Copertina
Autore Herman Melville
Titolo Moby-Dick o La Balena
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2010, Letterature , pag. L+938, cop.fle., dim. 11,7x19x6 cm , Isbn 978-88-02-08159-5
OriginaleMoby Dick; or, The Whale [1851]
CuratoreGiuseppe Natale
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe classici statunitensi , mare
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Indice


  XIII  Prefazione di Giuseppe Natale

XXXIII  Il testo di Moby-Dick

 XXXIX  Cronologia


  3  Etimologia

  5  Passi scelti

 21  Capitolo   1 - Apparizioni lontane
 29  Capitolo   2 - La sacca da viaggio
 34  Capitolo   3 - La locanda della baleniera
 54  Capitolo   4 - Il copriletto
 60  Capitolo   5 - La colazione
 63  Capitolo   6 - La strada
 67  Capitolo   7 - La cappella
 72  Capitolo   8 - Il pulpito
 76  Capitolo   9 - Il sermone
 89  Capitolo  10 - Un amico del cuore
 95  Capitolo  11 - La camicia da notte
 98  Capitolo  12 - Biografico
102  Capitolo  13 - La carriola
109  Capitolo  14 - Nantucket
112  Capitolo  15 - Zuppa di pesce
117  Capitolo  16 - La nave
136  Capitolo  17 - Il Ramadan
144  Capitolo  18 - Il segno di Queequeg
150  Capitolo  19 - Il profeta
155  Capitolo  20 - Fermento generale
159  Capitolo  21 - Si sale a bordo
164  Capitolo  22 - Buon Natale
170  Capitolo  23 - La costa sottovento
172  Capitolo  24 - L'avvocato patrocinatore
179  Capitolo  25 - Poscritto
181  Capitolo  26 - Cavalieri e scudieri
186  Capitolo  27 - Cavalieri e scudieri
192  Capitolo  28 - Ahab
197  Capitolo  29 - Entra Ahab; Stubb si rivolge a lui
202  Capitolo  30 - La pipa

     [...]


783  Capitolo 132 - La sinfonia
789  Capitolo 133 - La caccia: il primo giorno
802  Capitolo 134 - La caccia: il secondo giorno
814  Capitolo 135 - La caccia: il terzo giorno

831  Epilogo

833  Note

921  Bibliografia


 

 

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Pagina 21

Capitolo 1

Apparizioni lontane


Chiamatemi pure Ismaele. Alcuni anni fa (quanti, esattamente, non ha importanza), non avendo il becco di un soldo nel borsellino e nulla di particolarmente interessante che mi trattenesse a terra, pensai di imbarcarmi per vedere un po' il mondo delle acque. È il mio modo di scacciare il malumore e di regolare la circolazione. Ogni qualvolta sulla mia bocca si disegna una smorfia corrucciata e nella mia anima si forma un'uggia piovigginosa, umida, novembrina; ogni qualvolta, senza accorgermene, mi fermo a rimirare i depositi di casse da morto e mi accodo a tutti i funerali che incontro; e, soprattutto, ogni qualvolta le mie malinconie hanno la meglio su di me, al punto che devo far appello ai miei più saldi principi morali per non scendere in strada a buttar giù il cappello a tutti i passanti, uno a uno, allora capisco che è giunta l'ora di prendere al più presto il mare. Per me è l'equivalente della pallottola e della pistola. Catone, con elegante gesto filosofico si getta sulla spada. Io, più sobriamente, m'imbarco. Non vi è nulla di sorprendente, in tutto ciò. Se solo lo sapessero anche gli altri uomini, a modo loro, prima o poi nutrirebbero verso l'oceano più o meno i miei stessi sentimenti.

Questa davanti a voi è la città dei Manhatto, situata su un'isola circondata dai marosi del commercio e cinta dalle banchine, così come le isolette dell'Oceano Indiano lo sono dalle barriere coralline. Tutte le strade, a destra e a sinistra, conducono all'acqua. L'ultimo lembo del centro cittadino è la Battery, il cui nobile molo è lambito dalle onde e rinfrescato dalle brezze che, solo fino a poche ore fa, si trovavano al largo, là dove non si vede terra. E osservate quella folla di gente che si è raccolta laggiù, a contemplare l'acqua.

Provate a girovagare per la città, in un pomeriggio sognante, nel giorno del riposo. Andate da Corlears Hook a Coenties Slip, e da lì, passando per Whitehall, dirigetevi verso nord. Che cosa vedete? Migliaia e migliaia di esseri mortali, appostati dappertutto come sentinelle, perduti in silenziose fantasticherie mentre fissano l'oceano. Alcuni sono appoggiati ai piloni, altri siedono sulle teste di molo, altri si affacciano dai parapetti delle navi venute dalla Cina, altri ancora, infine, salgono arriva, sulle sartie, per poter meglio sbirciare il mare. Ma questi son tutti uomini di terraferma. Il resto della settimana lo passano confinati fra le loro pareti di graticcio e intonaco, legati ai loro sportelli, inchiodati ai loro banchi, ribaditi alle loro scrivanie. Come si spiega allora tutto questo? I prati verdi son forse svaniti? Che ci fanno, qui, costoro?

