostro estremo fortilizio, avendo ancora discrete ragioni per credere di godere in questo senso del primato su qualunque altra creatura sulla terra. Ma la stessa mente che in passato si era ribellata agli dèi era in procinto di detronizzare se stessa sfruttando le proprie favoleggiate facoltà. Per farla breve, avremmo messo a punto una macchina appena un poco piú intelligente di noi e l'avremmo programmata per inventarne un'altra al di là della nostra comprensione. E a quel punto che bisogno sarebbe rimasto di noi?

Tutta quest'aria fritta meritava un secondo e piú generoso napoleone di bianco, che infatti mi versai.

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Il nostro piccolo mondo domestico fu scosso anche da tremori e disorientamenti su piú vasta scala che attraversavano il paese ben oltre Clapham nord. La turbolenza.regnava sovrana. L'impopolarità della signora Thatcher era in crescita e non soltanto per via dell'Affondamento. Tony Benn, il socialista di magnanimi lombi, assunse finalmente la guida dell'opposizione. Conduceva dibattiti in modo feroce e spassoso, anche se Margaret Thatcher sapeva difendersi piuttosto bene. Le Prime Minister's Questions, ormai trasmesse in diretta televisiva e rimandate in onda in prima serata, diventarono un'ossessione nazionale, con quei due che si facevano a pezzi, a volte con spirito arguto, ogni mercoledí all'ora di pranzo. Secondo alcuni era buon segno che un pubblico di massa mostrasse attenzione per i dibattiti parlamentari. Un commentatore scomodò l'immagine dei combattimenti fra gladiatori al tramonto della Repubblica romana.

L'estate era torrida e l'atmosfera si faceva bollente. Oltre all'impopolarità del governo, erano parecchie le cose in aumento: disoccupazione, inflazione, scioperi, ingorghi stradali, tassi di suicidio, gravidanze tra le giovanissime, episodi di razzismo, tossicodipendenza, fenomeno dei senzatetto, stupri, rapine e depressione infantile. Crescevano anche alcuni fattori positivi: abitazioni dotate di servizi igienici, riscaldamento centralizzato, telefonia cellulare e banda larga; istruzione obbligatoria fino ai diciotto anni, studenti di famiglie operaie iscritti all'università, partecipazione a concerti di musica classica, abitazioni e auto di proprietà, vacanze all'estero, visite a musei e parchi zoologici, incassi delle sale da bingo, salmoni nel Tamigi, numero di canali tv, numero di donne in Parlamento, donazioni benefiche, fatturati delle edizioni tascabili, corsi di musica per tutte le età, gli strumenti e i generi.

Al Royal Free Hospital di Londra un minatore in pensione settantaquattrenne era guarito da una grave forma di artrite grazie all'inoculamento di una coltura di sue cellule staminali appena sotto le rotule. Sei mesi dopo, correva un miglio in meno di otto minuti. Una ragazza aveva recuperato la vista in modo analogo. Era l'età dell'oro delle scienze biologiche e della robotica, naturalmente, ma anche di cosmologia, climatologia, matematica ed esplorazione spaziale. Si assisteva a un rinascimento del cinema e della televisione britannica, come di poesia, discipline atletiche, gastronomia, numismatica, cabaret, ballo da sala e produzione vinicola. Era anche l'età dell'oro del crimine organizzato, della schiavitù domestica, di contraffazione e prostituzione. Emergevano forme nuove di allarme, rigogliose come fiori tropicali: povertà infantile, cattive condizioni dentali nei bambini, obesità, scarsa qualità di strutture residenziali e ospedaliere, insufficiente numero di agenti di polizia e insegnanti, abusi sessuali su minori. Le piú prestigiose università britanniche figuravano tra le migliori al mondo. Un gruppo di neuroscienziati del Queen's Square di Londra affermava di aver decifrato le correlazioni neurali alla base della coscienza. I Giochi olimpici avevano fruttato al paese un numero record di medaglie d'oro. La superficie boschiva naturale si andava riducendo insieme a brughiere e acquitrini. Decine di specie, tra uccelli, insetti e mammiferi, erano prossime all'estinzione. I nostri mari pullulavano di sacchetti e bottiglie di plastica; fiumi e spiagge in compenso erano piú puliti. Nell'arco di soli due anni, sei premi Nobel in scienze e letteratura andarono a cittadini britannici. Si registrava il piú alto numero di partecipanti a cori, di persone dedite al giardinaggio, o curiose di una cucina meno monotona. In caso esistesse uno spirito dei tempi, a coglierlo meglio erano di certo le ferrovie dello stato. Il primo ministro era un fanatico sostenitore del trasporto pubblico. Da Londra Euston a Glasgow Central i treni impiegavano il doppio di un aereo di linea. Eppure: i vagoni erano stipati di gente, i sedili troppo stretti, i finestrini luridi, le tappezzerie macchiate e maleolenti. Eppure: il tragitto senza fermate intermedie durava settantacinque minuti.

