Copertina
Autore Patrick McGrath
Titolo La città fantasma
SottotitoloManhattan ieri e oggi
EdizioneBompiani, Milano, 2005, Narratori stranieri , pag. 202, cop.fle.sov., dim. 150x210x14 mm , Isbn 978-88-452-3425-5
OriginaleGhost Town. Tales of Manhattan Then and Now
EdizioneBloomsbury, London, 2005
TraduttoreAlberto Cristofori
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa inglese , citta': New York
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Indice


L'Anno della Forca              7

Julius                         57

Ground Zero                   143



 

 

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Pagina 7

L'Anno della Forca



Sono stato in città a cercare un falegname: un'esperienza inquietante, perché New York è diventata un posto non tanto di morte, quanto di terrore della morte. Numerose case risultano abbandonate, e da quelle popolate promanano i cattivi odori di sostanze utilizzate per proteggere i vivi che ancora vi abitano. Le vie sono silenziose, tranne che per i flebili lamenti di coloro che hanno appena perso qualcuno e per il rumore delle ruote dei malinconici carri funebri che trasportano il loro carico a Potter's Field. In una piazza ne ho visti cinque, posteggiati davanti ad altrettante porte. Qua e là capita di vedere uno dei pochi dottori coraggiosi che restano ad assistere gli ammalati. Si spostano rapidi di casa in casa, con la valigetta nera in una mano e un fazzoletto imbevuto di canfora nell'altra, che si premono sul naso per tener lontano il contagio. I moli sono silenziosi. Nessuna nave oltrepassa lo stretto all'ingresso della baia, adesso: anzi, ho sentito qualcuno affermare che New York è ormai finita come porto, poiché risulta estremamente vulnerabile dalle malattie, essendo una sorta di crocevia del mondo. Vedo uno schifo che si stacca dall'estremità del molo, una vela che si alza: a bordo della scialuppa ci sono tre bambini, due donne, qualche cassa. Si dirigono verso Long Island nella speranza di sfuggire al contagio fra quei campi verdeggianti. Una vana illusione! Dovunque vada l'uomo, la pestilenza lo segue! Perché fuggire? È molto meglio restare al proprio posto e prepararsi alla fine. Questa è la mia linea di condotta. Oggi è il 4 luglio del 1832, sono cinquantacinque anni che è morta mia madre, e non dubito che la seguirò entro la fine della settimana.

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Pagina 26

Circondati da tutte queste sofferenze, gli ufficiali britannici gozzovigliavano nelle ville che erano appartenute ai mercanti americani. Per Lord John Hyde e i suoi amici fu un inverno di continui piaceri, di balli e banchetti in cui si assaporavano carni splendidamente cucinate e si bevevano vini pregiati. Nei teatri si organizzavano spettacoli. Gli ufficiali puntavano forti somme nei giochi di carte; nei salotti eleganti musicisti con parrucche incipriate e calze di seta eseguivano arie da camera per signore in abiti scintillanti. Le prostitute facevano ottimi affari; molte di loro esercitavano vicino alle rovine della Trinity. Di notte, la città risuonava delle grida degli inglesi ubriachi che ululavano le loro voglie alle donne come tanti scimmioni.

Questo era l'esercito di occupazione. Al contrario, noi lottavamo quotidianamente con l'unico scopo di procurarci il minimo indispensabile per tenere uniti anima e corpo, e vivevamo vite senza speranza in infimi tuguri a Canvas Town, tra il fango e la sporcizia. Laceri ed emaciati, percorrevamo le strade come zombie, ci mettevamo in fila per il pane, rubavamo le ossa, e molti morirono di fame, di freddo e di malattia – in numero decisamente minore di quelli che decedettero per il deliberato abbandono sulle navi-prigione dell'East River. La mamma giaceva sul suo vecchio materasso di paglia e fissava il soffitto. La tela era ormai consunta e macchiata, riparata e cucita dove si era strappata. Io le strisciavo vicino per beneficiare del calore del suo corpo, e in quei momenti una pesante sonnolenza animale si diffondeva nella baracca.