Ma... guardate! Ecco sopraggiungere nuove folle di gente che marciano decise verso l'acqua, come a volersi tuffare. Che strano! Nulla le potrà soddisfare, se non raggiungere l'ultimo lembo di terra. Bighellare all'ombra di quei magazzini sottovento, laggiù, non gli basta. No. Devono avvicinarsi il più possibile all'acqua senza cadervi dentro. E se ne stanno lì... una schiera che si estende per miglia... per leghe... Vengono tutti dall'entroterra, da viuzze e vicoli, strade e viali – da nord, est, sud, ovest. Eppure confluiscono tutti qui. Ditemi, saranno forse gli aghi magnetici delle bussole di tutte quelle navi ad attirarli in codesto luogo?

E ancora, poniamo che vi troviate in campagna, su un altopiano costellato di laghi. Prendendo il sentiero che più vi aggrada, avete nove probabilità su dieci che esso vi conduca giù in una valletta, e che vi lasci presso un tonfano. In esso si cela qualcosa di magico. Prendete l'uomo più distratto al mondo, completamente immerso nelle sue fantasticherie, tiratelo su in piedi, fategli muovere le gambe e, senza fallo, quegli vi condurrà all'acqua, sempreché vi sia acqua nella zona. Provate a fare questo esperimento nel caso vi ritroviate, sitibondi, nel Gran Deserto Americano, e nella vostra carovana vi sia un professore di metafisica. Sì, perché come tutti sanno, l'acqua e la meditazione sono unite in eterno matrimonio.

Ma ecco qui un artista. Egli desidera dipingervi il paesaggio romantico della valle del fiume Saco, uno scorcio quanto mai incantevole, placido, sognante, ombreggiato. E qual è l'elemento principale a cui fa ricorso? Lì ci sono gli alberi, con il loro bravo tronco cavo, come se ospitassero al loro interno un crocifisso o un eremita, e lì si stende il prato, e lì il gregge, tutti avvolti nel sonno, e dalla casetta su in alto si leva sonnolento un filo di fumo. Lontano, un sentiero si inerpica serpeggiando nelle profonde selve, raggiungendo gli speroni sovrapposti dei monti, con le loro pendici inondate di luce azzurra. Ma per quanto la scena sia immersa in questo rapimento, e il pino si scrolli di dosso i propri sospiri, i quali vanno a posarsi sul capo del pastore come fossero foglie, tutto questo sarebbe comunque vano se il pastore non fissasse lo sguardo sul magico ruscello dinnanzi a sé. Andate a visitare le Praterie in giugno, quando potete guadare i campi per miglia e miglia, fra i gigli tigrati che vi arrivano fino alle ginocchia. Che cosa manca a completare l'incanto? L'acqua. Lì attorno non c'è neppure una goccia d'acqua! Se il Niagara non fosse che una cascata di sabbia, vi fareste un viaggio di mille miglia per andare a vederla? Perché mai, se no, il povero poeta del Tennessee, ricevute inaspettatamente due manciate d'argento, soppesò se fosse meglio comprarsi una giacca, di cui aveva tristemente bisogno, o investire il proprio denaro in una gita a piedi a Rockaway Beach? Perché mai, se no, tutti i giovanotti, sani e robusti di animo e di corpo, prima o poi smaniano dalla voglia di prendere il mare? Perché mai, se no, la prima volta che voi stessi vi siete imbarcati come passeggeri, avete provato un fremito arcano nello scoprire che voi e la vostra nave, raggiunto il largo, eravate fuori vista della terra? Perché mai, se no, per gli antichi Persiani il mare era sacro? Perché mai, se no, i Greci gli attribuirono un dio tutto suo, e ne fecero il fratello di Giove stesso? Tutto ciò deve pur avere un significato. E un significato ancora più profondo ha la storia di Narciso, il quale, non riuscendo ad afferrare l'immagine soave, tormentosa che vedeva nel fonte, vi si tuffo dentro annegando. Ma noi stessi vediamo quella stessa immagine nei fiumi e negli oceani. È l'immagine del fantasma inafferrabile della vita: e questo è la chiave di tutto.