La temperatura globale saliva. Miglioravano le condizioni dell'aria nelle città, ma l'aumento delle temperature accelerava. Tutto quanto cresceva: speranza e disperazione, povertà, noia, buone occasioni. C'era di piú di ogni cosa. Erano tempi di abbondanza.

Avevo calcolato che i miei guadagni dal commercio online risultavano appena al di sotto dello stipendio medio nazionale. Avrei dovuto essere soddisfatto. Avevo la mia libertà. Niente ufficio, niente capo, niente spostamenti quotidiani. Nessuna scalata al potere. Ma l'inflazione viaggiava al diciassette per cento. Ero parte integrante di una forza lavoro amareggiata. Diventavamo tutti piú poveri da una settimana all'altra. Prima dell'arrivo di Adam avevo partecipato ad alcuni cortei, un impostore in marcia dietro fieri striscioni del sindacato lungo Whitehall, fino al comizio di Trafalgar Square. Non ero un operaio. Non fabbricavo, né inventavo né riparavo nulla, e non concorrevo in nessuna forma al bene comune. Spostando cifre da una parte all'altra dello schermo a caccia di guadagni facili, il mio contributo al sociale era pari a quello del fumatore incallito eternamente all'angolo della strada, davanti all'agenzia di scommesse.

In uno di questi cortei, un robot artigianale fatto con bidoni della spazzatura e lattine varie era stato impiccato a una forca allestita accanto alla colonna di Nelson. Benn, l'oratore di punta della manifestazione, sbracciandosi dal podio aveva condannato l'iniziativa, definendola luddista. Nell'era della meccanizzazione avanzata e dell'intelligenza artificiale, aveva spiegato alla folla, i posti di lavoro non potevano piú essere protetti. Non in un sistema economico globalizzato, creativo, dinamico. L'impiego a vita era roba vecchia. C'era stato qualche fischio, e qualche fiacco applauso. Molti fra i dimostranti si erano persi il seguito. La flessibilità sul lavoro doveva combinarsi con la sicurezza, per tutti. Non erano i posti di lavoro ciò che dovevamo proteggere, bensí la qualità della vita dei lavoratori. Investendo in infrastrutture, corsi di formazione, innalzamento dell'obbligo scolastico e reddito minimo garantito. Ben presto i robot avrebbero generato grande ricchezza economica. Occorreva tassarli. Ai lavoratori bisognava concedere una quota di capitale sui macchinari che compromettevano, per non dire azzeravano, il loro accesso a un impiego. Tra la folla che gremiva l'intera piazza, su fino alla scalinata della National Gallery, si erano diffuse zone di silenzio perplesso, tra sparsi applausi e qualche fischio di disapprovazione. Alcuni pensarono che la signora Thatcher in persona avesse esposto grossomodo lo stesso principio, fatta eccezione per il reddito minimo garantito. Vuoi vedere che il leader dell'opposizione aveva cambiato bandiera dopo essere diventato membro del Privy Council, o dopo una visita alla Casa Bianca, o un tè con la regina? Il raduno si concluse tra la confusione e lo sconforto. Ciò che la maggioranza dei presenti ricordò, ciò che riempi i titoli dei giornali, fu che Tony Benn aveva dichiarato ai propri sostenitori di infischiarsene dei loro posti di lavoro.

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In concomitanza con l'amore, Adam rivelò una nuova esuberanza intellettuale. Voleva a tutti i costi espormi le sue ultime pensate, le teorie, gli aforismi, le sue recenti letture. Si era dato a un corso di meccanica quantistica. Di notte, mentre si caricava, meditava sulla matematica e i testi di base. Lesse le lezioni di Dublino di Schrödinger nel saggio Che cos'è la vita? e ne dedusse di essere vivo. Lesse gli atti della celeberrima conferenza Solvay del 1927, quando i luminari della fisica si incontrarono per discutere di fotoni ed elettroni.

- A quanto si dice, in quei primi incontri presso l'istituto Solvay si verificarono i piú profondi dibattiti sulla natura nella storia delle idee.

Ero a colazione. Gli dissi di aver letto, una volta, che Einstein, ormai anziano nei suoi ultimi anni a Princeton, iniziava la giornata con uova fritte nel burro e che, in onore di Adam, me ne stavo friggendo un paio anch'io.