Una mattina, mi svegliai nella mia cassa e vidi uno sconosciuto sulla soglia. Per qualche istante, credetti di sognare. Era un uomo alto, con la barba rossa e un viso magro e spigoloso. Vestiva come un quacchero, con un vecchio cappotto e pantaloni neri, e teneva in una mano un cappello nero a tesa larga e un lungo bastone con l'impugnatura di ottone. Scostò la coperta appesa all'interno della porta e pronunciò sottovoce il nome di mia madre. Lei si svegliò a fatica; poi, di colpo, si rizzò a sedere.

"Miles Walsh," mormorò, annodandosi lo scialle sul ventre.

L'uomo rossiccio si chinò ed entrò; la tenda si richiuse alle sue spalle. Altri corpi si mossero, svegliandosi; di notte, la baracca era sempre affollata. Con lo scialle stretto intorno al corpo, la mamma si inginocchiò davanti al focolare e tentò di ravviare i tizzoni. Miles Walsh sedette su una cassa, con le ginocchia che si ergevano aguzze ai lati del bastone dal pomo d'ottone, sul quale incrociò le lunghe dita sottili, appoggiandovi sopra il mento barbuto: quello era l'uomo che aveva bruciato mezza New York, anche se allora non lo sospettavo neppure. Fui mandato fuori a fare la guardia. Avrei dovuto avvertire subito la mamma se avessi visto delle giubbe rosse nei dintorni. Dopo un po' di tempo, mia madre uscì dalla baracca e mi disse che saremmo andati al porto.

Attraversammo la città percorrendo tortuose viuzze secondarie, dove era assai improbabile incontrare una pattuglia. Oltrepassammo bancarelle presso le quali i poveri acquistavano, secondo le loro disponibilità, quantità minime dei costosissimi beni che l'esercito di occupazione non aveva requisito in anticipo. La giornata era nebbiosa e cadeva una pioggerellina sottile, e dal porto giungevano gli stridi dei gabbiani. Nell'aria c'era odore di pesce, oltre a un aspro aroma di sale. Loro camminavano veloci, e io dovevo correre per non restare indietro. La mamma portava lo scialle sulla testa, come se fosse un velo; la sua gonna finiva nelle pozzanghere e si infangava. Molti negozi e case di mercanti apparivano chiusi, oppure risultavano occupati da famiglie lealiste che avevano cercato protezione all'interno della guarnigione in cui si era trasformata New York.

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Pagina 57

Julius



Noah van Horn era un uomo rubicondo e ossuto, dotato di una volontà di ferro e, in una discussione con lui, nessuno aveva mai avuto l'ultima parola, salvo forse sua figlia Charlotte. A giudicare dal suo ritratto, che dapprima fu collocato sopra il caminetto nella sua casa cittadina di Barclay Street, doveva essere una presenza piuttosto allarmante, dal vivo. Prepotente, forte, dominatore, impaziente – preda di rabbie incontrollabili: è questo che si legge sul suo volto, e io posso affermarlo con sicurezza perché il quadro è ora in mio possesso, e io ci passo fin troppo tempo davanti. Con i suoi baffi cespugliosi e gli occhi neri allucinati, assomigliava più a un profeta dell'Antico Testamento che a un mercante che viveva le sue giornate sui moli di South Street – sembra letteralmente sul punto di prorompere dalla tela e di assalire l'osservatore a bastonate!

