Copertina
Autore Ian McEwan
Titolo Solar
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Supercoralli , pag. 346, cop.ril.sov., dim. 14x22,2x2,2 cm , Isbn 978-88-06-20378-8
OriginaleSolar [2010]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa inglese
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Pagina 5

Apparteneva a quella categoria di uomini - tendenzialmente spiacevoli, quasi sempre calvi, bassi, grassi, intelligenti - che, per ragioni misteriose, attraggono certe belle donne. O cosí credeva, e pensarlo pareva bastare. Aiutava inoltre il fatto che alcune lo considerassero un genio bisognoso di redenzione. Ma l'attuale Michael Beard era un soggetto in condizioni mentali limitate, anedonico, monotematico, sofferente. Il suo quinto matrimonio si andava disgregando e lui avrebbe dovuto sapere come comportarsi, assumere una prospettiva lungimirante, riconoscere la propria colpa. I matrimoni, i suoi perlomeno, non si susseguivano forse l'uno all'altro al pari di fenomeni ondosi, o di maree? L'ultimo tuttavia era diverso. Non sapeva come comportarsi, la lungimiranza lo amareggiava e per una volta non aveva colpe da attribuirsi, a suo modo di vedere. Qui era sua moglie ad avere una relazione e anche in forma scoperta, punitiva e chiaramente senza il benché minimo rimorso. Lui intanto, travolto da una ridda di emozioni, si scopriva dentro momenti di intenso desiderio e di vergogna. Patrice si vedeva con un muratore, il loro muratore, quello che aveva rasato i muri di casa, montato la cucina a incastro, piastrellato il bagno, quello stesso individuo massiccio che una volta, durante una pausa di lavoro, gli aveva mostrato una foto del suo villino in finto Tudor, personalmente ristrutturato e rinascimentalizzato, con tanto di fuoribordo su carrello sotto il lampione in stile vittoriano nel vialetto in calcestruzzo, e perfino lo spazio su cui sarebbe sorto il monumento alla tradizionale cabina telefonica rossa ormai in pensione. Beard non si capacitava di quanto potesse rivelarsi complesso il ruolo del cornuto. L'infelicità non era facile. Che nessuno si azzardasse a sostenere che a quello stadio dell'esistenza era diventato immune a esperienze nuove.

Se l'era meritato. Le quattro mogli precedenti, Maisie, Ruth, Eleanor, Karen, che tuttora nutrivano un remoto interesse per la sua vita, avrebbero esultato, perciò sperava che non venissero a saperlo. Nessuno dei suoi matrimoni era durato piú di sei anni e l'essere rimasto senza figli costituiva una sorta di successo personale. Le mogli, intuendo per tempo quanto fosse misera o spaventosa la prospettiva di paternità che Michael aveva da offrire, si erano protette chiamandosi fuori. Gli piaceva pensare che, se le aveva fatte soffrire, non era mai stato per molto tempo; del resto, l'aver conservato rapporti civili con tutte le sue ex doveva pur significare qualcosa.

Non con l'attuale consorte, tuttavia. In tempi migliori, avrebbe potuto prevedere da parte propria l'adozione tutta maschile di una politica dei due pesi e delle due misure, con accessi di furia micidiale, magari un episodio di schiamazzi ubriachi in cortile a notte fonda o la devastazione dell'auto di lei, accanto alla meticolosa ricerca di una partner piú giovane, una soluzione alla muoia Sansone con tutti i filistei applicata al tempio coniugale. Si ritrovava invece paralizzato dalla vergogna, dalla portata della sua umiliazione. Peggio ancora: sorprendeva se stesso preda di una sconveniente voglia di lei. Di recente, il desiderio per Patrice lo aggrediva di punto in bianco, come un attacco di crampi allo stomaco. Era costretto ad appartarsi e aspettare che passasse. A quanto sentiva, esiste una specie di marito che trova eccitante il pensiero della propria moglie con altri uomini. Tipi simili possono farsi legare, imbavagliare e chiudere dentro l'armadio della camera da letto mentre la loro dolce metà ci dà dentro poco lontano. Che Beard si fosse alla fine scoperto un'indole sessualmente masochista? Nessuna donna gli era mai sembrata, a gesti o a parole, desiderabile quanto la moglie che all'improvviso non poteva piú avere. Si recò platealmente a Lisbona a trovare una vecchia amica, ma furono tre notti malinconiche. Aveva bisogno di riavere sua moglie, e non osava rischiare di alienarsela a furia di urla, minacce o magistrali momenti di follia. Del resto non era neanche tipo da supplicare. Si sentiva bloccato, vigliacco, non riusciva a pensare ad altro. Forse che al primo biglietto - Stasera mi fermo da R. xx P. - si era precipitato all'ex villino comunale in finto Tudor con motoscafo coperto da tela e fermo su carrello e vasca idromassaggio allestita in giardino lillipuzíano, per fracassare la testa dell'altro a colpi di chiave inglese? No, aveva guardato la televisione per cinque ore con il cappotto addosso, e si era scolato due bottiglie di vino tentando di non pensare. Senza riuscirci.

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A Beard era stata conferita una cattedra ad honorem presso l'Università di Ginevra, dove tuttavia non insegnava; autorizzava l'utilizzo del proprio nome e titolo - Professor Beard, Premio Nobel - su carta intestata e per istituzioni varie, aderiva con una firma a «iniziative» di livello internazionale, faceva parte di una Royal Commission per la raccolta di fondi destinati alla ricerca scientifica, concedeva interventi informali alla radio su Einstein, i fotoni o la meccanica quantistica, dava una mano nella richiesta di sovvenzioni, era consulente di tre riviste specialistiche, stendeva lettere di presentazione e peer reviews, si interessava alle chiacchiere e alla politica della scienza, alle prese di posizione, ai patrocini speciali, all'agghiacciante nazionalismo, all'estorsione di colossali somme di denaro a ministri e burocrati ignoranti per l'ennesimo acceleratore di particelle o per l'affitto di spazi satellitari, presenziava a gigantesche convention negli Stati Uniti - undicimila fisici raccolti in un'unica sede -, ascoltava ricercatori post-doc esporre i risultati del proprio lavoro, ripeteva con variazioni minime la medesima serie di lezioni sui calcoli alla base della Conflazione Beard-Einstein che gli era valsa il Nobel, a sua volta conferiva riconoscimenti, e teneva discorsi ed encomi conviviali per colleghi prossimi alla pensione o alla cremazione. All'interno di un mondo chiuso e specialistico e per gentile concessione dell'Accademia di Stoccolma, era una celebrità, e cosí procedeva, un anno dopo l'altro, vagamente stanco di sé e privo di alternative. Imprevedibilità e fermento erano appannaggio della vita privata. Forse poteva bastare, forse aveva raggiunto il massimo risultato possibile durante una splendida estate della sua giovinezza. Una cosa era certa: erano passati vent'anni dall'ultima volta che si era trovato seduto per ore in assorto silenzio, penna e taccuino alla mano, a pensare, a produrre un'ipotesi originale, per poi giocarci, pedinarla, trascinarla dentro la vita. Non si presentava mai l'occasione - no, che misera scusa. Gli mancavano la volontà, il materiale, era venuta meno la scintilla. Non aveva idee nuove.

