Copertina
Autore Guido Melis
Titolo Impiegati
EdizioneRosenberg & Sellier, Torino, 2004, Storia del lavoro , pag. 216, cop.fle., dim. 165x240x15 mm , Isbn 978-88-7011-924-4
CuratoreGuido Melis
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe storia sociale , lavoro , economia
PrimaPagina


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Indice


  7 Introduzione
    Angelo Varni

 11 Continuità e fratture nella storia novecentesca
    del pubblico impiego: una chiave di lettura
    Sabino Cassese

 15 Gli impiegati pubblici
    Guido Melis

 77 I lavoratori dell'impiego privato
    Giovanna Tosatti

125 Le donne negli uffici (1863-2002)
    Patrizia Ferrara

163 La privatizzazione dell'impiego pubblico
    Angelo Mari

201 Gli studi storici sugli impiegati


 

 

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CONTINUITÀ E FRATTURE NELLA STORIA NOVECENTESCA DEL PUBBLICO IMPIEGO: UNA CHIAVE DI LETTURA

Sabino Cassese


Si ripete, per il pubblico impiego, una vicenda nota alla storia amministrativa: le cesure politico-costituzionali passano per lo più senza effetti, mentre altre cause producono le fratture rilevanti per il personale pubblico. Cerchiamo, dunque, i fattori di continuità e di frattura, tenendo bene presente questa avvertenza.

Il primo e più importante elemento di continuità, per l'intero secolo XX, è costituito dal carattere secondario del pubblico impiego. Questo resta sempre in basso nell'opinione pubblica, che o non se ne interessa, o se ne interessa per criticarlo. L'impiegato pubblico è una figura poco stimata. Se è vero che molti aspirano ad entrare nell'impiego pubblico, è vero, altresì, che la spinta non viene dal prestigio che vi si connette, bensì dalla sicurezza che esso dà.

D'altra parte, l'impiegato pubblico non ha grandi poteri, appare sempre uno strumento in mani altrui. E, nonostante il fiorire in certi momenti (specialmente l'età giolittiana e gli anni Settanta) di movimenti riformatori interni, gli impiegati appaiono un corpo al rimorchio, che non riesce mai ad imporsi, o per far valere le qualità che pure vi sono, o per richiedere un impegno politico e sociale di riforma.

Questo primo elemento di continuità è legato al secondo. Il primo riguarda il posto dell'impiegato nella società. Il secondo attiene al ruolo da lui giocato nella politica. Che è un ruolo ambiguo, perché unisce tendenza a tenersi da parte e servizio della politica. La prima non riuscendo mai ad assicurare un'autentica e piena neutralità. La seconda non scadendo mai nell'asservimento.

Due lunghi periodi del secolo, il fascismo e il lungo regno della Democrazia cristiana, di venti e di cinquanta anni, non riescono a intaccare questa posizione ambigua, che si nasconde dietro alle regole del diritto (anche se nello Stato di diritto la burocrazia non ha mai creduto a pieno), per difendersi dalla politica, o servirsene, o servirla, a volta a volta, a seconda dei casi e dei giochi delle convenienze.

L'incerto o basso profilo sociale e l'incostante relazione con la politica trovano una base, per tutto il secolo, in un terzo fattore di continuità, probabilmente quello principale, legato alla struttura sociale e territoriale dell'impiego pubblico. È uno dei temi più studiati e più sfuggenti. Ha le sue basi nella provenienza meridionale della maggioranza degli impiegati.

Trova la sua manifestazione nel «familismo amorale», nella concezione dello Stato come datore di lavoro e fattore di occupazione più che come servizio pubblico. Produce il rifiuto di ogni intervento nella carriera, il meticoloso rispetto dell'anzianità, l'opposizione ad ogni tentativo di introdurre un fast stream che modifichi l'equilibrio raggiunto con l'età.

La spiegazione di tutto questo è sociale. L'impiegato pubblico proviene da regioni dove sono poche le possibilità di occupazione, e tutte dominate dal privilegio o dalla politica. Fatto il proprio bravo concorso, non vuole nessun intervento nel meccanismo automatico di carriera dominato dall'anzianità.

Basso profilo sociale, ambiguo rapporto con la politica, atteggiamento difensivo e chiuso producono, tutti insieme, una sclerosi dell'amministrazione che sarà all'origine della quarta costante dell'impiego pubblico nel secolo o, la continua fuga dallo Stato, o per dislocazione altrove (a partire dagli enti di Beneduce sino alla Cassa per il Mezzogiorno, agi enti pubblici economici, che adottano tutti formule di disciplina del rapporto di lavoro diverse da quella statale), o semplicemente per estinzione (si pensi soltanto agli ingegneri del Genio civile). Le parti migliori escono dall'impiego pubblico, per andare o in zone vicine, oppure nel settore privato, dal quale le amministrazioni pubbliche dovranno, poi, acquistare i servizi che esse non riescono a produrre all'interno, per l'assenza del personale idoneo.

