Copertina
Autore Patrick McGrath
Titolo Spider
EdizioneBompiani, Milano, 2002, Narratori stranieri , pag. 222, dim. 150x210x15 mm , Isbn 978-88-452-5182-5
OriginaleSpider [1996]
EdizionePoseidon, New York, 1990
TraduttoreAlberto Cristofori
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa inglese
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Pagina 9

Ho sempre trovato strano il fatto che riesco a ricordare gli avvenimenti della mia gìovinezza con chiarezza e precisione, mentre le cose accadute ieri sono confuse, e non ho alcuna fiducia nella mia capacità di ricordarle accuratamente. C'è forse qualche procedimento di fissaggio, mi chiedo, per cui il tempo, anziché far svanire i ricordi (come ci si aspetterebbe), fa il contrario - li rende solidi come cemento, l'esatto opposto della poltiglia che mi sembra di ottenere quando cerco di parlare di ieri? L'unica cosa che posso dire con sicurezza - su ieri, cioè - é che c'erano di nuovo persone in solaio, persone della signora Wilkinson - e questa è una cosa curiosa, una cosa che mi è sfuggita fino a questo momento: la persona che gestisce la pensione in cui vivo (solo temporaneamente) ha lo stesso cognome della donna responsabile della tragedia che colpì la mia famiglia vent'anni fa. A parte il nome, non c'è alcuna somiglianza. La mia signora Wilkinson è una creatura completamente diversa da Hilda Wilkinson; si tratta di una donna acida e vendicativa, grande, è vero, com'era grande Hilda, ma senza niente della verve e della vitalità di Hilda, molto più interessata alle questioni di controllo - il che mi riporta alle persone in solaio ieri notte; ma di loro, a pensarci, credo che parlerò un'altra volta.

Mi ci vogliono circa dieci minuti per tornare dal canale alla casa della signora Wilkinson. Non sono un camminatore veloce; vagabondo, più che camminare, e spesso sono costretto a fermarmi di colpo in mezzo al marciapiede. Mi dimentico come si procede, capite, perché non c'è più niente di automatico in me da quando sono tornato dal Canada. Le azioni più semplici - mangiare, vestirmi, andare in bagno - a volte possono porre problemi insormontabili, non perché io sia in qualche modo handicappato, ma piuttosto perché perdo il naturale, fluido senso di essere-nel-mio-corpo che avevo una volta; il legame fra cervello e membra è un meccanismo delicato, e per me spesso, ora, diventa scollegato. Con fastidio di chi mi circonda, devo allora fermarmi e decidere quello che sto cercando di fare, finché lentamente i ritmi di base si ristabiliscono. Quanto più sono coinvolto nei ricordi di mio padre, tanto più frequentemente ciò sembra accadere, per cui suppongo che mi aspettino alcune settimane difficili. In questi casi, la signora Wilksinson si spazientisce con me, e questa è una delle ragioni per cui intendo lasciare la sua casa, probabilmente all'inizio della settimana prossima.

Ci sono altre cinque persone che vivono qui, ma io non presto attenzione a loro. Non escono mai; sono creature apatiche, passive, anime morte come ne ho incontrate spesso oltremare. No, io preferisco le strade, perché sono cresciuto in questa parte di Londra, nell'East End, e benché in un certo senso i cambiamenti siano totali, e io sia un estraneo, in un altro senso nulla è cambiato: ci sono fantasmi ed esistono ricordi che spuntano a grappoli quando getto un'occhiata sotto un ben noto ponte ferroviario, a un ben noto angolo del fiume al tramonto, ai gasometri, che non sono cambiati affatto. I miei ricordi hanno un modo particolare di affollarsi sulla scena e far crollare il blocco di tempo che separa allora da ora, producendo una sorta di identità, una sorta di percorso parallelo di passato e presente tale che ne resto confuso e mi dimentico - tanto ricchi e immediati appaiono - che io sono quello che sono, una ragnesca figura vagabonda, con un vestito rovinato, e non un sognante ragazzo di dodici anni circa. È per questa ragione che ho deciso di tenere un diario.

