Autore Giordano Meacci
Titolo Il Cinghiale che uccise Liberty Valance
Edizioneminimum fax, Roma, 2016, Nichel 72 , pag. 456, cop.fle., dim. 14,6x21x3,3 cm , Isbn 978-88-7521-717-4
LettoreGiangiacomo Pisa, 2016
Classe narrativa italiana












 

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Indice


Mappa di Corsignano e dintorni                           9

Genealogie minime e parziali
variamente riconducibili a Corsignano                   11

I.  La storia singolare del Cinghiale
    che dichiarò guerriglia nei boschi
    tra Corsignano e Budo                               15

II. Il Cinghiale che uccise Liberty Valance

0.  2 dicembre 1999                                     21
1.  29 agosto 2000                                      24
2.  Aprile-agosto 2000                                  26
3.  16 luglio 1999                                      28
4.  Notte tra il 19 e il 20 luglio 1999 (I)             32
5.  6 dicembre 1999                                     36
6.  17 luglio 1999                                      41
7.  4 gennaio 2000                                      74

    [...]



 

 

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Pagina 15

Il respiro curvo del vento e l'asma ghiacciato degli ultimi dèi rimasti ci portano nel cuore pietroso di Corsignano. Pietra e vetro. I sassi che smussarono gli Etruschi fino a ricavarne a strato a strato l'anima nevosa del tufo; le falde spugnose che quasi respirano, sottosuolo, dello stesso sfiatare cespuglioso della Terra: da millenni, prima; da secoli, poi: quando quei luoghi e quelle idee continuate di strade sono diventati vicoli, e incroci, e archi accoglienti, e pareti di sassi: quando le cose hanno preso il battesimo finito dei loro stessi nomi per il persempre ingannevole delle vite di pietra delle case.

E il vetro, ancora; la luce calda del vetro verde uscito in gócciole di fuoco dal forno in muratura del tempo, l'anima antica della vetreria: il campanile in mattoncini appena diroccato sulla punta che si staglia nascosto, e protetto, dalla siepe dei tetti rossi del paese; offrendo la sua smorfia sdentata alle sferzate di tramontana che arrivano dalle conche di bosco del Monte Arlecchino.

Eccola, Corsignano, addormentata e sola sulle colline da cui nasce: immediata, ed eterna della stessa consistenza vaga di cui sono fatte le eternità degli uomini quando le pensano. Appena nata, se confrontata con l'ombra massiccia delle colline intorno, con la vetta morbida del monte infestata degli spettri, vecchissimi, dei fauni e degli gnomi più pacchiani e meno presentabili dell'Italia centrale. Vecchia, invece, dei secoli stanchi del Medioevo più trito, messe in fila tutte le vite che l'hanno preceduta in questo cambio di passo del secolo, alla fine del Novecento difficile, triste, sconsiderato e bellissimo che le si sta per spezzare dentro non solo nel nome.

Eccola che si offre vicolo per vicolo; apparendo improvvisa nelle curve spigolose e veloci mentre il respiro di mistral ci accompagna, e spinge. Θ la foga dell'ultimo figlio che lascia per sempre il Paese – il saluto estremo del nonritorno – quella che ci fa passare a volo la Scesa di Portarossa, e poi l'Arco del Passaggio, fino al digrado ghiaioso delle Fonti, gli sdrùccioli del Ruvello, e poi ancora su, e giù, giù, veloci, ai greti orizzontali del Nardile.

Θ una rincorsa bofonchiata di cinghiale, quasi fosse lo spirito dell'ultimo che lascia Corsignano per non farci più ritorno; l'estremo sogno verticale e sparso del paese, mentre se lo racconta così, stampigliato nella rètina fumosa di un abbraccio, prima di andarsene per sempre, il cuore leggero degli abbandoni, l'ultima fotografia mossa.