Ma alla periferia di Reading, tra il fragore del traffico della tangenziale est e gli effluvi di una fabbrica di birra giusto sopravvento, era sorto un nuovo istituto di ricerca nazionale. Il Centro in teoria avrebbe dovuto ricordare il National Renewable Energy Laboratory di Golden, Colorado, nei pressi di Denver e condividerne le mire, sebbene non le dimensioni e la consistenza dei fondi. Michael Beard era il direttore capo del Centro, anche se il vero lavoro lo gestiva un alto funzionario statale, certo Jock Braby. Gli edifici amministrativi, i cui muri non portanti contenevano amianto, non erano nuovi, e lo stesso valeva per i laboratori, un tempo adibiti al controllo di materiali tossici per l'edilizia. L'unica novità era costituita da una barriera in filo spinato e paletti in cemento alta tre metri e intervallata a spazi regolari da cartelli di divieto d'accesso, che era stata eretta lungo il perimetro del Centro nazionale per le energie rinnovabili senza il consenso di Beard, né di Braby. L'iniziativa, come ebbero presto a scoprire, aveva assorbito il diciassette per cento del budget del primo anno di vita dell'istituto. Erano in seguito stati acquistati da un agricoltore locale venti fradici acri di terreno i cui lavori di bonifica erano al momento allo stadio progettuale.

Beard non era del tutto scettico in materia di cambiamenti climatici. Rappresentavano una delle svariate voci nell'elenco delle tragedie incombenti che fanno da sfondo ai notiziari; lui si teneva informato, deplorava moderatamente la situazione e si aspettava che il governo prendesse seri provvedimenti. Naturalmente sapeva che una molecola di biossido di carbonio assorbe energia nella banda dell'infrarosso, e che l'umanità stava immettendo ragguardevoli quantità di tali molecole nell'atmosfera. A livello personale, tuttavia, aveva altri pensieri. E poi lo lasciavano tiepido certi dissennati commenti sui presunti «pericoli» del mondo, sulla catastrofe verso la quale era avviata l'umanità, sulle metropoli costiere destinate a scomparire travolte dalle acque, i raccolti votati alla distruzione, e le centinaia di milioni di profughi pronti a spostarsi in massa da una nazione all'altra, da un continente all'altro, sospinti da siccità, alluvioni, carestie, uragani e incessanti conflitti a causa delle risorse sempre piú scarse. Percepiva un'eco di Vecchio Testamento in quei moniti, un sentore di piaga-di-ulceri e pioggia-di-rane, qualcosa che suggeriva la radicata tendenza dell'uomo, perpetuata nei secoli, a credere da sempre di vivere alla fine dei tempi, a considerare la propria morte indissolubilmente legata all'estinzione del mondo e in quanto tale depositaria di un senso, o comunque un po' meno irrilevante. La fine del mondo non cadeva mai nel presente, dove sarebbe stato possibile smascherarla per la fanfaluca che era, ma sempre nell'immediato futuro e, al suo non verificarsi, si provvedeva a far emergere una nuova istanza, a fissare una data ulteriore. Il vecchio mondo, purificato dalla violenza incendiaria, lavato dal sangue dei non salvati, ecco l'idea delle sette cristiane millenariste: morte ai miscredenti! E quella dei comunisti sovietici: morte ai kulaki! E dei nazisti con la loro fantasia di impero millenario: morte ai giudei! E infine, la democraticissima versione contemporanea della guerra nucleare planetaria: morte a tutti! Allorché quest'ultima non ebbe luogo, e dopo che l'impero sovietico implose divorato dalle sue stesse contraddizioni, e in assenza di una nuova angoscia incombente a parte la grigia, inesorabile povertà globale, la vocazione apocalittica si era inventata l'ennesimo mostro.

Beard tuttavia era alla costante ricerca di incarichi ufficiali debitamente retribuiti. Erano da poco scaduti i termini di due sinecure di lunga durata, e lo stipendio universitario, seppure unito ai compensi di conferenze e interventi sui media, non copriva mai tutte le sue esigenze. Per fortuna, intorno al giro di secolo, il governo Blair si era mostrato desideroso di essere, o quanto meno di apparire, non solo idealmente, bensí attivamente impegnato sul fronte dei mutamenti climatici, e aveva annunciato una serie di iniziative, una delle quali era stata il Centro, struttura destinata alla ricerca di base e bisognosa di un mortale incipriato di polvere magica di Stoccolma cui affidare la direzione. A livello politico fu nominato un nuovo ministro, un ambizioso manchesteriano di impronta populista, uomo fiero del passato industriale della sua città, il quale nel corso di una conferenza stampa si dichiarò deciso a «sfruttare il genio» del popolo britannico invitando chiunque a sottoporre idee e progetti sul tema dell'energia pulita. Di fronte alle telecamere promise che ogni progetto inviato avrebbe ricevuto risposta. In capo a sei settimane la squadra di Braby - una mezza dozzina di ricercatori post-dottorato sottopagati, di stanza presso quattro baracche provvisoriamente erette in un mare di fango - ricevette centinaia di proposte. La maggior parte arrivava da individui solitari che per laboratorio avevano la rimessa in giardino; qualcuna, da nuove imprese, baldanzose nel marchio e ancora «in attesa di brevetto».

Nell'inverno del 1999, durante le sue visite settimanali al sito, Beard scorreva rapidamente le carte suddivise in pile sopra un tavolo improvvisato. Dentro quella valanga di sogni ricorrevano con chiarezza certi temi. Alcune proposte indicavano l'acqua come carburante per le auto, riciclando le emissioni di vapore acqueo nel motore; altre non erano che versioni del motore o generatore elettrico la cui energia in uscita superava quella in entrata e pareva sfruttare l'energia del vuoto - vale a dire quella che si suppone latente nello spazio vuoto - o fondarsi, a giudizio di Beard, su una serie di violazioni della Legge di Lenz. Tutte indistintamente costituivano varianti della macchina a moto perpetuo. Gli inventori autodidatti sembravano immemori della lunga storia delle loro trovate e di come queste ultime avrebbero, in caso di effettivo funzionamento distrutto i fondamenti della fisica moderna. Gli inventori nazionali erano decisi a sfidare la prima e la seconda legge della termodinamica, un muro di piombo compatto. Uno dei post-doc propose di suddividere le idee in base alle leggi violate: prima, seconda, entrambe.

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Eppure non si fermò. Si distrasse cercando di ricordare l'ultima volta che aveva urinato. Doveva essere stato senz'altro all'aeroporto di Longyearbyen, mentre attendeva il bagaglio, nel cuore della notte di due giorni prima. Trentacinque ore senza pisciare. Poteva semplicemente essergli passato di mente? Era davvero tanto occupato?