Ora, quando dico che sono solito prendere il mare non appena un velo di nebbia mi appanna gli occhi e la flemma si fa sentire nei miei polmoni, non vorrei si credesse che m'imbarco sempre come passeggero. Giacché, per fare i passeggeri necessita un borsellino pieno, e un borsellino senza niente dentro è solo un cencio. Inoltre, i passeggeri soffrono il mal di mare... diventano litigiosi... non dormono la notte... insomma, in generale non se la spassano granché... no, non m'imbarco mai come passeggero, e anche se sono per certi versi un lupo di mare, non m'imbarco mai neppure come Commodoro, Capitano o Cuoco. Lascio volentieri la gloria e la distinzione di tali cariche a chi ci tiene. Per quanto mi concerne, detesto qualsiasi fatica, prova o tribolazione che comandi onori e rispetto. È già tanto se riesco a prendermi cura di me stesso, senza dovermi prendere cura anche di navi, velieri, brigantini, golette e via dicendo. E quanto a imbarcarmi come cuoco, pur riconoscendovi un che di glorioso, poiché il cuoco a bordo è una sorta di ufficiale, per qualche motivo non mi sono mai visto ad arrostir volatili, anche se sono il primo al mondo a cantare le lodi – con il dovuto rispetto, persino con riverenza – di un volatile ben arrostito, debitamente imburrato, sagacemente condito con sale e pepe. Ed è a causa della passione idolatra degli antichi egizi per l'ibis in gratella e l'ippopotamo arrosto, se in quei loro enormi forni, le piramidi, sono custodite le mummie di questi animali.

No, quando io mi imbarco lo faccio come marinaio semplice, col resto della ciurma, a proravia dell'albero di maestra, a perpendicolo sotto il castello di prora, arriva in cima al controvelaccio. È vero, mi tartassano non poco coi loro ordini, mi fanno saltabeccare da un pennone all'altro come una cavalletta in un prato di maggio. Son cose alquanto fastidiose, specie all'inizio. Ti toccano nell'onore, soprattutto se provieni da una vecchia famiglia di consolidata reputazione nel paese, come i Van Rensselaer, i Randolph, gli Hardicanute. E, soprattutto, se fino a poco prima di infilare le mani nel secchio del catrame l'hai fatta da padrone come maestro di campagna, dove anche i ragazzi più alti si facevano piccoli dinanzi a te per la soggezione. Da maestro a marinaio il passo è duro, credete, e ci vuole una bella pozione a base di Seneca e di stoicismo per far buon viso a cattiva sorte. Ma anche questo col tempo sfuma.

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Pagina 34

Capitolo 3

La locanda della baleniera


Entrando nella Locanda della baleniera, col suo tetto a due spioventi, ci si trovava in un atrio ampio, basso, sbilenco, con le pareti rivestite di antiquati pannelli di legno che ricordavano le murate di un vecchio vascello in disarmo. Su una parete era appeso un enorme dipinto a olio, interamente coperto di fuliggine e del tutto sfigurato, al punto che, osservandolo in quell'irregolare luce trasversale, si riusciva a capirne il senso solo dopo aver svolto una serie di diligenti ispezioni e di accurate indagini presso i vicini avventori. Il dipinto presentava un ammasso di ombre e penombre impenetrabili, tanto che dapprima si era portati a ritenere fosse opera di un giovane artista ambizioso, vissuto al tempo delle streghe del New England, il quale avesse tentato di ritrarre il caos incantato. Tuttavia, dopo averlo contemplato scrupolosamente e averci meditato su a lungo, e, soprattutto, aver spalancato la finestrella sul retro dell'atrio, si raggiungeva infine la conclusione che tale ipotesi, per quanto audace, non era poi senza fondamento.

La cosa che tuttavia lasciava maggiormente perplessi e confusi era una lunga massa nera flessuosa, portentosa, sospesa al centro del quadro, sopra tre tenui linee blu perpendicolari che galleggiavano in un indicibile fermentar di spuma. Un'immagine melmosa, molliccia, piccicosa, tale da turbare per davvero una persona apprensiva. Eppure, essa possedeva una certa sublimità indefinibile, incompiuta, inimmaginabile, che avvinceva l'osservatore, finché questi, inconsciamente, giurava a se stesso di dover scoprire il significato di quello sbalorditivo dipinto. Ogni tanto la mente veniva attraversata da un'idea folgorante, ma, ahimè ingannevole. È una burrasca notturna nel Mar Nero... È la lotta innaturale dei quattro elementi primordiali... È una brughiera inaridita... È una scena dell'inverno iperboreo... È il flusso del Tempo che spezza la sua prigione di ghiaccio... Tutte queste fantasticherie, tuttavia, cedevano infine il campo alla massa portentosa al centro del quadro. Una volta scoperto cosa fosse quella, tutto il resto si sarebbe chiarito. Ehi, un momento: ma non somigliava vagamente a un pesce gigantesco? Al grande leviatano stesso?

L'intento dell'artista, difatti, sembrava proprio questo: è una mia teoria personale, confortata in parte dalle opinioni del consesso degli anziani con cui ho discusso l'argomento. Il quadro rappresenta una delle navi che son solite doppiare Capo Horn, colta in un violento uragano: la nave in balia delle onde è mezzo affondata, e di essa si vedono solo i tre alberi disarmati, mentre una balena infuriata, nel tentativo di scavalcare il bastimento con un balzo immane, sta per restare trafitta dalle tre teste d'albero.