Eccolo che corre, il respiro, lungo i vicoli, i chiodi arrugginiti infissi sugli usci stantii delle cose, percorre la nebbia incerta delle case con la consapevolezza fissa di chi, quelle stesse stradelle, le ha attraversate, e vissute: le notti d'estate a cavargli d'impaccio la vita più giovane con il profumo stoppaccioso dei fossi. O la guazza degl'inverni che si sono affacciati sullo strapiombo terroso oltre la Diga, la nebbia a coprire il bar di Vittorio, o il laboratorio dei Bruni: tutti i riferimenti minimi e puntuali di cui sono fatte le vite di ogni paese dacché gli uomini esistono.

Θ l'ultima morte del Paese, dopotutto: e chi la vive sta correndo a perdifiato con la velocità intransigente della luce riflessa della vita appena trascorsa.

Corsignano intera sale per la via del Passaggio e trova gli uomini, e le cose, immobili nella posa ghiacciata di un gesto: uno solo tra i tanti che li hanno scorsi nel tempo: ma sono immagini bloccate e sfumate nella calìgine vetrosa di quando si sogna. Amedeo, le occhiaie a segnargli lo sguardo verso la scritta sghemba della bottega; le dita della mano destra nel taschino stropicciato della camicia di cotone. E, a un passo di cinghiale da lui, suo figlio Andrea, l'ultimo dei Bui, l'occhio azzurro e quello nero a rincorrere un solo punto appena di là dal padre. Poi la salita a brecciolini, e la vecchia Antonia, la camicia nera a segnarle le ossa grandi come fosse un rilievo cartografico del Paese quando ricorda sé stesso: il gatto che la segue verso lo smèzzo di porticato e edera prima della Chiesa Grande, la coda infissa nell'aria stagna della corsa e già passata oltre l'angolo dell'occhio di chi corre. Sembra sia il Paese, a muoversi, mentre la vecchia Antonia rimane ferma. Lei, vedova da così tanti anni che quasi nessuno si ricorda più di quando è stata sposata, quasi nemmeno lo fosse stata mai, sposata, guadagnandosi la nomina vedovile sul campo, eccola che scorre via con un movimento sfocato nel tempo verso don Sebastiano, affacciato alla finestra a oblò del primo piano del Torrione; poi un salto a scivolo lungo gli strapiombi vestiti del bosco, un guizzo di luce e di volo radente che arriva agli Alberi della Strega, alla pelle del viso di Durante Salvani diciassettenne, i solchi sulle guance rossi nel sole tra i rami degli elci. Poi Walter, di poco più grande di Andrea, l'onda nera che l'ha appena travolto intorcigliata a vortice intorno al collo. E Tonino, dei Bruni, il fratello di Giorgio, lo zio di Fabrizio, molti giorni e troppa luce più avanti, nel futuro, o nel passato: si riuscisse davvero a capire cosa sono il passato e il futuro, in questa corsa che serve solo a trattenere il fiato per sé, mentre le persone, e i ricordi che ancora non sono neppure stati, sono tutti fermi, e fissi, nella nebbia slavata delle loro ultime pose.

Quasi Corsignano fosse una Brigadoon mangiata dalla nebbia, mentre la corsa veloce precede lo sguardo e forse lo accompagna e lo attende, rancorosa, voltandosi indietro a fissarti, come nei ricordi più luminosi di quando si è bambini, dài, dài, sbrìgati, dopotutto c'è tutta la vita, c'è tutto il tempo, bisogna sbrigarsi a rincorrerlo prima che finisca, mentre le parole letteralmente si mangiano l'errore nel momento esatto in cui si manifesta. Spietato, e innaturale; come la vita.

C'è così tanto da dover ricordare, così tanto da trattenere prima che l'ultima fine sia davvero finita. Gli sforzi biologici e ottusi dello slancio – la corsa a perdifiato, la spazzata di vento che solo i cretini o i troppo illusi (gli esseri umani alla fine, vìa) potrebbero credere eterna, e a forma di anima. Ma invece è solo l'estremo sforzo di vita, il grumo di sangue che passa da un occhio all'altro di un cinghiale mentre muore, probabilmente. O quantomeno ci prova.

Fosse questa e questa soltanto, la vita? Lo sforzo di luce che proviamo a portarci via, senza riuscirci, tutte le volte che moriamo.