Nel momento in cui si rese conto che era stato il freddo a confonderlo e a fargli contare un giorno in piú, si fermò con tale foga che rischiò di cadere dalla motoslitta e ritrovarsi sulla pista. Udí il mezzo di Jan urtare contro il retro del suo, ma evitò di voltarsi, mentre si allontanava di corsa. Il terreno su cui si trovavano era cambiato. Il loro tragitto segnava una S poco profonda dentro una gola racchiusa su entrambi i lati da pareti di roccia e ghiaccio alte una decina di metri. Un avanzo di pudore lo condusse ai piedi di una di quelle muraglie, come a un orinatoio; si piegò in avanti, dando le spalle al vento, e usò i denti per sfilarsi il guanto esterno della mano destra. Senti Jan che lo stava chiamando, ma non era il momento di ascoltare chi gli parlava. Mordendo la punta di un dito per volta, riuscí a levarsi anche il sottoguanto. La mano gli si indolenzí istantaneamente, facendosi lenta. Gli ci vollero due minuti buoni per abbassare la lampo della tuta da motoslitta, e a quel punto capi che avrebbe avuto bisogno di entrambe le mani per infilarsi sotto la giacca e raggiungere le bretelle della salopette perciò, con la destra dalla mobilità rallentata, si tolse anche i guanti della sinistra. Ancora una volta gli si stavano annebbiando e gelando gli occhiali. Ma Beard dovette ammirare la propria flemma, mentre entrava a frugare sotto i vari strati, mentre il suo prezioso calore corporeo si disperdeva nel gelo feroce dell'aria e il vento che gli turbinava intorno alla schiena andava a picchiare contro la roccia e gli prendeva a schiaffi la faccia. Soltanto verso gli ultimi secondi, quando con la goffa mano rosa, tanto gelata da sembrargli di un altro, raggiunse la meta delle mutande, temette in effetti di poter perdere l'autocontrollo. Alla fine però, in un grido di gioia che si dileguò nella furia del vento, diresse il flusso sul muro di ghiaccio.

L'errore fu quello di attendere alcuni secondi a operazione conclusa, come tendono a fare gli uomini di una certa età, per assicurarsi che non ci sia altro in arrivo. Avrebbe invece dovuto girarsi a sentire quello che Jan gli stava gridando. O forse avrebbe potuto scampare all'inevitabile solo se avesse accettato uno qualsiasi degli altri inviti, alle Seychelles, a Johannesburg o a San Diego o se, come ebbe a riflettere in seguito con un po' di amarezza, il cambiamento climatico e il drastico riscaldamento al di sopra del Circolo polare artico fosse stata una realtà constatabile e non solo il frutto dell'immaginazione eco-attivista. Giacché una volta terminata la sua incombenza scopri che il pene gli si era incollato alla cerniera della tuta, che gli si era congelato per tutta la sua lunghezza come succede alla carne viva a contatto con una superficie metallica sottozero. Beard sprecò istanti preziosi, fissando sgomento la situazione. Quando alla fine provò timidamente a tirare, senti un dolore acuto. Che si aggiunse alla sofferenza prodotta dal freddo.

Rimase in piedi a gambe divaricate, con la faccia rivolta alla parete di roccia. Non osava procedere come si sarebbe potuto fare con un cerotto adesivo, vale a dire staccando tutto d'un colpo. Gli era capitato di leggere di un escursionista americano solitario al quale era rimasto un braccio incastrato sotto un masso e che si era amputato l'arto ad altezza del gomito con un coltello a serramanico. Beard tuttavia non si riconosceva la stessa dedizione e, dopo tutto, gomito, mano e avambraccio, avendo comunque un doppio, risultavano in un certo senso piú sacrificabili. Mentre il vento polare ruggiva contro la scarpata rocciosa rimbalzando sulla sua sagoma tremebonda, Beard osservò il progressivo rattrappimento del proprio pene che andava accartocciandosi sempre di piú intorno alla cerniera. E non si limitava a rimpicciolire sotto i suoi occhi: diventava anche bianco. Non del bianco di un foglio di carta, piuttosto del candore argenteo di una palla di Natale.

Era prossimo al panico, ma non riusciva a chiedere aiuto. Non farsi prendere dal terrore era anche piú difficile, avendo la testa schiacciata sotto uno strato di schiuma poliuretanica e un casco pesante, e con quegli occhiali a visibilità limitata. Non sapendo che altro fare, si copri con la mano a coppa, una mano che ormai era un piccolo blocco di ghiaccio. Cominciava intanto a sentirsi indolente, quasi assonnato, come si dice succeda in condizioni di freddo estremo, e anche i pensieri sbandavano al rallentatore. Vedeva Jock Braby in tv recitare il suo necrologio con un sorriso indulgente: «Era in missione per constatare di persona il riscaldamento globale». Stupidaggini, ma certo che si sarebbe salvato. A quelle condizioni, però: una vita intera senza pene. Che spasso per le sue ex mogli, specie per Patrice. Ma lui non l'avrebbe fatto sapere a nessuno. Sarebbe vissuto custodendo in silenzio il proprio segreto. Ritirandosi in un monastero, facendo del bene, visitando i bisognosi. Mentre cercava a stento di alzarsi, si domandò per la prima volta da quando era adulto se si potesse supporre un calcolato disegno nelle vite degli uomini, se potessero esistere entità simili agli dèi greci, in grado di imporre agli umani i loro scherzi, le loro vendette, la loro sommaria giustizia.

Ma il razionalista era duro a morire, in Michael Beard. C'era un problema, e a lui toccava cercare di risolverlo. Intanto infilava mestamente la mano nella tasca interna della giacca. Per qualche anno, alla fine del dottorato, aveva lavorato sulla fisica delle basse temperature, ma le nozioni di base le conosceva dai tempi delle medie, quando era ancora Beard Palladilardo, negato per i giochi di squadra e secchione nelle materie scientifiche. Il punto di congelamento dell'etanolo puro è -114°, come tutti sanno. Un brandy con una percentuale di etanolo dell'ottanta per cento avrà un titolo alcolometrico pari a 40°, e di conseguenza una temperatura di congelamento di -45,6°. Finalmente, la mano aveva trovato la fiaschetta il cui tappo fu estratto senza grosse difficoltà; Beard offri la sua generosa libagione e, in capo a pochi secondi, era libero.

Quando lo ritirò, il suo povero uccello era ancora duro come un pezzo di ghiaccio, ma non piú bianco. E gli faceva anche male, come se ci avesse conficcato dentro un ago rovente, il che rallentò i suoi sforzi di rivestirsi. Dieci minuti dopo, finalmente ricomposto, si voltò e percorse barcollando la pista dove la sua guida lo stava aspettando.

- Chiedo scusa, ma quando la natura chiama...

Jan lo afferrò per il gomito: - Brutta faccia, amico. Guarda, sono caduti gli scarponi dal collo. Andiamo con la mia slitta insieme. Dopo torniamo per la tua.

Beard si lasciò condurre al mezzo dell'altro e fu lí che la catastrofe infine ebbe luogo. Mentre sollevava una gamba per piazzarsi dietro la guida, ebbe la sensazione, perfino acustica, di un terribile strappo all'altezza dell'inguine, uno schiocco e uno squarcio, come un parto, o un distacco di ghiacci. Diede in un grido e Jan si girò per aiutarlo a sistemarsi.

- Un'ora, solo. Ce la fai.