La parete opposta dell'atrio era disseminata di mazze e fiocine mostruose che facevano barbara mostra di sé. Alcune erano incastonate da una fitta schiera di denti scintillanti, simili a seghe d'avorio, altre erano ornate da ciuffi di capelli, e una, a forma di falce, presentava un enorme manico curvo, ampio e circolare, come il segno lasciato nell'erba tagliata di fresco da un falciatore dalle lunghe braccia. Venivano i brividi solo a guardarla, e ci si chiedeva quale mostruoso cannibale selvaggio avesse mai potuto mietere la morte con un arnese così tagliente, così raccapricciante. Frammisti a queste, c'erano vecchi ramponi e lance da baleniere, ora tutti arrugginiti, rotti e contorti. Alcune di queste armi erano cariche di storia. Per esempio, con questa lancia un tempo lunga, ora addirittura piegata a gomito, cinquant'anni fa Nathan Swains uccise quindici balene, tra l'alba e il tramonto. E quel rampone, ora ritorto come un cavatappi, venne scagliato nei mari di Giava contro una balena, la quale riuscì a fuggire portandoselo dietro, e venne uccisa anni dopo al largo di Capo Blanco. Il ferro, penetrato in origine vicino alla coda, muovendosi irrequieto come un ago infilato in un corpo umano, percorse ben quaranta piedi e venne infine ritrovato incastrato nella sua gobba.

Attraversando quell'atrio cupo, e poi un basso passaggio a volta, ricavato dai resti di quello che anticamente doveva esser stato un grande camino centrale coi vari focolari tutt'attorno, si entrava nel salone comune. Questo era un locale più cupo ancora, e aveva un soffitto con dei bagli così bassi e massicci, e un vecchio assito di tavole così corrugate che si aveva quasi l'impressione di calcare il pagliolato di un vecchio bastimento, soprattutto in una notte come quella, in cui il vento, ululando, faceva rollare furiosamente quella vecchia arca ormeggiata sulla cantonata. Da un lato vi era un tavolo lungo e basso, usato a mo' di mensola, coperto di vetrinette incrinate, colme di polverose rarità provenienti dagli angoli più remoti di questo vasto mondo. Nell'angolo più lontano della sala, in una sporgenza, si apriva il bar, un antro oscuro, a rozza imitazione della testa di una balena franca. Sia come sia, lì si ergeva la vasta mascella arcuata della balena, talmente ampia che ci poteva quasi passar sotto una carrozza. Al suo interno, v'erano delle squallide mensole che ospitavano vecchi fiaschi, bottiglie e caraffe: e in quelle fauci dove la perdizione giunge rapida, come un novello maledetto Giona (infatti lo chiamavano proprio con quel nome) s'affaccendava un vecchietto avvizzito, il quale vendeva a caro prezzo ebbrezza e morte ai marinai in cambio dei loro soldi.

Abominevoli, poi, erano i bicchieri in cui egli mesceva il suo veleno. Visti dall'esterno, sembravano di forma perfettamente cilindrica, tuttavia, al loro interno, quelle ingannevoli lenti verdi andavano proditoriamente rastremandosi verso il fondo truffaldino. Questi calici da grassatore recavano, incisi rozzamente sul vetro, dei meridiani paralleli. Pieno fino a questa tacca costava un penny, fino a quest'altra tacca due penny, e via dicendo, per arrivare al bicchiere colmo, la dose da Capo Horn, che era possible tracannare per uno scellino.

Entrando nel locale, vi trovai molti giovani marinai radunati attorno a un tavolo, intenti a esaminare sotto una luce fioca diversi esemplari di skrimshander. Trovato il locandiere, gli dissi che desideravo una camera in cui alloggiare, ma egli mi rispose che erano al completo... nemmeno un letto libero. «Ma, ferma là!» soggiunse, battendosi la fronte. «Non avrai niente in contrario a spartire la coperta con un ramponiere, vero? Perché tu vai a balene, immagino, e allora è meglio se ti ci abitui subito, a queste cose».

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Pagina 172

Capitolo 24

L'avvocato patrocinatore


Siccome io e Queequeg ci siamo ormai letteralmente imbarcati nella baleneria, e siccome la baleneria, per qualche oscuro motivo, viene oggigiorno considerata dagli uomini di terra un'occupazione alquanto prosaica e disdicevole, ora mi preme più che mai convincere voi, voi uomini di terra, dell'ingiustizia in tal modo perpetrata nei confronti dei cacciatori di balene come noi.

In primo luogo, può sembrare quasi superfluo ribadire come, fra la gente comune, l'attività del baleniere non goda della stessa stima delle cosiddette professioni liberali. Se si introducesse uno sconosciuto in un consesso eterogeneo di una qualunque metropoli, presentandolo a quell'accolta in qualità di ramponiere, ciò non servirebbe ad accrescere di molto la sua reputazione. E se poi, nel tentativo di emulare gli ufficiali di marina, questo sconosciuto volesse aggiungere al suo biglietto da visita le iniziali P.d.C. (Pesca del Capodoglio), la sua iniziativa verrebbe considerata altamente presuntuosa e ridicola.