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Pagina 49

A pochi metri da don Sebastiano, che mormora a mezzabocca – forse confidando in una qualche telefonìa soprannaturale – ma che fanno... che 'ffanno... fino a convincersi ad alzare la voce in un più perentorio «ma insomma e' ffàteli finire, no... ...?», Amedeo costringe il quartetto a un minimo movimento laterale della bara. Contro il giorno, il sole si va velando di una grata lanosa di cirri: e il vento cala. Il ventaglio della Firmina letteralmente si frantuma, esplodendo in particole colorate di carta a fiori di mandorlo. «Va' va'...», gl'intima la madre. E, adeguandosi a un volere assoluto di cui si aspettava il mònito e la ratifica, il cordone principale del funerale arretra verso il costone e lascia così un tratto di provinciale libero per la fuga, confusa, della Guzzi California di Adelmo. Avrà tempo – si dice – per riflettere sull'umiliazione dello scandalo. Ora il bisogno primario è allontanarsi da lì: curva sulla destra senza incrociare lo sguardo giudicante di don Sebastiano e della famiglia di Agnese e di Walter, in particolare. Anche perché la malattia del vecchio Osvaldo e la pochezza ingestibile di Salvo fanno del più giovane dei Malpighi l'unica presenza intima di Agnese.

Salvo Malpighi, suo padre, ha pensato di non presenziare al funerale. Per troppo dolore, ha detto a Corsignano: «E' 'un ce la fo». Quando Osvaldo l'ha saputo, quella mattina, ha detto al nipote «l'unica cosa che davvero mi nuoce, prima ancora di morire presto, è essere accomunato nel gesto a quel coglione d' 'i 'ttu' babbo». Un altro punto a sfavore dei Malpighi; che Walter sopporta con il rigore dell'orfano doppio: il dolore per sua madre Agnese, morta; e il dispiacere puntuto per suo padre, vivo.




Forse attirati dal rumore, o più probabilmente immalinconiti dall'evidenza del corteo, i morti di Corsignano cominciano ad affacciarsi dai cespugli che si stampigliano lungocollina dal Ruvello giù verso il ponte di muro sul Nardile; oppure escono da qualche anfratto terroso tra le crete spaccate dei campi smossi, si alzano in piedi dalle loro posizioni sdraiate e strategiche tra i fili d'erba e le spighe di forasacco. Il funerale, per loro, ha il fascino pesante delle domeniche pomeriggio di festa, il primo autunno, un càrdine di giostra con i bambini intorno, gli occhi sgranati per nulla in particolare, la promessa di felicità che ancora li sostiene, il prodigio dell'infanzia ciclicamente rinverdito dal solito drappello di furgoncini volkswagen, o fiat, gli stessi banchi refrigerati, lo sfrigolìo sommesso delle friggitrici professionali, la pressione idraulica nelle carrozzerie preparate come piccoli guggenheim di paese per girandole, bustrengoli, bastoncini di liquirizia, canditi industriali confezionati in qualche oscura fabbrica alimentare di Dόsseldorf, o di Frankfurt: magari gli stessi operai partiti per lavoro che restituiscono al paese d'origine la versione caramellata e dozzinale degli zuccheri saturi che l'emigrazione li ha costretti a sopportare, negli anni, bombe idrogenate che li porteranno alla morte e al ritorno, probabilmente, sottoforma di salme truccate per l'occasione, nel cimitero dei loro padri. E tra loro ce n'è qualcuno, magari; tra questi spettri pieni di rimpianti che ora si allagano tra i cretti e lungo le siepi di bosso, nemmeno in grado di tenersi per loro le more migliori che puntellano i rovi, tutto un eterno ricordo di piccole meraviglie perdute, la vita, a guardarla da quello stesso tedio invalicabile che li ha posseduti da vivi, dovunque fossero, qualsiasi fosse l'obbligo che li aveva visti camminare avantindietro tra la Chiesa Grande e il Monumento ai Caduti, le puntate oltresiena uguali ai viaggi in crociera per i venticinque anni di matrimonio, gli stessi luoghi interdetti alla comprensione, se non sono ricondotti al giàvisto di ogni giorno, se non lasciano margine a sprazzi di luce che possano essere ricondotti al noto e quindi memorabili, trasformabili in ricordo da raccontare per chi non c'era.