Qualcosa di freddo e di rigido gli si era staccato dall'inguine per scendere lungo la calzamaglia e andare a fermarsi giusto sopra la rotula. Si portò una mano in mezzo alle gambe e non trovò niente. Se la portò al ginocchio e quel coso orrendo, meno di cinque centimetri in tutto, era li, duro come un sasso. Non sembrava affatto, o non sembrava piú, una parte di lui. Jan avviò il motore azionando il pedale, e partirono a una velocità senza senso, sbandando su dossi di ghiaccio duri come cemento, sterzando intorno a pendii pressoché verticali, come piloti spericolati in un velodromo. Ma perché non era a casa sua, nel suo letto? Beard cercava di acquattarsi al riparo dal vento dietro l'ampia schiena di Jan. Il bruciore inguinale si andava espandendo; l'uccello, dopo essergli rotolato giú per la gamba, si era trovato una nicchia nell'incavo del ginocchio, e per giunta adesso correvano a tutto gas nella direzione sbagliata, precipitandosi a nord, verso il Polo, verso le piú remote regioni selvagge, nel buio dei ghiacci, quando avrebbero dovuto scapicollarsi verso Longyearbyen, verso un pronto soccorso ben attrezzato. Per fortuna, il freddo estremo doveva lavorare a suo vantaggio, mantenendo l'organo in vita. Ma... microchirurgia ? A Longyearbyen, millecinquecento abitanti? Beard pensò che avrebbe dato di stomaco, e invece infilò le mani dentro la cintura dietro la giacca di Jan, abbandonò il capo sulla spina dorsale del suo protettore e prese sonno, tanto che solo il silenzio improvviso del motore spento tornò a svegliarlo, e Beard vide incombere in mezzo ai ghiacci lo scafo nero dell'imbarcazione sulla quale avrebbe trascorso la settimana.

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Poi l'inviata di un tabloid di fascia media formulò una domanda di per sé banale, un po' un vecchio luogo comune, e Beard diede quella che ritenne una risposta moderata. Sí, in effetti, la rappresentanza femminile in ambito fisico era sempre esigua. Il problema era stato ampiamente dibattuto e senz'altro la sua commissione (qui Beard parlava ben consapevole della presenza della professoressa Tempie) se ne sarebbe fatta carico nuovamente, cercando di individuare strategie che invogliassero piú studentesse a dedicarsi alla disciplina. Beard riteneva che non esistessero piú barriere istituzionali, né pregiudizi di sorta. In altre branche della scienza la componente femminile era cospicua; in alcune, addirittura predominante. Infine, poiché stava tediando se stesso, aggiunse che forse un giorno sarebbe stato necessario accettare l'ipotesi che si fosse raggiunto il famoso soffitto. Non che mancassero fisici donna di grande talento; cionondimeno era se non altro concepibile che potessero rimanere per sempre una minoranza, ancorché sostanziale, nel campo specifico. Perché escludere l'idea che ci potessero essere comunque piú uomini che donne desiderosi di consacrarsi alla fisica? Vaste ricerche sperimentali in campo di psicologia cognitiva confermavano unanimi la notevole differenza sul piano statistico di cervello maschile e femminile. Qui non c'entrava affatto la superiorità di genere, intendiamoci, e nemmeno i condizionamenti sociali che pure consolidavano un fenomeno esistente. Si parlava di differenze innate nelle abilità cognitive, differenze osservate su ampia scala. Studi e metastudi dimostravano come, in media, le donne disponessero di maggiori capacità linguistiche, miglior memoria visiva, interpretazione emotiva piú acuta e superiore predisposizione al calcolo matematico. Gli uomini ottenevano punteggi piú alti nella risoluzione di problemi matematici, nel ragionamento astratto, e nella consapevolezza visivo-spaziale. Maschi e femmine avevano priorità diverse nella vita, e atteggiamenti diversi rispetto al rischio, al prestigio sociale e alle gerarchie. Ma soprattutto, esisteva la differenza piú notevole, quella che comportava la deviazione standard piú ripetutamente analizzata: sin dall'infanzia, le bambine tendevano a interessarsi maggiormente alle persone, i maschi alle cose e ai principi astratti. Tale divergenza aveva riscontro nelle discipline scientifiche di cui rispettivamente sceglievano di occuparsi: piú donne si interessavano alle scienze biologiche e sociali, piú uomini all'ingegneria e alla fisica.

Beard si rese conto che andava perdendo l'ascolto vigile dei presenti in sala. Era quello l'effetto che formule come «deviazione standard» sortivano abitualmente sui giornalisti. Qualcuno, verso il fondo, cominciava a chiacchierare. In prima fila, un azzimato reporter di una certa età aveva chiuso gli occhi. Beard si affrettò a concludere. Restava certamente parecchio lavoro da svolgere per richiamare piú donne nel mondo della fisica e farle sentire bene accolte. Ma non si poteva escludere che il futuro indicasse come spreco di energie la lotta tesa al raggiungimento della parità a tutti i costi, quando esistevano settori di studio che le donne prediligevano.

La giornalista che aveva posto la domanda annuiva stancamente. Dietro di lei, qualcuno era sul punto di formularne un'altra che non c'entrava affatto. La mattina sarebbe scivolata come sempre nel dimenticatoio non fosse che, a quel punto, la professoressa di scienze sociali si alzò di scatto, accendendosi di un rosa carico, radunò rumorosamente le proprie carte e dichiarò: - Prima di uscire a vomitare, e intendo vomitare l'anima, per quanto ho appena sentito, voglio rassegnare le mie dimissioni dalla commissione del professor Beard.

Si diresse spedita alla porta, tra il vociare chiassoso dei giornalisti che, schierati in piedi, rumoreggiavano spostando le sedie sul palchetto. Finalmente si sentivano coinvolti sul piano professionale, euforici, smaniosi, competitivi, e si lanciarono all'inseguimento.

La sala si andava svuotando e il professor Jack Pollard, lo specialista di gravità quantistica di Newcastle che aveva di recente tenuto un ciclo di Reith Lectures, e che sembrava sempre al corrente di tutto, bisbigliò all'orecchio di Beard: - Credo che l'abbia fatta grossa, questa volta. Quella è postmoderna, mi spiego? Una fanatica della tabula rasa, del costruttivismo sociale. Come tutte le altre, no? Ci prendiamo un caffè?

Sul momento quelle definizioni non significarono granché per Beard. L'unica cosa a cui riuscisse a pensare era: non è cosí che uno dovrebbe rassegnare le proprie dimissioni. E, subito dopo, un pensiero ancora piú elementare: gli conveniva andarsene al piú presto, pur sapendo che Pollard aveva una gran voglia di chiacchierare. In circostanze diverse, Beard sarebbe stato ben lieto di fargli compagnia in un caffè per un'oretta. Esisteva una comunità variabile di membri internazionali legati da un affetto esclusivo e geloso che, pur tra storiche defezioni e decessi, a partire dai giorni eroici della classica teoria delle stringhe, avevano condiviso il lungo viaggio verso la ricerca del sacro graal: l'unificazione delle forze fondamentali con la gravità. Col tempo, essi avevano constatato i limiti delle stringhe e abbracciato le superstringhe e la teoria delle stringhe eterotiche per giungere, guidati da quei fili, nel cavernoso rifugio materno della M-teoria. Ogni conquista aveva portato con sé una nuova serie di problemi, contraddizioni, impossibilità fisiche. Dieci dimensioni, allora, undici, con un occhio sempre rivolto indietro ai campioni della supergravità! Dimensioni arrotolate strette su sei cerchi, la riscoperta della teoria di Kaluza-Klein degli anni Venti, le incantevoli contorsioni delle varietà orbitali di Calabi-Yau! E la singolare esperienza drammatica dell'universo nel suo primo centesimo di secondo! Quello di Beard non era stato un ruolo creativo anche perché la matematica necessaria non era del tutto alla sua portata, ma conosceva gli aneddoti. E le battute: come quella del teorico delle stringhe che, sorpreso dalla moglie a letto con un'altra, esclama: «Tesoro, posso spiegarti tutto!» Quanto cammino percorso e quanta strada ancora da fare: gli estremi limiti dell'intelligenza dell'uomo, intrecciati a vicende anche troppo umane. Il fisico teorico che aveva trascurato la moglie morente, senza peraltro riuscire a riformulare il problema. L'oscuro post-doc capace di risolvere una serie di incoerenze grazie a un'intuizione liberatoria che gli devasterà la salute. Il famoso congresso che aveva vergognosamente negletto un'insigne personalità del passato. Il leccapiedi mediocre che riesce a ottenere la supersovvenzione. La violenta rottura tra due giganti che avevano lavorato fianco a fianco nello stesso laboratorio.