Indubbiamente, uno dei motivi principali per cui il mondo rifiuta di tributarci i dovuti onori è questo: esso ritiene che la nostra professione, nel migliore dei casi, si riduca a un'attività da macellai, e che quando la esercitiamo siamo circondati dal lerciume. Macellai lo siamo, è vero, ma macellai, e di segno ben più sanguinario di noi, lo furono tutti quei Condottieri Militari che il mondo, invariabilmente, si pregia di onorare. E per quanto riguarda la lordura che caratterizzerebbe la nostra professione, sarete presto iniziati a certi fatti, finora generalmente quasi sconosciuti, i quali, nel loro insieme, collocheranno trionfalmente le navi per la pesca al capodoglio fra le cose a dir poco più pulite di questa nostra linda terra. Tuttavia, pur ammettendo che l'accusa in questione sia vera, come si può paragonare la confusione dei ponti scivolosi delle baleniere con l'indescrivibile, fetido carnaio dei campi di battaglia, da cui tanti soldati fanno ritorno per assaporare il plauso unanime delle signore? E se è l'idea del pericolo ad accrescere così tanto nel pensiero popolare la stima verso la professione del soldato, vi assicuro che più di un veterano che sia avanzato intrepido contro una batteria nemica, indietreggerebbe subito nel veder apparire la gran coda del capodoglio che gli sventaglia sul capo sollevando vortici d'aria. Giacché, che cosa sono i terrori comprensibili dell'uomo se paragonati alla catena di terrori e di portenti divini?

Tuttavia, anche se il mondo si fa scherno di noi balenieri, senza saperlo ci tributa un profondissimo omaggio, proprio così, un'adorazione sconfinata! Giacché quasi tutti i lucignoli, le lampade e le candele che ardono in ogni angolo della terra, ardono alla nostra gloria, come davanti ad altrettanti altari!

Ma esaminate la questione sotto un'altra luce, soppesatela su ogni sorta di bilancia, guardate chi siamo noi balenieri, e chi siamo stati.

Perché gli olandesi, ai tempi di De Witt, avevano alcuni ammiragli nelle loro flotte baleniere? Perché Luigi XVI, re di Francia, armò a proprie spese alcune baleniere di Dunkerque, e invitò cortesemente, in quella città, una ventina di famiglie o anche più della nostra Nantucket? Perché la Gran Bretagna, fra il 1750 e il 1788, versò ai suoi balenieri premi per oltre un milione di sterline? E infine, come mai noi balenieri americani siamo ora più numerosi di tutti gli altri balenieri del mondo messi insieme? Disponiamo di una flotta di oltre settecento bastimenti, con diciottomila uomini d'equipaggio, per una spesa annuale di quattro milioni di dollari. Le nostre navi, al momento di prendere il mare, hanno un valore di venti milioni di dollari, e recano nei nostri porti una meritata messe di sette milioni di dollari l'anno. Come sarebbe possibile tutto ciò, se non vi fosse qualcosa di possente, nella nostra baleneria?

Ma aspettate, non è che l'inizio. Guardate il resto.

Affermo liberamente che un filosofo cosmopolita non sarebbe assolutamente in grado di indicare una sola cosa che, negli ultimi sessant'anni, abbia esercitato un influsso più pacifico sul mondo intero, nel suo insieme, della nobile e possente baleneria. In un modo o nell'altro, la baleneria ha dato vita a un numero di eventi di per sé così straordinari, e così pregni di importanza in tutti i loro sviluppi successivi, che essa può a ragione essere paragonata a quella madre egizia capace di partorire una prole a sua volta già gravida. Volerli elencar tutti sarebbe un compito immane, disperato. Sarà dunque sufficiente elencarne alcuni. In passato, per molti anni, le baleniere hanno svolto un'azione pionieristica nello scovare le parti più remote e ignote della terra. Hanno esplorato mari e arcipelaghi che non erano segnati su nessuna carta nautica, dove le vele di Cook o di Vancouver non erano mai arrivate. Se le navi da guerra europee o americane oggi possono stare pacificamente alla fonda in porti un tempo dominio dei selvaggi, che esse sparino salve in onore e gloria delle baleniere, le prime ad aprir loro la via e a far da interpreti fra loro e i selvaggi. Che celebrino pure fin che vogliono gli eroi delle Grandi Esplorazioni – i Cook, i Krusenstern – ma vi posso assicurare che da Nantucket hanno fatto vela decine di anonimi capitani, grandi quanto loro, o forse ancor più. Difatti, pur procedendo senza armi o soccorsi nelle acque pagane infestate di squali, su spiagge di isole ignote fitte di giavellotti, essi combatterono portenti e terrori vergini che Cook, con tutti i suoi fanti di marina e i suoi moschetti, non avrebbe volentieri osato sfidare. Tutto ciò che si ostenta nelle cronache dei Viaggi nei mari del Sud, per la nostra gente eroica di Nantucket costituiva la norma quotidiana. Spesso le avventure a cui Vancouver dedica tre capitoli, quegli uomini non le ritenevano degne di essere annotate sul giornale di bordo. Ah, il mondo, il mondo!