Sotto e accanto questi quattro fattori di continuità corrono, però, nel corso del secolo, e principalmente verso la fine, fratture e discontinuità.

In primo luogo, se il pubblico impiego è un «mondo gnomo», vi sono, di tanto in tanto, persone di alta statura. E queste sono all'origine delle «colonie» prodotte dalla fuga dallo Stato, da Beneduce a Pescatore. Dunque, la burocrazia è salvata da questi personaggi, che tradiscono, però, la burocrazia, per andare a fondare altre strutture, meno burocratiche e più efficienti. Ciò che produce policentrismo, difformità organizzativa, competizione. Ma causa anche conflitti tra vecchie e nuove burocrazie, che finiscono per estenuarsi in lunghe guerre di posizione.

In secondo luogo, quello che né il fascismo, né la Democrazia cristiana avevano tentato, viene realizzato, con perfetta consonanza, dal governo di centro-sinistra del 1998 e da quello di centro-destra del 2002: la riduzione del vertice burocratico (i circa cinquemila dirigenti) a personale doppiamente precario, perché soggetto a rinnovo al passaggio dei governi, e perché nominato nella carica per una durata molto più breve di quella dei governi. Se prima, quindi, poteva dirsi che i governi passano e la burocrazia resta, ora deve dirsi il contrario.

Il terzo cambiamento è quello della progressione femminile nell'impiego pubblico. Iniziato con l'istruzione, continua con la giustizia e si diffonde, anche se in misura minore, nei ministeri. La femminilizzazione, avviatasi negli anni Settanta, è un fenomeno socialmente importante, amministrativamente pericoloso. È socialmente importante perché fa divenire, finalmente, lo Stato più «rappresentativo» della società. È, però, anche un sintomo pericoloso, perché è il segno della parziarizzazione del lavoro pubblico: in una società con poche strutture di appoggio, il lavoro pubblico consente orari ridotti, che permettono al personale femminile di dedicarsi anche alla cura dei figli e della famiglia.

Il quarto cambiamento è costituito dal rallentamento, sul finire del secolo, della crescita delle dimensioni del pubblico impiego. Blocchi delle assunzioni e rallentamento del turn over producono questo contenimento, non vistoso negli uffici, ma cospicuo nella società, perché questa deve privarsi dei consueti sbocchi occupazionali per i suoi figli.

Anche uno sguardo rapido come questo mostra il peso limitato che hanno, nella vicenda storica del pubblico impiego, le modificazioni indotte da leggi: ecco un'altra avvertenza che i giuristi, a cui la storiografia di questa materia è stata in larga parte lasciata, dovrebbero tenere in conto.

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GLI IMPIEGATI PUBBLICI

Guido Melis


1. Miserie e virtù di Monsù Travet.

Torino, fine marzo del 1861. Il Regno d'Italia è stato appena proclamato, Vittorio Emanuele è il primo re dell'Italia unita. Di lì a poco il conte di Cavour, che al momento dell'unificazione ha rassegnato le dimissioni del gabinetto, presenterà al Parlamento il suo nuovo ministero. Morirà, all'improvviso, il 6 giugno di quello stesso anno.

Una società borghese, al maschile ma anche al femminile, sobriamente elegante, mediamente colta, curiosa di novità, affolla i lunghi porticati del centro, si spinge sino al Po, sciama davanti Palazzo Carignano o nel grande spazio di Palazzo Reale, popola vociante i caffè di piazza San Carlo, forse segue avidamente sulla «Gazzetta del popolo» o sull'«Opinione» l'epopea ancora recente del Risorgimento. Se si presta attenzione non è difficile distinguervi – inconfondibili – gli impiegati del Governo, quelli che neppure due anni dopo la fortunata commedia in dialetto piemontese di Vittorio Bersezio (debutto al Teatro Alfieri, 4 aprile 1863) racchiuderà nel tipo universale del travet: atteggiamento composto, quasi umile; postura lievemente ingobbita; sguardo sfuggente dietro le lenti spesse da miope, gli occhi affaticati dalle lunghe ore alla scrivania; abbigliamento modesto, uniforme, in grigio; toni della voce bassi, monotoni; opinioni per lo più moderate; fedeltà assoluta alle istituzioni monarchiche, senso spiccato della famiglia, della religione, dello Stato. È un ritratto proverbiale, come memorabili resteranno «le miserie» di Monsù Travet: la sua perenne tensione tra aspirazioni di escalation borghese e grama realtà di uno stipendio perennemente insufficiente, la dolorosa distanza che divide l'essere dall'apparire. Se si guarda con maggiore attenzione l'istantanea del 1861 non sarà difficile cogliervi i piccoli, quasi impercettibili segnali rivelatori di quelle persistenti «miserie»: l'austera finanziera, pure indossata con sussiegosa importanza, è forse lisa in più punti; il cilindro è probabilmente ammaccato e consunto; il gilè non è proprio all'ultima moda di Parigi; le scarpe, grosse, quasi alla contadina, non sono mai completamente lucide.