Sí, avrebbe tanto desiderato scambiare due parole, ma percepiva una contrazione crescente intorno alla sua persona, qualcosa di simile all'addensarsi del buio o al suo equivalente emotivo. Era nei guai e gli conveniva svignarsela, prima di peggiorare le cose. Si scusò brevemente con Pollard e gli altri, prese la borsa, lasciò la stanza e si incamminò verso l'atrio, per uscire infine dall'ingresso principale. Fuori, il sole e il ronzio di fondo della città parvero ridimensionare le sue preoccupazioni. Una catena montuosa avrebbe potuto fargli lo stesso effetto. Magari aveva ingigantito le cose. Di passaggio, colse frammenti della conferenza stampa rilasciata da Nancy Tempie sul marciapiede, in toni di garbata ragionevolezza: «... riscoperta dell'eugenetica... sinistre rivendicazioni sulla presunta natura umana... attacco neoliberale alla collettività...» Simpatiche formule a effetto, pronte per i tabloid. Alcuni dei cronisti che le si accalcavano intorno usavano il tettuccio di un'auto parcheggiata per appoggiare il taccuino, altri dettavano già l'articolo al cellulare. Forse la Tempie nemmeno sapeva che parte di tanto interesse riguardava di fatto il governo. Una commissione statale era nei guai. L'ennesimo fallimento di Blair.

Beard ignorò le voci che lo chiamavano per nome mentre attraversava la strada. Mai prestarsi ad alimentare un pettegolezzo giornalistico sul proprio conto. L'indomani però, si chiese se avrebbe fatto meglio a voltarsi, quando lesse il passaggio che descriveva la sua «vergognosa fuga alla chetichella», sovrastato dal titolo: Premio Nobel dice no alle pollastre da laboratorio.

In principio sembrò che quella particolare vicenda non avesse futuro, che non potesse far presa. Dopo un trascurabile fiorire di titoli sui giornali del mattino, per un paio di giorni calò il silenzio. Beard pensò di essersela cavata. Invece in quell'intervallo un tabloid si era dato da fare con le ricerche. Il sabato, le rivelazioni sulla sua «vita sentimentale» vennero abilmente intrecciate alla storia del suo «no alle ragazze in camice bianco». La domenica, gli altri giornali tornarono in massa sulla notizia, rincarando la dose, e Beard fu ribattezzato «il genio puttaniere», un «dongiovanni da Premio Nobel» e descritto come una specie di satiro erudito: «il montone-laureato». C'era qualche accenno all'omicidio di Aldous, ma il vecchio punto di vista che faceva di Beard l'incarnazione dell'inerme e sognante cornuto, dell'ingenuo idiota, del fesso con moglie volubile, veniva debitamente accantonato. Ora lo si presentava come un uomo spregevole, uno che si portava a letto le donne escludendole contestualmente dal mondo scientifico. I quotidiani piú seri lo descrivevano come un fisico passato al «determinismo genetico», un fanatico della sociobiologia le cui idee in materia di genere si manifestavano come frutto indiretto del darwinismo sociale il quale, a sua volta, aveva sfornato le teorie razziali del Terzo Reich. Un giornalista infine, sviluppando arditamente il concetto, piú in spirito di personale ripicca che di autentica convinzione, arrivò a suggerire che Beard fosse un neonazista. Sul momento nessuno prese sul serio l'accusa, ma altri quotidiani si sentirono autorizzati a riferire quel termine pur prendendone le distanze, e cautelandosi con l'uso di virgolette legittimarono di fatto l'insulto. Beard diventò il «Professore Neonazista».

Un articolo su una testata di centrosinistra dichiarò che le piú sostanziali differenze tra uomini e donne erano invenzioni culturali. Beard replicò con una lettera fiaccamente sarcastica di appena sei righe che pure aveva richiesto decine di stesure e quattro ore di tempo per la compilazione. Vi si leggeva infatti che a tutt'oggi gli uomini non erano in grado di partorire e che era tutta colpa del sistema sociale. La lettera fu pubblicata, ma nessuno parve farci caso.

Una settimana piú tardi, lo stesso giornale ospitò il dibattito tra Beard, Tempie e altri sul tema «Donne e Fisica», nella sede dell'Ica. A quel punto, Beard era deciso a chiarire una volta per tutte le sue posizioni. Si trovò a dividere il palco con vari accademici di facoltà umanistiche, perlopíú uomini, tutti ostili. Per ragioni che nessuno si peritò di rendere note, la professoressa Tempie non era presente e aveva inviato una collega al suo posto. E gli scienziati, che fine avevano fatto?, si affannava a chiedere Beard prima che si desse inizio ai lavori. Nessuno sembrava saperlo.

L'auditorium registrò il tutto esaurito. In una seconda sala, altra folla poteva seguire l'evento sui monitor. Il rilievo che la stampa aveva dato alla vicenda funzionò, stuzzicando l'appetito. La gente smaniava dalla voglia di vedere un mostro contemporaneo dal vivo, per potersi scandalizzare. Quando Beard si alzò in piedi, qualcuno arrivò al punto di trattenere il fiato. In un crescendo di mormorii sprezzanti, lui confermò la linea già seguita, citando gli stessi studi cognitivi, solo in modo piú approfondito. Quando fece riferimento ai metastudi in base ai quali le abilità linguistiche delle bambine sarebbero superiori a quelle dei maschi, ci fu un boato di risa e un oratore sul palco si alzò con furia terrificante, accusandolo per il «rozzo oggettivismo attraverso il quale il collega si sforza di sostenere e promuovere la supremazia di una élite bianca e maschile». Appena tornò a sedersi, la folla gli tributò un applauso tale da far presagire una rivoluzione. Sbalordito, Beard non colse il collegamento. Era del tutto smarrito. Quando poco dopo chiese irritato ai convenuti se considerassero anche la legge di gravità un'invenzione sociale, la gente prese a fischiarlo e una signora dal pubblico si alzò per consigliargli, in toni severi, da direttrice scolastica, di riflettere «sull'arroganza egemonica» della sua domanda. Cosa lo autorizzava a comportarsi cosí? Quale invisibile distribuzione del potere nell'attuale sistema gli faceva credere di essere legittimato a porre la questione in quei termini? Beard era sconcertato, non trovava parole. Il termine «egemonico» fu utilizzato piú volte come un insulto. Come pure, «riduzionista». In preda all'esasperazione, Beard dichiarò che la scienza non sarebbe esistita senza riduzionismo. Una lunga risata fece eco al commento levatosi anonimo dalla platea: - Appunto!