Finché le baleniere non si spinsero oltre Capo Horn, fra l'Europa e le opulente province spagnole allineate lungo la costa del Pacifico non vi fu nessun commercio, e quasi nessun rapporto, se non di natura strettamente coloniale. Furono i balenieri i primi a toccare queste colonie, facendo così breccia nella politica gelosa e protettiva della Corona spagnola, e se lo spazio a disposizione ce lo consentisse, si potrebbe chiaramente dimostrare come furono proprio quei balenieri a favorire la successiva liberazione del Perù, del Cile e della Bolivia dal giogo della vecchia Spagna, e l'instaurazione, in quei paesi, della democrazia eterna.

E i balenieri donarono al mondo civile l'Australia, quella grande America situata dalla parte opposta del globo. Dopo la sua scoperta accidentale da parte di un olandese, per molto tempo tutte le altre navi evitarono come la peste quelle coste barbare. Ma la nave baleniera vi fece scalo. La nave baleniera è la vera madre di quella colonia ora potentissima. Inoltre, quando il primo insediamento australiano era ancora nei primi anni di vita, più di una volta i coloni furono salvati dalla morte per fame grazie alle gallette benevolmente elargite dalle baleniere, andate per loro fortuna a gettar l'àncora in quelle acque. Le innumerevoli isole della Polinesia attestano la stessa verità, e rendono omaggio ai commerci delle navi baleniere, le quali spianarono la via ai missionari e ai mercanti, e, in molti casi, trasportarono i primitivi missionari alle loro destinazioni originarie. Se il Giappone, quella terra impenetrabile chiusa a doppia mandata, dovesse mai diventare una landa ospitale, lo si dovrà alle baleniere, giacché esse si trovano già lì, alla sua soglia.

Ma se, a fronte di tutto ciò, continuaste a sostenere che la baleneria non possiede alcun nobile connotato estetico, in tal caso son disposto a giostrar con voi, a spezzarvi cinquanta lance contro, e a disarcionarvi ogni volta spaccandovi l'elmo.

La balena non vanta nessuno scrittore famoso, e la caccia alla balena nessuno storico famoso, direte voi.

La balena non vanta nessuno scrittore famoso, e la caccia alla balena nessuno storico famoso? E allora chi scrisse la prima descrizione del nostro Leviatano? Chi altri, se non il grandissimo Giobbe? E chi stese il primo resoconto sulla caccia alla balena? Chi altri, se non un principe, Alfredo il Grande, il quale, con la sua penna regale, trascrisse le parole del norvegese Other, il noto cacciatore di balene di quei tempi! E chi pronunciò il nostro fulgido encomio in parlamento? Chi altri, se non Edmund Burke!

Pienamente d'accordo, direte voi, però i balenieri sono di per sé dei poveri disgraziati, nelle loro vene non scorre una sola goccia di sangue nobile.

Nelle loro vene non scorre una sola goccia di sangue nobile? Se per questo, nelle loro vene scorre qualcosa di meglio del sangue blu. La nonna di Benjamin Franklin era Mary Morrel, divenuta Mary Folger dopo il matrimonio, una delle prime colonizzatrici di Nantucket, e capostipite di una lunga schiera di ramponieri di nome Folger (tutti amici e parenti del nobile Benjamin), i quali, ancor oggi, se ne vanno in giro per i mari del mondo a scagliare il loro ferro uncinato.

Sì, nuovamente d'accordo, però poi tutti, per un motivo o per l'altro, riconoscono che la caccia alla balena non è rispettabile.

La caccia alla balena non è rispettabile? La caccia alla balena è imperiale! L'antica legge parlamentare inglese dichiara che la balena è un «pesce-regio».

Oh, ma è così solo di nome! La balena, di per sé, non ha mai figurato in modo imponente e solenne.

Non ha mai figurato in modo imponente e solenne? In uno dei più maestosi trionfi tributati a un generale romano, al suo ingresso nella capitale del mondo, le ossa di una balena, portate fin lì dalla costa siriaca, costituivano l'elemento più vistoso del corteo che avanzava al suono dei cembali.

E sia, visto che lo citi: si può dire quel che si vuole, però nella caccia alla balena non vi è vera dignità.

Nella caccia alla balena non vi è vera dignità? Il firmamento stesso testimonia la dignità della nostra vocazione! Nel cielo australe vi è la Costellazione della Balena. Non dico altro! Calcatevi il cappello in testa in presenza dello Zar, ma levatevelo davanti a Queequeg! Non dico altro! Conosco un uomo che, in vita sua, ha catturato trecentocinquanta balene. Lo ritengo un uomo più degno d'onore di quel grande condottiero dell'antichità che si vantava di aver catturato altrettante città fortificate.