Pose le fondamenta della propria fortuna commerciando attraverso l'Atlantico, trasportando cotone grezzo da Savannah, Georgia, a Londra, e poi percorrendo tutta la costa orientale, facendo affari in ogni porto, intorno all'inizio dell'800, quando aveva appena vent'anni. Nel periodo successivo, la sua fortuna aumentò rapidamente: investì i guadagni nella cantieristica, nel settore immobiliare, nell'edilizia e in altri campi. Non apparteneva all'élite dei ricchi di famiglia, e non era devoto quanto altri alle virtù presbiteriane – sobrietà e frugalità, per citarne solo due –, considerate la premessa per una vita utile e santa tuttavia mostrava una forte vocazione per l'aggressività imprenditoriale e per il guadagno. Nel 1832, sposò una ragazza di nome Ann Griswold, che aveva oltre vent'anni meno di lui ed era figlia di un mercante yankee con cui Noah faceva affari. Negli anni seguenti, lei gli diede tre figlie, di cui Charlotte fu la prima.

Nella vita famigliare, Noah trovò una certa tranquillità. Rinunciò a quello che considerava il virile piacere di bere brandy con gli amici nei locali della Broadway e coltivò il suo interesse per la storia delle antiche civiltà, arrivando a possedere una biblioteca di circa duemila volumi. I suoi affari continuavano a prosperare, e la città con essi. Spesso parlava del giorno in cui New York avrebbe superato perfino Londra come porto e mercato più importante del mondo: queste affermazioni rivelavano la sicurezza di chi si aspettava di intascare una grossa fetta dei profitti, quando quel giorno fosse arrivato. Eppure c'era qualcosa che non aveva, e per cui avrebbe pagato qualsiasi prezzo: un figlio.


Dopo la nascita di Charlotte, Noah decise di trasferire la famigliola in una località più salubre, poiché la zona commerciale di New York era diventata sempre più preda delle malattie che, secondo lui, arrivavano attraverso il porto con gli irlandesi e trovavano un fertile terreno di coltura nei vicoli sporchi e nei fetidi cortili in cui quegli immigrati vivevano. Acquistò un lotto a Waverley Place e incaricò un architetto di progettargli una casa in stile greco antico, con colonne scanalate, massicci architravi e frontoni triangolari – un brutto edificio che a me faceva venire in mente più un mausoleo che una casa. La residenza fu completata nell'inverno del 1835, e la famiglia vi si trasferì. Una settimana dopo, si verificò uno dei peggiori disastri che mai colpirono la città. L'incendio di un magazzino in Pearl Street si propagò alla zona commerciale della città bassa e in due giorni distrusse quasi settecento edifici, oltre a decine di milioni di dollari di merci. Fra le abitazioni ridotte in macerie dalle fiamme c'era la casa di Barclay Street appena abbandonata. Noah ringraziò il Cielo. Gli parve una benedizione.

Fu nella casa di Waverley Place che Ann van Horn diede alla luce l'ultimo figlio – con grande sollievo di Noah, ebbe finalmente un maschio, che fu chiamato Julius.

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Pagina 172

Continuano i bombardamenti in Afghanistan, mentre in America siamo oggetto di un attacco bioterroristico. Si sono verificati già otto casi di contagio: otto persone hanno inalato il bacillo dell'antrace, e tre di loro sono morte. Arriva con la posta: perlomeno, così si pensava, finché una donna che non maneggiava buste e pacchi per lavoro è caduta malata, e adesso lotta per la vita nel reparto di rianimazione di un ospedale di Manhattan – l'azione dell'antrace porta alla morte per emorragia. Il governo ha allertato la popolazione: si teme un nuovo attacco terroristico e bisogna prestare grande attenzione. Ma attenzione a cosa? Non viene detto altro.

Ci sono stati episodi di momentanea follia, casi di malvagità apparentemente provocati dall'attacco: le uccisioni su un autobus della Greyhound in Tennessee, per esempio, allorché un croato armato di coltello ha sgozzato l'autista, e il pullman ha attraversato due corsie prima di capovolgersi, uccidendo sei persone. Un arabo è detenuto perché sospettato di far parte di un'organizzazione terroristica: si era iscritto a una scuola di volo in Minnesota con l'intenzione di imparare a pilotare grandi jet commerciali, ma non aveva dimostrato alcun interesse per il decollo o l'atterraggio. Abbiamo a che fare ogni giorno con questo genere di cose. Sul giornale leggo che i newyorkesi dichiarano: "Niente sembra normale", "La mia vita è rovinata", "È la fine del mondo". Dan mi racconta quello che stanno facendo gli uomini di John Ashcroft: una classificazione etnica, l'identificazione di tutte le persone di origine mediorientale o nordafricana che riescono a individuare. Si arriverà alla sospensione dei processi regolari, all'annientamento delle tradizionali libertà americane...