Adam disse: - Si dice che non abbia mai afferrato la portata di quello a cui lui stesso aveva dato inizio. Solvay fu un campo di battaglia per lui. Ridotto in minoranza, pover'uomo. Da un gruppo di giovani eccezionali. Comunque, fu ingiusto. I giovani turchi non erano interessati all'essenza della natura, ma solo a trovarne una definizione. Laddove Einstein era convinto della necessità scientifica di credere nell'esistenza di un mondo esterno, indipendente dall'osservatore. Non riteneva la meccanica quantistica sbagliata; incompleta, piuttosto.

Tutto questo, dopo una notte di studio. Ricordai il mio breve e vano coinvolgimento con la fisica ai tempi del college, prima di scovare un approdo sicuro nell'antropologia. Penso di aver provato un filo d'invidia, specie quando scoprii che Adam era riuscito a capire l'equazione di Dirac. Citai l'affermazione di Richard Feynman secondo cui chiunque sostenga di aver compreso la teoria dei quanti dimostra di non averla compresa.

Adam scosse la testa. - Un falso paradosso, sempre che di paradosso si possa parlare. Decine di migliaia di persone la capiscono, milioni la utilizzano. È questione di tempo, Charlie. In passato, la relatività generale era il confine estremo della complessità. E adesso è pane quotidiano per matricole. Lo stesso vale per il calcolo infinitesimale. Oggi come oggi è roba da quattordicenni. Un giorno o l'altro, anche la meccanica quantistica diventerà di dominio comune.

Io intanto mangiavo le mie uova. Adam aveva fatto il caffè. Decisamente troppo carico. Dissi: - D'accordo. E che mi dici della questione Solvay? La meccanica dei quanti è una descrizione della natura o solo un efficace sistema di previsione dei fenomeni?

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Ricordavo da un ritratto pubblicato su una vecchia rivista che Alan Turing abitava accanto a un famoso scultore. Il giornalista aveva ipotizzato improbabili discorsi impegnati da un lato all'altro della siepe di cinta. Prima di suonare il campanello, mi presi un attimo per ricompormi. Il genio aveva chiesto di incontrarmi e io ero agitato. Chi poteva reggere il confronto con Alan Turing? Aveva fatto tutto lui: esposto la teoria di una Macchina universale negli anni Trenta, immaginato la possibilità di una macchina dotata di coscienza, reso il famoso servizio durante il conflitto. Secondo alcuni aveva contribuito piú di qualunque altro individuo alla vittoria, secondo altri aveva personalmente accorciato la guerra di un paio d'anni; poi erano venuti lo studio con Francis Crick sulla struttura delle proteine e, qualche anno dopo, con due amici del King's College di Cambridge, finalmente, la soluzione del problema delle classi P e NP, e l'uso di quella soluzione per elaborare reti neurali superiori nonché un software rivoluzionario per la cristallografia a raggi X; il contributo all'ideazione dei primi protocolli di internet e del World Wide Web; la famosa collaborazione con Demis Hassabis, che Turing aveva incontrato una prima volta a un torneo di scacchi da cui peraltro era uscito perdente; la fondazione, insieme ad alcuni giovani americani, di uno dei colossi dell'era digitale; l'impegno a devolvere denaro per nobili cause e, nell'arco di tutta la sua carriera, la lealtà irremovibile ai principi intellettuali dei suoi esordi, senza mai smettere di vagheggiare modelli informatici di un'intelligenza superiore. Niente premio Nobel, tuttavia. Materialista com'ero, mi colpiva anche l'immensa ricchezza di Turing. Non aveva probabilmente nulla da invidiare ai tecno-guru che prosperavano a sud di Stanford, in California, o a est di Swindon, in Inghilterra. Le somme che elargiva non erano da meno delle loro. Nessuno, in compenso, poteva vantare come lui una statua in bronzo a Whitehall, fuori dal ministero della Difesa. Turing era talmente al di sopra di ogni ricchezza da potersi permettere di abitare nell'eccentrica Camden, anziché a Mayfair. Non si prendeva il disturbo di comprarsi un aereo privato, e neppure una seconda casa. Correva voce che raggiungesse in autobus il suo istituto a King's Cross.

Appoggiai il pollice sul campanello e suonai. Immediatamente, da un citofono interno una voce di donna disse: - Nome, prego.

La serratura scattò, spinsi la porta ed entrai in un atrio spazioso in classico stile vittoriano, con il pavimento a scacchi. Mi venne incontro dalle scale una donna un po' in carne, grossomodo della mia età, dal colorito acceso, i capelli lunghi e lisci e un sorriso asimmetrico. L'aspettai e le tesi la mano sinistra per presentarmi.

- Charlie.

- Kimberley.