E per quanto mi concerne, se mai si celasse in me alcunché di pregevole ancora da scoprire, se mai in futuro dovessi meritare la vera fama a cui ragionevolmente posso ancora ambire, in quel mondo piccolo ma elevato e riservato, se dovessi fare qualcosa che ogni uomo, tutto sommato, preferirebbe aver fatto che aver mancato di fare, se alla mia morte i miei esecutori testamentari, o meglio, i miei creditori, dovessero trovare nel mio scrittoio qualche prezioso MS., allora ne attribuisco fin d'ora ogni onore e gloria alla baleneria, giacché una nave baleniera fu la mia Harvard e la mia Yale.

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Capitolo 36

Il cassero


(Entra Ahab: poi entrano tutti)

Non era passato molto tempo dall'episodio della pipa, allorché una mattina, subito dopo la prima colazione, Ahab, com'era sua abitudine, emerse dalla scaletta della cabina. A quell'ora, quasi tutti i capitani di mare usano fare una passeggiata in coperta, così come i signori di campagna dopo il pasto mattutino fanno quattro passi in giardino.

Ben presto si udì il suono ritmato, regolare della sua gamba d'avorio, mentre egli seguiva il solito itinerario, calcando avanti e indietro quelle travi così aduse al suo passo da essere tutte intaccate, come le pietre di un'antica era geologica. E a voler scrutare con attenzione coste e solchi della sua fronte, si sarebbero trovate impronte ancor più strane: le impronte del suo unico pensiero, sempre desto, sempre in movimento.

Tuttavia, in quella particolare circostanza, i solchi sembravano più profondi del solito, proprio come era più profondo, quella mattina, il segno lasciato dal suo passo nervoso. Ahab era talmente preso da quel pensiero che quando compiva la sua solita giravolta, ora all'albero di maestra ora alla chiesuola, si poteva quasi vedere il pensiero voltare dentro di lui, e quando avanzava sul ponte, il pensiero avanzava dentro di lui al suo stesso passo: lo possedeva completamente, al punto da sembrar quasi lo stampo interiore di ogni suo movimento esteriore.

«Lo vedi, Flask?» bisbigliò Stubb. «Il pulcino dentro di lui sta beccando il guscio. Sortirà presto».

Passarono le ore. Ahab adesso se ne stava rinchiuso in cabina, ma tutto a un tratto riemerse di nuovo, e riprese a misurare nervoso il ponte, con la stessa espressione ostinatamente risoluta.

Il giorno stava volgendo al termine. Ahab si arrestò improvvisamente vicino al parapetto di murata. Infilata la gamba d'osso nel foro praticato li col succhiello, aggrappandosi con una mano a una sartia, ordinò a Starbuck di radunare tutti gli uomini a poppa.

«Signore!?» esclamò l'ufficiale, stupefatto per quell'ordine che a bordo non viene impartito mai, se non in casi assolutamente eccezionali.

«Manda tutti gli uomini a poppa!» ripeté Ahab. «Oh, d'arriva! Scendete!».

Allorché tutti gli uomini dell'equipaggio furono adunati a poppa, essi presero a osservarlo con espressione curiosa e non priva di inquietudine, giacché il suo aspetto non era diverso dall'orizzonte all'avvicinarsi della tempesta. Allora Ahab, dopo aver gettato un'occhiata oltre la murata e aver scrutato l'equipaggio coi suoi occhi dardeggianti, abbandonò la sua postazione, poi, come se attorno a lui non ci fosse anima viva, riprese a misurare la coperta col suo passo pesante. Con il capo chino, il cappello di sghimbescio, continuò imperterrito nella sua marcia, incurante dei mormorii di curiosità che serpeggiavano fra gli uomini, finché, a un certo punto, Stubb sussurrò cautamente a Flask che Ahab doveva averli convocati lì perché assistessero alle sue prove podistiche. Ma la cosa non durò molto. Arrestandosi bruscamente, Ahab gridò:

«Marinai, che cosa fate quando vedete una balena?».

«La segnaliamo!» fu la risposta immediata che si levò da una ventina di voci in coro.

«Bene!» gridò veemente Ahab, in tono di approvazione, osservando la calorosa animazione dei marinai magnetizzati da quella sua domanda imprevista.

«E poi cosa fate, marinai?».

«Caliamo le lance e la inseguiamo!».

«E remando cosa cantate?».

«O la balena morta o la lancia sfondata!».

A ogni nuovo grido, l'espressione di gioia e di compiacimento sul volto del vecchio si faceva vieppiù strana e selvaggia, mentre i marinai ora si guardavano l'un l'altro incuriositi, quasi domandandosi il perché di tanta eccitazione davanti a quelle domande in apparenza oziose.