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Pagina 50

Per qualche ragione mi trovo a pensare alla carbonaia di Kitchener Street. Una volta mia madre inciampò in un topo laggiù, per cui mi faceva sempre scendere al suo posto. Dopo un po', incominciai a scendere senza nessuna ragione, semplicemente presi ad amare il buio e l'odore della polvere di carbone nelle narici, e ancora oggi non mi riesce di annusare del carbone senza ricordarmi la carbonaia, e forse è per questo che ci sto pensando adesso. Il mio olfatto è sempre stato acuto, e mi viene in mente che tutta questa storia dei gas potrebbe avere a che fare con questo - sono ipersensibile, dal punto di vista olfattivo, e ciò potrebbe consentirmi di cogliere sfumature dì odore che forse sono impercettibili per un naso normale, o che magari non esistono affatto. Ma non mi soffermerò oltre su ciò: l'odore è scomparso, probabilmente era un errore, e io sono stato uno sciocco a dargli tanta importanza. Abbastanza stranamente, adesso mi ricordo che odore aveva di solito la strada quand'ero un ragazzo: odore di birra. C'era una fabbrica di birra non lontana dal canale, e per la maggior parte del tempo l'aria era pregna del particolare odore della birra - malto, lievito, o quello che sia. Mia madre lo odiava; non beveva quasi mai - un bicchiere o due di mild al sabato sera - perché per lei il bere era associato all'umore di mio padre. Una volta mi disse, mentre eravamo seduti da soli in cucina, che secondo lei la nostra avrebbe potuto essere una famiglia felice se mio padre non avesse bevuto. Non lo penso; io credo che la crudeltà di mio padre verso mia madre ci sarebbe stata - forse in maniera diversa - anche se non avesse mai toccato neanche una goccia di alcol. Perché dipendeva dalla sua natura, da quello che c'era - o piuttosto non c'era - dentro di lui.

Tuttavia è strano che mi piacesse la carbonaia, perché è lì che lui mi frustava. Ricordo che una volta (non sono sicuro se fosse prima o dopo la morte di mia madre) mi disse di smetterla di far stridere i rebbi della forchetta sul piatto, era qualcosa che lo irritava. Ebbene io lo rifeci e lui uscì dai gangheri. L'oscurità naturale della cantina era sempre piena di polvere di carbone, che ondeggiava nell'aria sotto forma di minuscoli puntini neri - i germi del diavolo, pensavo -, che penetrava negli occhi, nella bocca e nelle narici, perfino nei pori della pelle, e io tornavo sempre di sopra sentendomi annerito da quel luogo, e anche questa era una sensazione gradevole, perché mi piaceva immaginarmi come un ragazzo nero come il carbone, che poteva muoversi nell'oscurità senza essere visto. Ricordo anche i suoni: come scricchiolavano le scale mentre scendevo io e come scricchiavano in maniera diversa quando era mio padre a scendere dietro di me. Poi, oltre allo scricchiolio, c'era lo slacciarsi della cintura - il tintinnio della fibbia e lo sfilarsi del cuoio dai passanti dei pantaloni -, e adesso non riesco a sentire questi suoni senza pensare al dolore, anche se il male delle frustate non era mai brutto come i minuti che lo precedevano: la rabbia di mio padre, il modo in cui digrignava i denti e arricciava le labbra e mi sibilava di scendere in cantina - l'anticipazione, voglio dire, era peggio del fatto vero e proprio.

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Pagina 66

Di nuovo pioggia, oggi. Mi piace la pioggia, ve l'ho già detto? Amo anche la nebbia, fin da quando ero un ragazzo. Con la nebbia mi piaceva sempre andare giù ai docks per ascoltare le sirene antinebbìa che suonavano e si lanciavano richiami l'un l'altra, per guardare le pallide luci delle navi che scendevano la corrente con la marea. Era il manto dell'irrealtà spettrale che mi piaceva, il manto che essa disponeva sulle forme familiari del mondo. Tutto era strano nella nebbia: gli edifici diventavano vaghi, gli esseri umani brancolavano e si perdevano, i segni di riferimento, i punti cardinali, in base ai quali essi navigavano, si scioglievano in niente, e il mondo si trasfigurava in una terra di ciechi. Ma se i vedenti diventavano ciechi, allora i ciechi - e, per qualche strana ragione, io mi sono sempre considerato un cieco - ... i ciechi diventavano vedenti. Mi ricordo che mi sentivo a mio agio nella nebbia, felicemente a mio agio nelle tenebre e nell'oscurità che tanto confondevano il mio prossimo. Mi muovevo rapidamente e con sicurezza nelle strade avvolte dalla nebbia, senza essere visitato dai terrori che stavano in agguato dappertutto nel mondo materiale visibile; restavo fuori il più a lungo possibile con la nebbia. La notte scorsa, mentre sedevo scrivendo nella mia camera nella soffitta della signora Wilkinson, di quando in quando mi sono alzato per stirarmi le membra e fissare la pioggia che scendeva nell'alone dei lampione di fronte, e mi sono accorto di quanto poco fossi cambiato, di come le mie emozioni nella pioggia quel giorno (ieri, voglio dire) erano simili ai sentimenti che provavo per la nebbia da ragazzo. Cosa c'è alla base di tutto questo, mi chiedo, qual è la forza che un tempo spingeva un bambino solitario a uscire nelle strade nebbiose e che ancora esercita la sua attrazione durante le forti piogge vennt'anni dopo? Cos'é che nel confondersi e nell'oscurarsi dei mondo visibile dava un simile conforto al ragazzo che ero allora e alla creatura che sono divenuto poi?