Guardàteli mentre raddoppiano il corteo funebre in file sparse, l'episodio di Adelmo già dimenticato, catalogato tra le bizze del caso che di solito si ascrìvono ai vivi con inchiostri sempre meno rintracciabili, ogni volta il ricordo si fa più pallido, e sbiadito, quasi le contingenze larvali che assalgono i morti fossero solo la resa disfatta di una qualche certezza più solida, e antica, che li ha visti un tempo – un tempo lontanissimo, impalpabile: talmente lontano e stanco da sembrare, quasi, non essere mai esistito – e che però li ha visti, in qualche modo tutti loro ne hanno una domestica consapevolezza, felici, controsole, ad augurarsi che quell'attimo sospeso di gioia, quel solo momento di splendore per cui era valsa la pena, almeno una volta, essere vivi, non finisse mai.

Eccoli che attorniano la coda ultima del funerale coi loro passi trasparenti e leggeri. Si accalcano nel modo in cui possono farlo i fantasmi del tempo, una brezza di luce che svìrgola tra le diplopie calde dell'estate, tutti in attesa di qualche traccia nuova che possa confermarli nella loro consistenza illusoria di essere un qualche retaggio delle colline; o del paese. Guardàteli mentre si commuovono – Amedeo, la bara che entra per il cancelletto in ferro battuto, il ghiaino che sgrìgliola sotto le scarpe a cadenzare una marcia funebre per raspa e percalle, sembra quasi accorgersi di loro, per un attimo, un brivido freddo saetta nel sudore e lo riporta, paradossalmente, al presente faticato che lo contiene – e però davvero nessuno li vede, né si ricorda di loro se non come mucchio, o legione, le definizioni che spesso s'attagliano al male, o all'inferno inutile dei dimenticati, e che per questo lo rinnovano, l'inferno, senza prendersi la briga di discernere, lutto per lutto, nome per nome, il chi dal chi, quasi non fosse questo, dacché la Storia esiste, l'unico discrimine tra le bestie e gli esseri umani, il battesimo di un nome che non lasci sola, e persa, la storia di ognuno di noi, come fossimo sassi del Nardile nemmeno buoni per costruirci le case (ché poi il segno riconoscibile di un nome lo si affida anche alla memoria dei cani, e dei gatti: dei porci e delle galline, talvolta, figurarsi degli uomini che sono stati); che anche questa è poi la differenza tra chi ha avuto in sorte di segnarsi per nome e chi no; chi ha imparato a leggere e a scrivere nei secoli e chi no, abituato a disegnarsi tra i rilievi del tempo della stessa figura dei temporali, e dei boschi, senza neppure il conforto di storie che non prevedessero, sempre, l'incertezza orale e smemorata dei si dice. Sfilano via appena l'ultimo dei corsignanesi vivi entra nel cimitero, i fantasmi in crocchio che hanno accompagnato la bara fino all'entrata. Avviliti dalla loro stessa infestazione provinciale, da quella costrizione che li rende così strettamente legati allo stesso luogo, per sempre, quando in realtà i fantasmi – come tutti, vivi o morti che siano – vorrebbero certo infestare i luoghi dove non sono mai stati, non quelli dove sono stati sempre, preferirebbero essere miraggi di luce in giro per le scogliere dell'Irlanda, o per le paludi che hanno visto solo nei fumetti di Zagor, a bere sui lungomare delle Keys, a fissare i tramonti di cenere e oro dell'Africa del Sud, i raggi verdi dell'Oceano Indiano: a che serve frequentare, da morti, quel calore tiepido e accogliente che ci ha evitato da vivi, si chiedono, mentre si rincantùcciano tra gli spigoli liquidi dell'iride e fluttuano – prima un barlume, poi più niente – di là dalle mescolanze degl'infrarossi, nascosti anche a loro stessi, se non ci pensano. Ché questi sono perlopiù fantasmi du pays, larve gregarie; tutte cazzate le scosse livellatrici da trapasso. Anche nella morte c'è una gerarchia.