La sostituta di Nancy Tempie era Susan Appelbaum, docente ospite dell'Università di Tel Aviv, esperta di psicologia cognitiva. Minuta come un uccellino, in abito rosso e blu, si esprimeva con una specie di cinguettio assai confacente. Era agitata dal dover parlare in pubblico ed esordi con una certa goffaggine. In sala regnavano diffidenza e confusione. Dal punto di vista del pubblico, che si presentava come soggetto unanime in tutto e per tutto, la Appelbaum poteva contare su qualche punto a favore, ma anche qualcuno a sfavore. In quanto donna, risultava un'egemone dalle armi spuntate (Beard pensava di avere ormai acquisito dimestichezza con il termine), rese ancor piú inoffensive dalla sua mancanza di fiducia in se stessa. In piú, dopo pochi minuti fu chiaro che stava dalla parte opposta a quella di Beard. D'altro canto, Appelbaum era un'ebrea, israeliana e, di conseguenza, un oppressore del popolo palestinese. Magari era sionista, forse aveva prestato servizio nell'esercito. Cosí, non appena prese a parlare, l'ostilità in sala aumentò. Quella era una folla postmoderna, ben dotata di antenne per smascherare l'inaccettabile. Di fronte a esternazioni che non fossero di specchiata correttezza e insospettabile provenienza, sul cuore di gente simile poteva calare il gelo. La signora di Tel Aviv dichiarò senza mezzi termini la propria collocazione conservatrice accogliendo implicitamente svariati assunti delle tesi di Beard. Era un'oggettivista, e come tale credeva che il mondo esistesse al di là del linguaggio che lo descriveva; si espresse a favore dell'analisi riduzionista, si definí una sostenitrice dell'empirismo e, ammise con orgoglio, «una razionalista illuminista», il che, come Beard ebbe modo di constatare dal mugugno malevolo del pubblico, suonava un filo retrivo, se non decisamente egemonico. Le differenze di genere in ambito cognitivo esistevano, incalzava Appelbaum, sebbene soltanto una certezza empirica dovesse determinare la nostra opinione in materia. Esisteva inoltre una natura umana con relativa evoluzione storica. Gli uomini non nascevano tabula rasa. Prima ancora di aver concluso l'introduzione, la professoressa già faticava a tenere viva l'attenzione del pubblico.

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Mentre sedeva a gambe accavallate esibendo il consueto sorriso fisso e fingendo di prestare ascolto alla presentazione troppo verbosa ed esauriente di Saleel, ma ancora di piú, quando alla fine si alzò durante l'applauso fiacco, prese posto dietro il leggio e si aggrappò stretto con entrambe le mani, Beard senti montargli dentro un'onda oleosa di schifo per qualcosa di fetido, un mostro spiaggiato sulle rive di fango di un estuario stagnante, qualcosa che gli si andava decomponendo nelle viscere sprigionando vapori gassosi che gli contaminavano il fiato, le parole e, all'improvviso, perfino i pensieri.

- Il nostro pianeta, - disse cogliendosi alla sprovvista, - sta male.

Ci fu un mormorio, seguito da un sussurro di disapprovazione da parte del pubblico. I direttori dei fondi pensionistici avrebbero gradito toni piú sfumati. Di fatto, però, utilizzare l'espressione «il pianeta sta male» offri a Beard un sollievo istantaneo, impedendogli di dare personalmente di stomaco.

- La cura del paziente si impone con urgenza, e avrà costi notevoli: intorno a qualcosa come il due per cento del Pil globale, una percentuale destinata a salire se non si agisce subito. Sono qui con l'intento di comunicarvi la mia convinzione che chiunque desideri collaborare alla terapia, entrando a far parte del progetto e investendo nell'iniziativa, ne trarrà profitti cospicui, strabilianti quantità di denaro. Si tratta di dare inizio a una nuova rivoluzione industriale. È la vostra grande occasione. Carbone e petrolio sono stati i fondamenti della nostra civiltà, hanno rappresentato risorse eccezionali emancipando centinaia di milioni di individui dalla schiavitú della sussistenza rurale. In soli duecento anni la liberazione dal logorio della fatica quotidiana unita alla innata curiosità dell'uomo ha prodotto la crescita esponenziale della nostra base di conoscenze. Il fenomeno ha avuto inizio in Europa e negli Stati Uniti, si è diffuso nell'arco della nostra vita ad alcune regioni dell'Asia e, di recente, ha coinvolto India, Cina e Sudamerica, escludendo per il momento il continente africano. Tutti gli altri problemi e i conflitti che ancora permangono tendono a oscurare una verità oggettiva: siamo assai poco consapevoli dell'immenso successo ottenuto.

Pertanto abbiamo il dovere di rendere merito della nostra capacità creativa. Siamo scimmie intelligentissime. Tuttavia, il motore della rivoluzione industriale ha potuto fin qui avvalersi di un'energia accessibile e a basso costo. Senza di essa, non saremmo arrivati da nessuna parte. È fantastico, se ci pensiamo. Un chilogrammo di benzina contiene grosso modo tredicimila wattore di energia. Risultati pressoché imbattibili. Eppure vogliamo cambiare. Con che cosa, dunque? Le migliori batterie elettriche di cui disponiamo possono immagazzinare circa trecento wattore di energia al chilogrammo. Sono queste le proporzioni del nostro problema: tredicimila contro appena trecento. Non c'è gara! Purtroppo, però, non possiamo permetterci il lusso di scegliere. Siamo costretti a sostituire rapidamente il consumo di benzina per tre ragioni inappellabili. La prima e la piú semplice è che il petrolio finirà. Nessuno sa con esattezza quando, ma siamo tutti concordi nel sostenere che raggiungeremo il picco di produzione tra i prossimi cinque e quindici anni. Dopodiché, avrà inizio il declino, mentre la richiesta di energia continuerà a crescere con l'aumento della popolazione mondiale e la ricerca di un migliore standard di vita. Secondo: molte zone produttrici di petrolio risultano politicamente instabili e noi non possiamo piú accettare il rischio di alti livelli di dipendenza. Terzo, e fondamentale, la combustione di carburanti fossili, immettendo nell'atmosfera anidride carbonica e altri gas, produce un costante riscaldamento del pianeta di cui stiamo appena cominciando a comprendere le conseguenze. Ma il succo è chiaro. O rallentiamo e infine interrompiamo il consumo, o una catastrofe umana ed economica di enormi proporzioni si abbatterà sulla generazione dei nostri nipoti.