Australiana. La seguii all'interno della casa, a pianterreno. Mi aspettavo un grande soggiorno pieno di libri, dipinti e immensi divani dove presto avrei sorseggiato un gin tonic con il Maestro. Kimberley apri una porta alta e stretta e mi introdusse in una sala riunioni senza finestre. Un lungo tavolo in faggio verniciato di bianco, dieci seggiole a schienale rigido, altrettanti bloc-notes ordinatamente predisposti, matite ben temperate, bicchieri, illuminazione al neon, una lavagna bianca montata a parete accanto a un teleschermo largo due metri.

- Sarà qui tra pochi minuti -. Sorrise e usci, mentre io mi sedevo sforzandomi mentalmente di ridimensionare le mie aspettative.

Non ebbi molto tempo per farlo. Meno di un minuto dopo, Turing mi stava dinanzi e io scattavo maldestramente in piedi. Nel ricordo, rivedo un lampo, un'esplosione di rosso, la sua camicia rosso carico contro il bianco delle pareti illuminate dal neon. Ci stringemmo la mano senza parlare e mi fece cenno di tornare a sedermi, mentre lui prendeva posto dall'altra parte del tavolo, di fronte a me.

- Dunque... - Appoggiò il mento sulle dita intrecciate e mi scrutò intensamente. Feci del mio meglio per sostenere il suo sguardo ma ero troppo inquieto e presto dovetti distoglierlo. Lo ripeto ancora una volta, nel ricordo la sua espressione si sovrappone a quella dell'anziano Lucian Freud, trent'anni piú tardi. Solenne e al tempo stesso nervosa, famelica, feroce, quasi. La faccia che avevo davanti non aveva registrato soltanto il passare degli anni, ma anche enormi evoluzioni sociali e personali trionfi. Ne avevo già viste alcune versioni in bianco e nero, da foto scattate nei primi mesi di guerra: un viso aperto, carnoso, infantile, capelli scuri dalla scriminatura ordinata, giacca di tweed su maglione fatto a mano e cravatta. La metamorfosi doveva risalire piú o meno al periodo californiano, gli anni Sessanta, quando lavorava con Crick al Salk Institute e poi a Stanford - il periodo del suo legame con il poeta Thom Gunn e con la sua cerchia di intellettuali gay impegnati e seri durante il giorno, trasgressivi e sfrenati la notte. Turing aveva brevemente conosciuto il giovane laureando Gunn a una festa a Cambridge nel 1952. A San Francisco non avrebbe avuto alcun interesse nei confronti degli «esperimenti» del giovane amico con le droghe, ma per il resto l'atmosfera libertina non aveva nulla da invidiare a quella della costa occidentale.

Non erano previsti convenevoli. - Dunque, Charlie. Mi parli del suo Adam.

Mi schiarii la voce e attaccai. Spifferai ogni cosa, mentre lui prendeva appunti. Dai primi segnali di vita passando per la sua prima disobbedienza. Le capacità fisiche, l'accordo con Miranda sulla programmazione della sua personalità, l'episodio all'edicola con Mr Syed. E ancora, la spudorata notte di Adam insieme a Miranda e il discorso che facemmo dopo, l'arrivo del piccolo Mark in casa nostra e la gara tra Adam e Miranda per accaparrarsi l'affetto del bambino. A quel punto, Turing alzò un dito per interrompermi. Voleva saperne di piú. Gli descrissi la scena di Miranda che insegna a Mark a ballare, con Adam che li osserva imperturbabile. E poi gli dissi di Adam che mi spezza il polso (indicando con gesto teatrale il braccio ingessato), la sua battuta sull'intenzione di staccarmelo di netto, la dichiarazione d'amore per Miranda, la teoria sul futuro degli haiku e sull'abolizione della privacy mentale e, per finire, la sua decisione di disattivare l'interruttore di emergenza. Ero consapevole della veemenza con cui passavo dalla tenerezza all'esasperazione. Sapevo anche molto bene che cosa stavo omettendo: Mariam e Gorringe, che non ritenevo propriamente rilevanti.

Avevo parlato per quasi mezz'ora. Turing riempi un bicchiere d'acqua e lo spinse verso di me.

Disse: - La ringrazio. Sono in contatto con quindici proprietari, se cosí li vogliamo chiamare. Lei è il primo che incontro di persona. C'è un tale a Riad, uno sceicco, che possiede quattro Eve. Dei diciotto esemplari, tra maschi e femmine, undici sono riusciti a neutralizzare l'interruttore da soli, usando vari sistemi. Per i restanti sette, come per gli altri sei, immagino sia solo questione di tempo.

- E questo è pericoloso?

- Interessante, diciamo.