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Pagina 103

10.
3 GENNAIO 2000





Se è vero quello che pensa la Ronconi, mi sono mangiato mio fratello,


dice Andrea alla coppia di iridi che lo guardano, a turno, dallo specchio. E che vorrebbe dire, allora, che un occhio è mio e che l'altro— si accorge dell'assurdità dell'èsito del pensiero distogliendo lo sguardo dal sé che s'è appena spaventato. Fa addirittura un cenno di no con la mano destra. Quando il pensiero gli continua in «e allora quale occhio è, quello azzurro o quello nero?»

Invece. Con calma. Amedeo e Bella — suo padre e sua madre è dire troppo al troppo, in questo momento — si sono seduti sul divano, uno accanto all'altro, dopocena, mezz'ora fa, trentacinque minuti fa, quello che è. E insieme — lui, Andrea, sulla seggiola nera della tavola ancora apparecchiata, ancora fa in tempo a ricordarsi le briciole di sciapo sparse sulla tovaglia, il bicchiere unto dalle manate del padre, in questo sì, perfettamente suo padre, una fetta di torta al cioccolato nel piatto, nonfinita – gli hanno raccontato, Amedeo e Bella (di concerto con la Ronconi della ASL, eh?... ci hanno tenuto a precisarlo, non è che loro accusano il figlio di cannibalismo prenatale così a cazzo, no no, proprio hanno voluto il placet della Ronconi, per accusarlo, la Ronconi che lui avrà visto tre, quattro volte in tutto negli ultimi dieci mesi) gli hanno appena raccontato che è molto probabile che i suoi sensi di colpa improvvisi, le sue smanie sempre... sempree... – Bella cercava l'innesco meno pericoloso per «scazzi incontrollati», ma non l'ha trovato – insomma tutta una serie di sintomi che ha riscontrato la Ronconi (riscontrato è di Amedeo, comunque pensieroso e distratto in modo differente da sua madre, in questo sì perfettamente sua madre, Bella), tutta una serie di sintomi che potrebbero farci pensare aaaa... (anche l'allungo stavolta è di Amedeo).

Insomma. «Succede». Poi tutta quella faccenda dell'uno su dieci, dei mille di Corsignano.

Il fatto vero è che lui, Andrea, potrebbe – potrebbe – essersi divorato il gemello di partenza nell'utero di sua madre.

Da qui – perché, ha spiegato la Ronconi ai suoi, «da un po' di anni l'attività psichica del feto è monitorata con attenzione» – la possibilità che Andrea viva «un parossismo di crisi adolescenziali a causa di un senso di colpa difficilmente identificabile ma presente a livello inconscio». Una cosa naturale, di cui – qui Bella ci ha tenuto a ribadirlo – Andrea non ha nessuna colpa.

Mentre i suoi gli parlavano, la sacher in punta di forchetta portata alla bocca, Andrea avrebbe voluto esplodere: «Da chi, eh? Da chi cazzo viene monitorata la psiche di uno stracazzo di feto?» Cos'è (nell'immaginazione non balbettava mai, mai), avrebbe voluto urlargli in faccia – in questo finendo con l'avvalorare le tesi della Ronconi e dei suoi, perciò s'è imposto di trattenersi – hanno preso un ovulo psichiatra e l'hanno iniettato negli uteri per fare qualche intervista ai gameti? Ma che cazzo dice, la Ronconi? Eh?

Non l'ha fatto, però. Non ha urlato. Ha solo fatto cenno di sì. Senza confermare né smentire le chiacchiere di contorno – e di conforto – che erano seguite per mezz'ora. Più o meno.