Spesso quell'impiegato parla un italiano misto al dialetto di Torino, un composto tra lessico familiare subalpino e vocabolario burocratico ante litteram; talvolta, specie se è un alto burocrate, scrive la sua corrispondenza personale in francese, la lingua del resto ancora adesso più congeniale alla corte, al Re, allo stesso Cavour. Gli impiegati del primo decennio sono per lo più piemontesi, con qualche timido innesto dalle province appena annesse del Centro-Nord. I meridionali dell'ex Regno dei Borboni difficilmente si trasferiscono a Torino. Alla fine di quel 1861 il ministro dei Lavori pubblici Miglietti dovrà ammettere alla Camera che dei suoi 108 dipendenti dell'amministrazione centrale solo 3 sono «napoletani». Dirà con rammarico:

Nel fare l'ordinamento del mio Ministero io ho contemplata la venuta di questi napoletani, che io desiderava, che chiamava, che pregava perché venissero, ed ho per questo lasciato vacante un posto di capo di divisione, ho lasciati vacanti due posti di capo sezione, ho lasciati vacanti ancora più altri posti, e ciò sempre nell'intendimento di nominare a questi posti impiegati napoletani [...]. A quanti io ho fatta la proposta di venire impiegati al Ministero a Torino, tutti mi risposero: per carità, datemi un posto qualunque, ma a Napoli; datemi anche un posto inferiore a quello che ora occupo, ma in Napoli, poiché io assolutamente non posso andare a Torino.

Settentrionale, filo-sabaudo, tendenzialmente conservatore, il burocrate della nuova Italia è stato addestrato essenzialmente ad eseguire senza discutere. Reclutato senza particolari prove, è entrato negli uffici ministeriali come semplice «volontario», per un periodo di tirocinio gratuito più o meno lungo (al minimo due anni) nel quale ha soprattutto svolto la funzione ripetitiva del copista, assoggettandosi ad estenuanti turni di straordinario. Quindi ha potuto iniziare la lenta escalation nella scala gerarchica, dai gradini più bassi (l'applicato di 4a, 3a, 2a, 1a classe) a quelli intermedi (il segretario delle varie classi, poi il caposezione), a quelli più elevati (il capodivisione) sino – eventualmente – alle posizioni di vertice (il direttore generale, il segretario generale). Un sistema misto di promozioni, per anzianità e per merito, garantisce lo sviluppo della «carriera»: un passo dopo l'altro, man mano che si liberano i posti immediatamente superiori (il sistema è detto perciò «a ruoli chiusi»), senza mai salti imprevisti né accelerazioni eccessive: il futuro è scritto negli annuari e nei Calendari generali del Regno, i grandi libroni che gli impiegati consultano febbrilmente per conoscere in anticipo le vacanze dei posti da cui dipenderanno le eventuali promozioni.

Nessuna scuola di formazione, come invece nel quasi coevo modello francese (le grandes écoles), ma solo l'apprendimento «sul campo», attraverso il tirocinio pratico e l'imitazione pedissequa dei colleghi più anziani. La scala retributiva è cadenzata su quella gerarchica: ogni avanzamento di grado corrisponde ad un'elevazione nello stipendio, ogni grado o frazione di grado a un piccolo incremento nella paga. Un sistema di microincentivi (economici, ma più spesso morali, come sono gli encomi scritti e le onorificenze) interviene a incoraggiare le prestazioni. Rigorosissimi sono i controlli disciplinari, che si estendono ben oltre l'ufficio, sino ad investire in pieno la privacy del dipendente, la sua vita sociale, familiare, affettiva. Per essere ammesso agli impieghi ci vuole la dichiarazione favorevole del prefetto e quasi sempre anche quella del parroco, che attesti le virtù della famiglia di provenienza. Una volta assunti, le «note segrete», vergate di propria mano e in assoluta discrezione dai superiori sul fascicolo personale dell'impiegato, costituiscono la base delle eventuali future promozioni o dei lunghi «purgatori» in collocazioni disagevoli e sgradite. Parole chiave come «diligenza», «negligenza», «assiduità», «decoro», «obbedienza», «abnegazione» assumono nel vocabolario dell'amministrazione una posizione preminente. Il regime delle punizioni è severissimo, articolato in una casistica minuta che lascia intravedere le maglie di una repressione pronta, pervasiva, inesorabile. I doveri superano di gran lunga i diritti: gli uffici — sancisce già il Regolamento Cavour del 1853, atto fondativo del sistema amministrativo sabaudo, poi travasato senza soluzione di continuità in quello postunitario — sono aperti tutti i giorni, anche quelli festivi, sia pure in questo caso nell'orario ridotto 9-12. Un impiegato a turno dovrà assicurare la sua presenza durante una o più ore del giorno prima dell'entrata e dopo l'uscita dei colleghi. Spetta ai dipendenti accendere ogni mattina la grande stufa che assicura il riscaldamento, e tenere puliti i locali. Il lavoro straordinario, a totale discrezione dei capi, è la norma.

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