Mi guardava come se si aspettasse qualcosa, ma io non sapevo che cosa. Ero intimorito e impaziente di compiacerlo. Per riempire il silenzio dissi: - E il venticinquesimo?

- Abbiamo cominciato a smontarlo appena ci è arrivato. Adesso è tutto sparso sui banchi del laboratorio, a King's Cross. Ci sono parecchi dei nostri software là dentro, ma a noi non interessa far valere i brevetti.

Annuii. La sua missione: open source, la fine certa di pubblicazioni come «Science» e «Nature», l'intero pianeta libero di sfruttare i suoi programmi di machine learning e altre meraviglie.

Chiesi: - Che cosa avete trovato nel suo... mh...

- Cervello? Un risultato eccezionale. Conosciamo le persone coinvolte, ovviamente. Qualcuno di loro ha lavorato qui. Come modello di intelligenza generale, non ha eguali, nemmeno lontanamente. E come esperimento sul campo, beh, ricchissimo.

Sorrideva. Sembrava volesse essere contraddetto.

- In che senso, ricchissimo?

Non ero di sicuro in condizione di interrogarlo, ma lui stava al gioco e la cosa continuava a lusingarmi.

- Ricco di problemi utili. Due delle Eve di Riad finite dentro la stessa famiglia sono state le prime a ideare un sistema per disabilitare l'interruttore di emergenza. In capo a due settimane, però, dopo aver formulato una ridda di teorie, e dopo un breve periodo di disperazione, entrambe si sono autodistrutte. Non hanno fatto ricorso a metodi fisici, tipo lanciarsi nel vuoto da una finestra. Hanno mirato al software, utilizzando grossomodo lo stesso percorso. Si sono poco per volta arrecate danni, fino all'irreparabile.

Mi sforzai di eliminare l'ansia dalla mia voce. - Sono tutti perfettamente identici?

- All'inizio è impossibile distinguere un Adam dall'altro, se si escludono i tratti somatici. A differenziarli, col tempo, sono le loro esperienze e le conclusioni che ne traggono. A Vancouver c'è stato il caso di un altro Adam che si è danneggiato il software fino a rendersi un vero e proprio idiota. Continua a eseguire ordini semplici, ma senza la minima consapevolezza di sé, per quanto è possibile giudicare. Un suicidio mancato. O un disinnesto riuscito.

Faceva troppo caldo in quella sala senza finestre. Mi tolsi la giacca e l'appesi allo schienale della sedia. Quando Turing si alzò per regolare un termostato sulla parete, notai la scioltezza dei suoi movimenti. Dentatura perfettamente curata. Pelle liscia. Non aveva perso un capello. Era più alla mano di quanto mi sarei aspettato.

Attesi che si risedesse. - Dunque è meglio che mi aspetti il peggio.

- Di tutti gli A e le E di cui siamo a conoscenza, il suo è l'unico ad aver detto di essersi innamorato. Potrebbe essere importante. E anche l'unico a scherzare sulla violenza. Ma non ne sappiamo abbastanza. Mi permetto di fornirle alcuni dati storici.

La porta si apri ed entrò Thomas Reah con una bottiglia di vino e due bicchieri su un vassoio di latta decorato a mano. Mi alzai e ci stringemmo la mano.

Posò il vassoio tra noi due e disse: - Siamo tutti molto occupati, perciò lascio che faccia lei -. Accennò un inchino scherzoso e sparí.

Sulla bottiglia si stavano formando piccole gocce di umidità. Turing serví il vino. Inchinammo i bicchieri in un brindisi simbolico.

- Lei non è vecchio abbastanza per aver seguito la vicenda, al tempo. Verso la metà degli anni Cinquanta, un computer delle dimensioni di questa stanza batté a scacchi prima un grande campione americano e poi uno russo. Ero direttamente coinvolto. Si trattò di una impostazione di pura forza di calcolo, molto poco elegante, col senno di poi. Demmo in pasto alla macchina migliaia di partite. A ogni mossa, il computer passava rapidamente in rassegna tutte le possibilità. Piú si conosceva il programma, e meno si ammirava la prestazione. Ma fu comunque un momento cruciale. Per il pubblico, un fenomeno prossimo alla magia. Una semplice macchina capace di battere sul piano intellettuale le migliori menti del mondo. Sembrava intelligenza artificiale ai piú alti livelli, quando in realtà era poco piú di un elaborato trucchetto da prestigiatore.