Solo che adesso, nella sua camera, perfettamente consapevole degli sguardi compiaciuti di Amedeo e di Bella nell'altra stanza; sguardi di genitori pazienti e partecipi che gli avrebbero fatto spaccare a calci la testiera del letto, solo a pensarci. Ora, Andrea. Riflette sul sogno che lo rincorre fin da quando ha memoria. Lui che si trova in una delle case della sua vita (questa in cui vive, quella di suo nonno il babbo di Amedeo, o la casa di Durante) e passa di stanza in stanza con un senso capestro di terrore. Ogni volta il sogno è lo stesso: lui sa di essere precipitato nel suo sogno ricorrente, sa che è così ma non ricorda, mai, qual è il sogno. Finché non lo trova. Finché non si trova, in realtà. Un sé stesso identico che lo guarda con occhi cattivi – questo è il tremore che gli viene sempre, da sveglio: sta tutto in quell'aggettivo lì, perché da sveglio si ricorda sempre qual è il sogno, la consapevolezza scompare solo mentre dorme, all'inizio – trova sé stesso e cerca di uccidersi, con quell'altro Andrea che gli viene addosso e cerca di ammazzarlo. E ogni volta si sveglia mentre fanno a pugni, senza mai – mai – sapere chi ha vinto, dei due.

Solo che. Ora. Per la prima volta dacché si sogna. Andrea si rende conto che l'altro sé stesso ha gli occhi cattivi e azzurri. Tutt'e due azzurri e luminosi e lucidi e cattivi. Come il riflesso sul ghiaccio del Nardile; appena prima che lo crepi in acqua il primo sole della primavera.

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Pagina 111

«Lascia che l'arte fluisca in te...»

«L'arte un paio di coglioni, Andrea... E quanto la vòi sona' sta smortìa...»

«Ma come?», Andrea si gratta la maglietta grigia contro la corteccia del Pino. I capelli cortissimi e dritti sulla testa sono pieni di rèsina; come la schiena: ma non sembra farci caso. Anzi, sul peso leggero della domanda ancora inconclusa chiude gli occhi e si gode il tremolio momentaneo del pianeta sotto il suo culo.

Se Dio si affacciasse per un attimo dal ciglio spumoso dei cirri in movimento, di là dall'orizzonte frastagliato di Monte Arlecchino, oltre a dare una gigantesca, improvvisa, luminosissima e incredibilmente inquietante prova della sua esistenza, vedrebbe con il suo sguardo acuto e onnicomprensivo due ragazzi – Durante Salvani e Andrea Bui: in questo ferragosto di finesecolo, calcolando la giunta bisestile, rispettivamente di diciassette anni, otto mesi e ventiquattro giorni il primo: moro, quasicalvo, punteggiato dall'acne e dalla varicella come fossero battesimi epidermici di ogni suo picco nevrotico e umorale; a tre giorni dai suoi quattordici anni il secondo: i capelli castano chiari tracciati di rèsina, a spazzola, un'eterocromia delle iridi congenita che gli conferisce, da sempre, un'idea stevensoniana di doppiezza al tempo stesso solare e preoccupante; apparentati entrambi da una cuginanza prima e carnale: perché il padre del primo e la madre del secondo sono fratelli, Salvani entrambi: Alighiero e Bella, rispettivamente: tutt'e due portatori di quei cromosomi comuni che hanno, però, regalato a Durante una vita di inadeguatezze e di amori sfioriti sul nascere; di desideri appagati solo in virtù di una certa, sciarmante simpatia nera e disperata in grado di supplire alle mancanze innegabili (eppure affascinanti, ricordiàmolo) del fisico; e ad Andrea, invece, un carisma involontario di sovrana imperfezione (il naso troppo largo e schiacciato, l'attaccatura asimmetrica dei capelli, un eccesso di magrezza costante alternata a periodi di imbolsimento spurio che, al primo impatto, lasciano disorientati e con un senso vago di malattia leggera in agguato) che però, fuso e anzi sottolineato dalla meraviglia cangiante degli occhi, rende il secondo tra i due del blocco Salvani (mica vorremo appellarci alla banalità nominale del cognome paterno, per sottolineare la tirannìa inarrivabile della biologia?) assolutamente sereno; e disposto all'esistenza e all'amore con la gratuità solare del suo genio (perché di questo anche, si tratta, nel caso di Andrea) ancora inappagato e fuorimira; e della leggerezza smemorata e colpevole (perché incomprensibile a chi càpita come un presente fortuito) della propria bellezza negli anni – li vedrebbe, questo Dio incerto sulla soglia, in una tacca precisa del tempo; in un secondo di consapevolezza estrema che in qualche modo li riguarda ma di cui non hanno nessuna coscienza.

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