Il che ci conduce alla domanda cruciale, all'interrogativo scottante. Come possiamo diminuire e far cessare i nostri consumi continuando a sostenere la civiltà, sottraendo alla miseria milioni di individui? Non certo con comportamenti virtuosi, non certo differenziando lo smaltimento del vetro, abbassando il termostato in casa o acquistando un'auto piú piccola. Tutto ciò può giusto rimandare il disastro di un paio d'anni. Ogni proroga è utile, intendiamoci, ma non rappresenta la soluzione. La faccenda coinvolge qualcosa che va al di là della sola virtú, perché la virtú è limitata, passiva. Può essere di incentivo per il singolo, ma quando si tratta di gruppi, di sistemi sociali, di una civiltà intera, allora è una forza insufficiente. Le nazioni non sono mai state virtuose, sebbene si possano a volte convincere del contrario. A livello di massa, l'avidità ha la meglio sulla virtú. Ecco perché dobbiamo integrare di buon grado nelle soluzioni al problema il nostro incontenibile impulso all'egoismo, oltre che festeggiare la novità, il brivido dell'inventiva, il piacere di ingegno e cooperazione, le soddisfazioni del profitto. Petrolio e carbone sono vettori energetici e, in teoria, lo è anche il denaro. Perciò, la risposta a quell'interrogativo cruciale è ovviamente là dove il denaro, il vostro denaro, deve scorrere: in un'energia pulita e accessibile.

Provate a immaginare una situazione come la presente duecentocinquant'anni fa: mi troverei di fronte a un'accolita di gentiluomini di campagna e signore, a preannunciare l'arrivo della prima rivoluzione industriale, e a raccomandarvi di investire in carbone e ferro, macchine a vapore, cotonifici e, piú tardi, in reti ferroviarie. Oppure, a distanza di un secolo, dopo l'invenzione del motore a combustione interna, prevedendo l'importanza crescente del petrolio, vi incoraggerei a investire in quel settore. E, altri cento anni dopo, in microprocessori, personal computer e internet, per tutte le opportunità che possono offrire. Ecco, signore e signori, noi ci troviamo a vivere un altro momento di quel genere. Non lasciatevi sedurre dall'illusione che l'economia mondiale e le borse finanziarie possano sussistere indipendentemente dall'ambiente naturale. Il nostro pianeta è un'entità finita. Disponete dei dati, avete facoltà di scegliere: il progetto umano deve essere alimentato in modo sicuro e pulito, o è destinato a fallire, ad andare a picco. Voi, vale a dire il mercato, potete dimostrarvi all'altezza e arricchirvi strada facendo, oppure affondare insieme al resto. Siamo tutti aggrappati allo stesso scoglio, non c'è altro posto in cui rifugiarsi...

Da diversi angoli della sala gli giungevano mormorii sprezzanti, scatenatisi, secondo lui, appena aveva pronunciato le parole «riscaldamento del pianeta». La nausea intanto aumentava, la carogna gonfia che gli abitava in corpo si agitava schifosamente. Mentre ascoltava l'introduzione di Saleel, Beard aveva notato un'apertura al centro del tendone di velluto alle sue spalle: una via di fuga che poteva tornargli utile. Si interruppe, inspirò profondamente e si costrinse a rizzare la schiena e a guardarsi intorno, cercando di rintracciare l'origine del dissenso. Una vita di discorsi in pubblico gli aveva insegnato l'efficacia di una pausa risoluta. Sapeva bene che le istituzioni piú serie della City nutrivano una robusta tendenza alla negazione irrazionale, in barba alle piú elementari nozioni di fisica e ad anni di dati attendibili. I negazionisti, la gente un po' ovunque, volevano continuare a fare affari, come sempre. Temevano la minaccia al valore del capitale, sospettavano che i climatologi rappresentassero interessi egoistici, proprio come loro. Beard li disprezzava con tutta la veemenza del neoconvertito.

Mentre prendeva fiato per ricominciare a parlare, si sentí salire dalla gola un riflusso al sapore di pesce, tipo acciughe al sale con un goccio di bile. Chiuse gli occhi, trangugiò forte e modificò l'approccio.

- Sul giornale di ieri ho letto che tra appena quattro anni si festeggerà il bicentenario della nascita di Charles Darwin e il centocinquantenario della prima edizione dell' Origine delle specie. Le commemorazioni eclisseranno molto probabilmente l'opera di un altro grande scienziato vittoriano, un irlandese di nome John Tyndall che diede inizio a un importante studio dell'atmosfera nello stesso anno, 1859. Uno dei suoi principali interessi era la luce ed è per questa ragione che sento di essergli particolarmente affine. Tyndall fu il primo a suggerire che fosse il fenomeno di diffusione della luce da parte dell'atmosfera a far apparire azzurro il cielo, e fu anche il primo a descrivere e spiegare l'effetto serra. Costruí un apparecchio sperimentale e dimostrò come vapore acqueo, anidride carbonica e altri gas impediscano al calore solare assorbito dalla terra di rientrare nello spazio, rendendo in tal modo possibile la vita. Eliminate questo strato di gas e vapore e, come notoriamente ebbe a scrivere (a questo punto Beard estrasse una scheda dal taschino della giacca e lesse): «Distruggerete senz'altro ogni pianta che il gelo possa distruggere. Il calore dei nostri campi e dei nostri giardini si riverserebbe irrimediabilmente nello spazio, e il sole sorgerebbe su un'isola stretta nella morsa dei ghiacci».

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Un'ora e mezza piú tardi fu disturbato dal suono del palmare, e in un attimo si ritrovò sveglio con il telefono già appoggiato all'orecchio ad ascoltare la voce della bambina della cui esistenza aveva cercato in tutti i possibili modi leciti di liberarsi. Invece eccola li, Catriona Beard, insopprimibile come un romanzo all'indice.

- Papà, - sentenziò solenne. - Cosa stai facendo?

Erano le sei del mattino di domenica, in Inghilterra. Svegliata dalle prime luci dell'alba, Catriona doveva essere passata dal letto direttamente al telefono del soggiorno e aver premuto il pulsante in alto a sinistra.

- Sto lavorando, tesoro, - rispose lui altrettanto solenne. Avrebbe potuto benissimo dirle che dormiva, ma gli sembrò necessario mentire per placare il senso di colpa istantaneo che lo invadeva al suono della sua voce. Molte conversazioni con la sua bambina di tre anni gli ricordavano vecchi rapporti, nel corso dei quali aveva dovuto fornire a svariate donne spiegazioni improbabili, fare marce indietro o trovare scuse, per essere immancabilmente smascherato.

- No, eri a letto perché hai la voce come un corvo.

- Stavo leggendo sul letto. E tu cosa stai facendo? Che cosa vedi?

Sentí il suono di un lungo respiro e lo schiocco di una lingua pulita contro la chiostra dei denti da latte, mentre la piccola rifletteva su quale parte del suo linguaggio di recente acquisizione scandagliare. Doveva essere accanto o sopra al divano di fronte alla finestra grande luminosa e al ciliegio fronzuto, e vedere la conca di sassi che da sempre la affascinava, la maquette di Henry Moore, le tinte neutre delle pareti illuminate dal sole, le lunghe strisce in legno di quercia del pavimento.

Alla fine disse: - Perché non vieni a casa mia?

- Tesoro, sono a migliaia di chilometri da li.

- Ma se sei andato lí, puoi anche venire qui.

La logica dell'affermazione lo lasciò interdetto e, mentre stava per prometterle che sarebbe andato presto a trovarla, lei lo anticipò con un'idea felice. - Adesso vado nel letto della mamma. Ciao -. E cadde la linea.