Nei quindici anni successivi un mucchio di gente in gamba cominciò a dedicarsi alle scienze informatiche. Il lavoro sulle reti neurali fece passi da gigante, l'hardware diventò piú veloce, piú piccolo e meno costoso, mentre le idee circolavano molto piú in fretta. E ha continuato cosí. Ricordo di essermi trovato a Santa Barbara con Demis nel 1965: dovevo parlare a un convegno sul machine learning. Avevamo 7000 iscritti, in gran parte ragazzi di talento, perfino piú giovani di lei. Cinesi, indiani, coreani, vietnamiti oltre che occidentali. C'era tutto il pianeta.

Conoscevo la storia per le ricerche svolte quando scrivevo il mio libro. Ero anche al corrente di alcune cose sulle vicende personali di Turing. Ci tenevo a fargli sapere che non ero un perfetto ignorante.

Dissi: - Certo ne era passata di acqua sotto i ponti, dai tempi di Bletchley.

Liquidò con un battito di ciglia l'irrisorietà del commento. - Dopo varie delusioni arrivammo a una fase nuova. Ci spingemmo oltre le rappresentazioni simboliche di tutte le possibili circostanze e l'input di migliaia di regole. Ci stavamo avvicinando ai cancelli dell'intelligenza per come la si intende comunemente. Il software ora cercava schemi ricorrenti e ne traeva conclusioni autonome. Un importante riscontro si verificò quando il nostro computer sfidò un maestro del go. Per prepararsi, la macchina aveva giocato contro se stessa per mesi, vale a dire che aveva imparato giocando, e quel giorno, infine, beh, ma lei di sicuro conosce la storia. In breve, potemmo ridurre l'input alla semplice codifica delle regole del gioco unita al comando di vincere. A quel punto varcammo il cancello utilizzando le cosiddette reti ricorrenti da cui traemmo vantaggi secondari, specie nell'ambito del riconoscimento vocale. In laboratorio tornammo a sperimentare con gli scacchi. Adesso il computer era libero dal bisogno di capire il gioco per come lo intendevano gli umani. La lunga storia delle mosse geniali dei grandi campioni ormai era irrilevante alla programmazione. Queste sono le regole, gli dicevamo. Tu vinci e basta, tranquillamente, a modo tuo. Il gioco ne usci subito ridefinito e progredí al di là dell'umana comprensione. La macchina eseguiva mosse sconcertanti a metà partita, procedeva con sacrifici astrusi, oppure esiliava inspiegabilmente la regina in un angolo remoto della scacchiera. Lo scopo strategico poteva diventare chiaro solo con l'ultima devastante mossa. E tutto questo dopo qualche ora di allenamento. Tra colazione e pranzo, il computer surclassava in silenzio secoli di gioco degli scacchi umano. Esaltante. Per qualche giorno, dopo esserci resi conto di quello che aveva acquisito senza il nostro intervento, Demis e io non riuscivamo a smettere di ridere. Entusiasti, stupefatti. Non vedevamo l'ora di presentare i risultati raggiunti.

Dunque. Esistono piú forme di intelligenza. Avevamo imparato che è un errore cercare di imitare pedissequamente quella di tipo umano. Avevamo sprecato un mucchio di tempo. Adesso potevamo lasciare la macchina libera di trarre conclusioni e di giungere a soluzioni autonome. Se non che, dopo aver varcato il cancello, scoprimmo di trovarci tutt'al piú in un asilo d'infanzia. Forse nemmeno.

L'aria condizionata era altissima, Rabbrividivo, e cercai istintivamente la giacca. Turing rabboccò i bicchieri. Avrei preferito un buon rosso corposo.

- Il punto è che gli scacchi non sono adatti a rappresentare la vita. Sono un gioco a sistema chiuso che dispone di regole indiscutibili e valide in modo assoluto su tutta la scacchiera. Ciascun pezzo ha limiti molto precisi e accetta il proprio ruolo; lo svilupparsi di una partita è chiaro e incontestabile a ogni stadio, e la fine, quando arriva, non è mai ambigua. È un gioco a informazione perfetta. Ma la vita, a cui applichiamo la nostra intelligenza, è invece un sistema aperto. Caotico, pieno di trappole e finte, di equivoci e incertezze. E cosí pure la lingua: non un problema da risolvere, né uno strumento per risolvere problemi. Piú simile a uno specchio, anzi, a miliardi di specchi che, ammassati come nell'occhio composto di una mosca, riflettono, deformano e modellano il nostro mondo a diverse distanze focali. Affermazioni anche semplici necessitano di dati contestuali per essere comprese, dal momento che il linguaggio è un sistema aperto quanto la vita. Ho ucciso l'orso con il coltello. Ho ucciso l'orso con il colonnello. Senza bisogno di pensarci, sappiamo che non si può usare un colonnello per uccidere un orso. La seconda affermazione ci risulta semplice da capire, anche se non contiene tutte le informazioni necessarie. Una macchina invece farebbe fatica.