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Pagina 129

Questa faccenda degli schemi di pensiero sembra che sia peggiorata molto negli ultimi giorni. Perché? La luna piena, forsé? Ma no, la luna è solo un'unghia, come la luce sopra la porta d'ingresso. Forse, per qualche oscura ragione le anime morte si sono risvegliate e generano energie cerebrali di un voltaggio insolitamente alto? Ma ho passato un'ora nel salotto dopo cena e non c'era alcun segno di vitalità: forse meno del solito, se possibile - sedevano nelle loro sedie abituali come un gruppo di manichini da sarto, stupefatte dai medicinali, le facce di lardo, le mani tremanti, i vestiti inadatti sporchi di cibo e di bava (Dio come sbavano!), in attesa che comparisse El Mustachio con la cioccolata. Parlo proprio io! Anch'io sbavo, tremo, inciampo e, come sapete, a volte mi scollego; ma che Dio mi aiuti, se diventassi mai una di loro: staccate la spina, per favore, se dovesse succedere; lasciatemi almeno indagare l'enigma della mia infanzia, finché ho la forza di volontà per farlo e, se si esaurisse, allora attaccatemi alla trave più vicina e lasciatemi penzolare come il ragno che sono! Poi entra la piccola donna straniera col vassoio, e questa è tutta la vita che vedremo qui stasera: il minuscolo, fioco fantasma di una scintilla che lotta debolmente per vivere negli occhi spenti dei miei compagni alla prospettiva di una tazza di cioccolata leggera preparata con latte in polvere e densa per lo zucchero che produce questi rotoli di ciccia sulle loro pance e sotto i loro menti.

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Pagina 136

Il primo reparto in cui soggiornai a Ganderhill era quello che chiamavano "un reparto duro". Non era difficile capirne la ragione: non c'era una sola sedia morbida in quel posto (a parte, naturalmente, nella sala del personale, vicino alle scale). Gli uomini dormivano molto in quei reparti, e io non facevo eccezione. Dopo colazione, mi distendevo su una panchina, il legno tutto rovinato da bruciature di sigaretta, e usando la scarpa come cuscino mi appisolavo e tentavo di restare in uno stato comatoso il più a lungo possibile. Chi se ne interessava? Nessuno. Nei "reparti duri" gli uomini erano muti, incontinenti, allucinati. Se non riuscivo a occupare una panchina, mi mettevo semplicemente per terra, sotto una coperta. Nessuno se ne interessava. Eravamo tutti immobili e chiusi in noi stessi, laggiù, e in questo c'era un certo piacere. Quello che non mi piaceva erano i bagni senza porte: non riuscii mai a farci l'abitudine; era un'umiliazione dolorosissima per me sedere sul gabinetto in un bagno senza porta, esposto agli sguardi casuali di chi passava: mi viene in mente adesso che gran parte dei problemi che in seguito ho avuto con l'intestino (che fu spinto verso la schiena e si arrotolò alla spina dorsale dal sedere al cranio, come un serpente) potrebbero essere nati dai disturbi alla funzione escretoria sofferti nel "reparto duro".

Nel "reparto duro" imparai ad arrotolare sigarette "magre" e "grasse": prendevamo il tabacco sul serio lì. È una cosa strana, non importa quanto un uomo sia sprofondato nella malinconia, nella follia - alla deriva, si potrebbe dire, tagliati tutti i ponti con la società -, in qualsiasi caso egli non mancherà mai di prestarvi il suo mozzicone per accendere la sigaretta: non esiste una pazzia talmente grave da escludere dalla comunità del tabacco. Ecco un'altra cosa strana: un uomo ottiene una vera sigaretta da un infermiere, una Woodbine, una Senior Service. Si siede su una panchina a fumare. Lì vicino c'è un altro uomo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, il volto inespressivo, che aspetta passivamente. Al momento giusto, gli viene dato il mozzicone. Lo fuma fino a bruciarsi le dita, poi lo lascia cadere sul pavimento. Un terzo uomo lo raccoglie immediatatnente e, senza preoccuparsi se si scotta le dita, fuma quello che resta.

In un "reparto duro" non ci si aspettava niente da te, se non un fallimento. Eri lì perché avevi già fallito: fallire era ciò che avevi fatto, dovevi fallire di nuovo. In questo, Spider trovava conforto, una certa vigilanza poteva essere allentata. Ciò che lo confortava era l'indifferenza: nessuno si curava di niente, se non veniva danneggiato. La routine era basilare e solida, pochi rozzi paletti per dare forma alla giornata: fare la coda per i pasti davanti al reparto, restarci per venti minuti, poi scendere di nuovo le strette scale, cancelli che sbattevano, chiavi sulle sbarre, le grida degli infermieri lontani, una fila di pazienti grigi con magliette e pantaloni della misura sbagliata [...]

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