Non lo dico, ma sto pensando che John Ashcroft abbia ragione.

Ormai Dan era patologicamente ossessionato dalla sua prostituta cinese, e mi resi conto che sarebbe stato difficile farlo parlare di ciò che era avvenuto prima che la incontrasse: prima dell'11 settembre, cioè – una data che stava rapidamente diventando una sorta di spartiacque nella nostra vita, una linea di demarcazione o, meglio, un punto che precedeva un tempo nel quale il mondo sembrava risplendere in una patina di innocenza, lucidità, salute. E dopo il quale tutto era apparso oscuro, doloroso, incomprensibile, foriero soltanto di segni premonitori ancora più cupi. Era questo lo sfondo nero e incerto della relazione di Dan con quella donna, e io mi sentivo quasi obbligata a rammentare la scena di uno spettacolo a cui avevo assistito: due attori interpretavano un dramma furioso e complicato davanti a uno schermo su cui venivano proiettate enormi figure indistinte, impegnate in azioni distruttive che rispecchiavano – e nel contempo deformavano grottescamente – la tragedia che si svolgeva sul palcoscenico. Ecco, ciò che chiedevo a Dan era una prospettiva più ampia, una visione più aperta delle cose.

Gli telefonai il giorno dopo l'ultimo colloquio, ma non era in casa. Né lo trovai in ufficio. Non lasciai messaggi, ma continuai a chiamarlo ogni ora, finché non mi rispose, a sera inoltrata.

Fu una delle conversazioni più difficili che abbia mai avuto con lui. Mi accorsi subito di una certa resistenza nella sua voce, di una volontà di non parlarmi, neanche al telefono: era estremamente allarmato dalla richiesta di Kim Lee di non avere più niente a che fare con me. Per alcuni minuti, fu brusco e circospetto, e scelsi di essere piuttosto scostante. Aveva o non aveva bisogno del mio aiuto? Dovevo forse pensare che desiderasse interrompere la terapia, che volesse essere lasciato a dibattersi nel pantano di illusioni in cui si trovava attualmente? Pensava di cavarsela da solo?

Avvertii il suo impulso di gridare – "Sì, sì, voglio cavarmela da solo: non mi importa cosa mi succederà, non mi interessa se affondo! Lasciami andare, lascia che affondi senza pensare alle conseguenze, fregandomene del male che mi faccio" –, ma entrambi riconoscemmo che si trattava di uno stimolo infantile. Sì, era una sorta di infantilismo suicida, un abbraccio primitivo e irragionevole dell'istinto di morte: questo fu quanto sentii risvegliarsi in lui mentre gli esponevo le varie alternative che aveva, e l'implicito ultimatum che esse contenevano. Non diede voce a quell'impulso. In fondo, bisogna riconoscere almeno un merito al lavoro in tribunale: una specie di filtro professionale che blocca le pulsioni, le emozioni – le illusioni –, cosicché non si diventa totalmente schiavi delle forze morbose originate dall'inconscio. Conoscevo il mio uomo. Sapevo il modo in cui quelle forze si manifestavano in quel momento, alimentate e rinvigorite da una violenta intossicazione sessuale. Non poteva allontanarsi da me, dalla mia terapia: lasciarmi avrebbe significato lanciarsi in un mare burrascoso senza nemmeno una zattera, senz'altro salvagente che la sua psiche fragile e confusa. No, non poteva farlo. Era una follia anche solo pensarlo – ma lui ci aveva pensato.

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