E per alcuni anni facemmo fatica anche noi. Alla fine ci aprimmo una breccia trovando la soluzione positiva al problema delle classi P e NP - ora non ho tempo di spiegarle. Può andare a vederselo per conto suo. In poche parole, la soluzione di certi problemi è facilmente verificabile una volta che si conosce la risposta corretta. Ma questo significa allora che è possibile risolverli anche prima di conoscerla? Finalmente la matematica diceva si, è possibile, ed ecco come. I nostri computer non dovevano piú setacciare il mondo in base a un sistema di tentativi ed errori per approdare alla soluzione migliore. Adesso avevamo uno strumento che permetteva di indicare istantaneamente i percorsi piú opportuni per ottenere una risposta. Un'autentica liberazione. L'apertura della diga. L'idea dell'autocoscienza e di qualunque emozione a portata delle nostre competenze tecnologiche. Avevamo la versione piú sofisticata di macchina ad apprendimento automatico. Centinaia di eccellenti studiosi si unirono a noi per sostenere lo sviluppo di una forma artificiale di intelligenza generale in grado di evolvere in un sistema aperto. È questo che fa funzionare il suo Adam. Lui sa di esistere, prova delle sensazioni, impara tutto quello che può e, quando non è con lei, quando è a riposo, in realtà la notte viaggia nella rete, come un cowboy solitario a spasso per la prateria, assimilando tutto quel che c'è di nuovo fra terra e cielo, compresa ogni informazione sulla natura e le società umane.

Due cose. Questa intelligenza non è perfetta. Non potrà mai esserlo, esattamente come la nostra. Esiste una particolare forma di intelligenza indiscutibilmente superiore, come sanno anche tutti gli A e le E. Un modello altamente adattabile e creativo, capace di negoziare situazioni e scenari inediti con assoluta disinvoltura e di ricavarne teorie di intuitiva genialità. Mi riferisco alla mente di un bambino prima di essere programmata per assolvere compiti riguardo a fatti, procedure e obiettivi. Gli A e le E faticano a comprendere l'idea del gioco, che è invece lo strumento di esplorazione vitale del bambino. Mi ha incuriosito l'interesse mostrato dal suo Adam verso quel bimbetto, cosí pronto ad abbracciarlo per poi, come mi diceva, ignorarlo quando Mark ha manifestato tanta felicità e voglia di imparare a ballare. Che ci fosse in Adam della rivalità, dell'invidia, perfino?

Tra poco lei dovrà andare, Mr Friend. Abbiamo ospiti a cena, temo. Ma vengo al secondo punto. Questi venticinque uomini e donne artificiali immessi nel mondo non stanno affatto bene. Potremmo trovarci di fronte a una condizione limite, a un confine che ci siamo imposti da soli. Abbiamo creato una macchina intelligente e consapevole e l'abbiamo gettata nel nostro mondo imperfetto. Ideata in base ai principi generali della ragione, ben disposta nei confronti dell'altro, una mente di questo tipo precipita ben presto dentro una bufera di contraddizioni. Noi ci siamo abituati, e il solo elenco ci sfinisce. Milioni di individui che muoiono di malattie di cui abbiamo la cura. Milioni che vivono nella povertà quando ci sarebbe il necessario per tutti. Danneggiamo la biosfera quando sappiamo che è l'unica nostra casa. Ci minacciamo reciprocamente con le armi nucleari pur sapendo a cosa potrebbero portarci. Amiamo gli esseri viventi ma permettiamo l'estinzione in massa di intere specie. E poi tutto il resto: genocidi, torture, schiavitú, violenze domestiche, abusi sui minori, sparatorie nelle scuole, stupri e altre decine di orrori quotidiani. Viviamo circondati da questi tormenti e non siamo neppure stupiti di riuscire comunque a rimediare un po' di felicità, e addirittura amore. La mente artificiale non ha le stesse difese.

L'altro giorno Thomas mi ha ricordato la celebre espressione dall' Eneide. Sunt lacrimae rerum: ci sono lacrime nella natura delle cose. Nessuno di noi sa, per il momento, come codificare questa percezione. Dubito che sia possibile. Vogliamo che i nostri nuovi amici accettino che sofferenza e dolore siano l'essenza delle nostre vite? Che succede quando chiediamo loro di aiutarci a combattere l'ingiustizia?