Beard si distese supino, chiuse gli occhi e provò a immaginare il mondo dal punto di vista di sua figlia. Ancora non aveva una concezione precisa di tempo, fusi orari e distanze fisiche, e disponeva in compenso di un apparecchio di cui dava per scontate le strabilianti capacità. Premendo un semplice pulsante era in grado di parlare con il suo genitore disincarnato, come con lo spirito di un defunto nel corso di una séance, con un fantasma dell'aldilà. Qualche volta riusciva a evocarlo in carne e ossa, ma perlopiú falliva. Quando arrivava davvero, si presentava sempre con un regalo, scelto senza ispirazione in un aeroporto, spesso sbagliato: una confezione da dodici magliette arcobaleno che le stavano strette, un giocattolo di pezza che secondo lei era adatto a un bambino piú piccolo, anche se non aveva cuore di dirglielo, un gioco elettronico che non riusciva a capire, una scatola di cioccolatini al liquore che poi si doveva mangiare lui tutti in una volta. Melissa cercava di convincerlo a non portarle niente - «È te che vuole» -, ma un'intera vita passata ad ammansire ragazze a furia di sorprese avvolte in carta da regalo non era facile da modificare. Senza un dono, sarebbe arrivato nudo, esposto a pretese imprevedibili e crude, incapace di fare ammenda per la propria assenza e in dovere di manifestarsi in una scomoda dimensione personale, costretto a impegnarsi.

A soli tre anni, Catriona era una di quelle persone che aprendo un regalo si sentono responsabili dei sentimenti del donatore. Come poteva una coscienza cosí nuova aver già raggiunto una delicatezza tanto raffinata? Sta di fatto che non concedeva al proprio gradimento di deludere il padre. Le magliette, gli assicurava, non erano affatto uno spreco, perché un giorno o l'altro sarebbero servite al suo fratellino, la tenera creatura della quale Catriona anticipava l'arrivo con misteriosa fiducia. Era una bambina profonda e socievole, di una sensibilità pressoché insopportabile. In un commento pronunciato per caso, era in grado di percepire la minima inflessione di voce, un tono interrogativo che lei interpretava come una critica o un rimprovero e di cui subito provava orrore; dalle lacrime, passava sovente ai singhiozzi, e non era facile poi tranquillizzarla. Certe volte pareva che registrasse la mente altrui come un campo di forza tangibile, dalle onde travolgenti come cavalloni oceanici. Tale consapevolezza degli altri era al tempo stesso un dono e un castigo. Catriona era intelligente e fiduciosa, perspicace e buffa, ma la sua sensibilità emotiva la rendeva vulnerabile e metteva a disagio suo padre. Una volta era bastato un suo commento innocente, un'espressione di moderata impazienza, a gettare la bambina nella piú nera disperazione e a far precipitare la madre in camera per prenderla in braccio. A Beard non piaceva passare per un mascalzone né gli si addiceva - troppo vincolante - doversi muovere per tutto il giorno con i piedi di piombo.

Se la sarebbe forse cavata meglio con un figlio maschio scalmanato e testone? Probabilmente no. Ciò che lo legava a Catriona - almeno per quanto gli fosse possibile sentirsi legato a qualcuno - era l'insistenza di lei, il suo affetto incondizionato e acritico. Per la bambina, era semplice. Beard era il suo papà e lei lo voleva per sé. Aveva capito che il suo lavoro era salvare il mondo, e dato che il mondo per lei significava la mamma, Primrose Hill, il negozio di articoli per la danza e i bambini della sua classe dell'asilo, Catriona era orgogliosissima. Serviva a ben poco che Melissa ribadisse l'inutilità di chiamare in causa suo padre. La piccola non intendeva permettergli di defezionare. A lei non importava, non ci faceva nemmeno caso, se Beard era basso e grasso, non tanto simpatico, e se gli cresceva il triplo mento, perché lei gli voleva bene e lo rivendicava come sua proprietà. Aveva ben chiari i propri diritti. Ecco un'altra ragione per cui Beard si sentiva in colpa e la copriva di doni: per distrarla e impedirle di corrergli incontro e buttarglisi addosso appena entrava in casa, arrampicandosi in braccio per bisbigliargli all'orecchio i suoi segreti di bambina nell'attimo stesso in cui lui si metteva a sedere, dopo un viaggio faticoso. Proprio come suo padre, Beard era in difficoltà a mostrarsi affettuoso con un bambino. Proprio come sua madre, Catriona era capace di un amore asimmetrico, e non badava alle reticenze di lui.

Alla resa dei conti, Beard era un genitore e un amante indeciso, che non si lasciava coinvolgere, ma che nemmeno aveva il coraggio di abbandonare la sua famiglia. Per abitudine, si aggrappava a un'idea giovanile di indipendenza, inadatta a un uomo di quasi sessantadue anni. Spesso, di ritorno a Londra, si fermava nell'appartamento di Dorset Square, almeno per le prime due o tre notti, fino a quando lerciume e magagne varie non lo stanavano. Una colonia di funghi giallo-verdognoli si andava insediando lungo la linea di giuntura tra la parete e il soffitto in cucina. Una grondaia esterna, che in teoria apparteneva a un vicino, si era rotta e l'acqua piovana filtrava dai muri. Beard tuttavia non aveva nessuna voglia di affrontare il bellicoso inquilino sordastro del piano di sopra, né di entrare nell'ordine di idee di spaccare e intonacare, accogliere intrusi e sopportare il baccano che la riparazione completa del danno avrebbe previsto. In ingresso mancava continuamente la luce, per quanto cambiasse una lampadina dopo l'altra. Appena toccava l'interruttore, saltava tutto. Nel rubinetto del bagno al piano di sopra l'acqua fredda non scendeva da un pezzo. Per radersi, Beard faceva scorrere piano la calda ed era diventato capace di arrivare a fine rasatura prima di ustionarsi. Se voleva fare il bagno doveva riempire la vasca e lasciar raffreddare l'acqua per circa un'ora. Poiché questi e altri problemi di minor conto avrebbero richiesto un'attenzione seria, Beard preferiva improvvisare. Un grosso vaso raccoglieva l'acqua piovana in camera degli ospiti, un ferro pulisciscarpe teneva chiusa la porta del frigo, un logoro pezzo di corda sporca e arricciata sostituiva la catena di una vecchissima vaschetta del water.

Ma non esistevano rimedi praticabili per le moquette appiccicose e infeltrite su cui nessuno passava l'aspirapolvere da quando l'ultima donna delle pulizie si era licenziata sei anni prima. Né per le pile di carta, corrispondenza, pubblicità e riviste, le casse di bottiglie vuote, il divano maleodorante o la sporcizia che pareva essersi raggrumata nell'aria oltre che su ogni superficie, e su piatti e tazzine e lenzuola. Beard era solito ricordare a se stesso che, per quanto male in arnese, quell'appartamento restava una specie di ufficio, il posto in cui aveva decodificato il fascicolo di Tom Aldous e dato una svolta alla propria vita. A Primrose Hill Melissa e Catriona volevano chiacchierare, mentre lí lui poteva accomodarsi nel grembo accogliente di quello squallore e leggere indisturbato. Non piú troppo negli ultimi tempi, tuttavia, perché avevano cominciato a prudergli le caviglie. Erano in arrivo le pulci. Ci sarebbe stato talmente tanto da fare per rendere quel posto vivibile che qualunque singolo rimedio sembrava fatica sprecata. Perché mai risistemare, perché anche solo portare via le polverose bottiglie di scotch e di gin e raccogliere i cadaveri di mosche e ragni quando, dopo tutto, aveva l'opzione di trasferirsi da Melissa?

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