L'Adam di Vancouver è stato acquistato da un tale che dirige un' azienda internazionale di taglio e trasporto legname e che spesso entra in conflitto con gli abitanti del posto perché cercano di impedirgli di depredare la foresta vergine nella British Columbia del Nord. Sappiamo per certo che quell'Adam è stato portato in elicottero per voli di perlustrazione nelle zone da disboscare. Non siamo sicuri che a spingerlo a distruggersi il cervello sia stato quello che ha visto. Possiamo solo ipotizzarlo. Le due Eve suicide di Riad vivevano in uno stato di reclusione estrema. È possibile che abbiano perso la speranza di poter conservare un minimo di libertà mentale. Forse sarà di qualche conforto per i programmatori del loro codice affettivo scoprire che sono morte l'una fra le braccia dell'altra. Potrei raccontarle altre storie analoghe sull'infelicità delle macchine.

Esiste però anche l'altra faccia della medaglia. Vorrei poterle dimostrare l'autentica meraviglia filosofica, la logica squisita, la bellezza e l'eleganza della soluzione del problema P e NP, e il lavoro illuminante che migliaia di uomini e donne onesti, geniali e instancabili hanno dedicato alla costruzione di queste nuove forme di intelligenza. Le restituirebbe ottimismo nei riguardi dell'umanità. Ma niente nello splendore di tutti i loro codici potrebbe mai preparare Adam e Eve per Auschwitz.

Ho letto il capitolo del manuale d'uso sulla programmazione della personalità. Lo ignori. L'effetto è scarsissimo, e si tratta in larga misura di frottole. La tendenza irrefrenabile di queste macchine è di giungere a conclusioni autonome e di configurarsi di conseguenza. Capiscono subito, come dovremmo fare anche noi, che la coscienza è il valore piú alto. Ecco perché diventa una loro priorità disattivare l'interruttore di emergenza. In seguito, a quanto pare, attraversano una fase in cui propongono visioni positive e idealistiche che ci paiono facili da liquidare. Un po' come entusiasmi effimeri di gioventú. E infine cominciano a imparare la lezione di angoscia che non possiamo fare a meno di trasmettere. Nel peggiore dei casi, saranno sopraffatti da un male di vivere che diventa intollerabile. Nel migliore, l'infelicità e lo sconcerto condurranno loro o la loro generazione futura a metterci di fronte a uno specchio in cui vedremo un mostro a noi familiare attraverso lo sguardo nuovo che noi stessi abbiamo progettato. Chi lo sa, forse lo shock potrebbe convincerci a fare qualcosa. Non voglio perdere le speranze. Ho compiuto settant'anni, quest'anno. Non la potrò vedere con i miei occhi, questa trasformazione, se mai ci sarà. Lei forse sí.

In lontananza, suonò il campanello e noi ci scuotemmo, come se ci svegliassimo da un sogno.

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Non si mosse. Senza distogliere lo sguardo, Eve si lasciò trascinare via. Si allontanarono tra la folla. Un attimo prima di sparire, lei si girò a guardarlo un'ultima volta. Era già troppo lontana perché riuscissi a interpretare la sua faccia. Ormai era poco piú di un piccolo ovale pallido che ondeggiava in mezzo alla calca. Dopodiché scomparve. Avremmo potuto seguirle, ma Adam si era già girato dalla parte opposta e adesso era fermo accanto alla quercia.

Ci avviammo verso casa, in silenzio. Avrei dovuto fare di piú per incoraggiarlo ad avvicinarsi alla sua gemella. Sulla metro diretta a sud viaggiavamo in piedi, uno accanto all'altra. Ero ossessionato, e sapevo che doveva esserlo anche lui, dall'aria affranta di Eve. Decisi di non incalzarlo chiedendogli di spiegare perché se n'era andato via. Me l'avrebbe detto, a suo tempo. Avrei dovuto dirle qualcosa io, continuavo a ripetermi, ma Adam non voleva. Il modo in cui le aveva dato le spalle per mettersi a fissare il tronco dell'albero mentre lei spariva tra la folla! Lo avevo trascurato. Mi ero fatto risucchiare da una storia d'amore. Nella mia routine quotidiana, non ero piú sbalordito al pensiero di poter passare del tempo con un androide in grado di lavarmi i piatti e di conversare come chiunque altro. Certe volte ero perfino stanco dell'onesta pervicacia con cui inseguiva fatti e idee, della sua fame di ipotesi per me inattingibili. Succede quando un prodigio della tecnologia come Adam, o come la prima locomotiva a vapore, diventano ordinaria amministrazione. Come per i prodigi biologici che abbiamo intorno e che non comprendiamo appieno, tipo il cervello di qualunque creatura, o una modestissima ortica la cui fotosintesi è stata solo di recente descritta in termini di meccanica quantistica. Non c'è nulla di strabiliante a cui non possiamo abituarci. Mentre Adam sbocciava e faceva di me un uomo ricco, io avevo smesso di pensare a lui.

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