Tuttavia, furono presi da rinnovato ardore allorché Ahab, compiendo un mezzo giro sul suo foro a perno, tendendo la mano per afferrare una sartia e stringerla quasi convulsamente, si rivolse a loro così:

«Tutti voi, dei colombieri, mi avete già sentito dare ordini su una certa balena bianca. Guardate qua! La vedete quest'oncia d'oro spagnola?», e levò al sole una grande moneta lucente. «È una moneta da sedici dollari. La vedete, marinai? Starbuck, passami quel martello di coffa».

Mentre l'ufficiale andava a prendere il martello, Ahab, in silenzio, si mise a strofinare lentamente la moneta d'oro contro le falde della giubba, come per accrescerne il lustro, e senza proferir parola si mise a canticchiare piano, a bocca chiusa, producendo un suono talmente soffocato e inarticolato che pareva il ronzio metallico dei suoi ingranaggi vitali interni.

Ricevuto il martello di coffa da Starbuck, Ahab lo sollevò con una mano mostrando la moneta d'oro nell'altra, quindi si diresse verso l'albero di maestra, ed esclamò con voce stentorea: «Chi di voi mi avvisterà una balena con la testa bianca, la fronte rugosa e la mascella storta, chi di voi mi avvisterà una balena con la testa bianca e tre buchi nella pinna della coda a dritta... ragazzi miei, guardate qua... chi di voi mi avvisterà quella balena bianca, avrà quest'oncia d'oro!».

«Urrà! Urrà!» gridarono i marinai, agitando i loro cappelli di tela cerata per inneggiare a Ahab, il quale intanto stava inchiodando la moneta d'oro all'albero di maestra.

«È una balena bianca, vi dico», riprese Ahab, gettando via il martello. «Una balena bianca. Marinai, cercatela fino a consumarvi gli occhi, e se vedete l'acqua bianca, anche solo una bolla, segnalate».

In quel frattempo, Tashtego, Daggoo e Queequeg avevano assistito alla scena ancor più sorpresi e interessati degli altri. Quando Ahab menzionò la fronte rugosa e la mascella storta della balena, erano trasaliti, come se quella descrizione avesse risvegliato in ciascuno di loro un ricordo particolare.

«Capitano Ahab», disse Tashtego, «deve essere la balena bianca che certi chiamano Moby Dick».

«Moby Dick?» urlò Ahab. «Allora la conosci, Tash?».

«Signore, sventola la coda in modo un po' strano, prima d'immergersi?» chiese cautamente il Testa Allegra.

«E ha anche una sfiatata un po' strana», disse Daggoo, «molto spessa, perfino per un parmacetti, e molto potente, vero Capitano Ahab?».

«E dentro lui pelle hai uno, due, tre, oh... tanti, tanti ferri», gridò Queequeg col suo linguaggio sconnesso, «e loro ferri tutti... storciti... come... come...», ed esitò balbettando, alla ricerca faticosa di una parola che non arrivava, mentre torceva la mano, facendo il gesto di stappare una bottiglia.

«Un cavatappi!» esclamò Ahab. «Sì, Queequeg, i ramponi che ha dentro sono tutti storti e attorcigliati. Sì, Daggoo, ha una sfiatata grande quanto un'intera bica di grano, e bianca come un mucchio di lana durante la grande tosatura annuale delle pecore, nella nostra Nantucket. Sì, Tashtego, sventola la coda come un fiocco squarciato in un groppo. Per tutti i diavoli! Marinai, è Moby Dick che avete visto... Moby Dick... Moby Dick!».

«Capitano Ahab», disse Starbuck, il quale, insieme a Stubb e Flask aveva finora osservato il proprio superiore con crescente sorpresa, ma pareva ora colto da un pensiero improvviso, capace in qualche modo di spiegare tutto quello stupore. «Capitano Ahab, ho già sentito parlare di Moby Dick... ma non è Moby Dick che t'ha portato via la gamba?».

«Chi te l'ha detto?» esclamò Ahab. E poi, dopo un attimo, disse: «Sì, Starbuck. Sì, tutti voi, miei prodi, è stata Moby Dick che mi ha disalberato. Moby Dick mi ha ridotto a dovermi reggere su questo moncherino morto. Sì, sì», e lanciò un lamento; terribile, animalesco, come un alce colpito al cuore. «Sì, sì! È stata quella maledetta balena bianca a fare di me una nave rasata, un inutile bischero per tutta la vita!» Poi, agitando entrambe le braccia con imprecazioni immani urlò a squarciagola: «Sì, sì! E le darò la caccia oltre il Capo di Buona Speranza, e Capo Horn, e il Maelstrom della Norvegia, e le fiamme della perdizione, prima di rinunciare a lei. Ed è per questo che vi siete imbarcati, marinai! Per dar la caccia a questa balena bianca nei due oceani, in ogni angolo della terra, finché non sfiaterà sangue nero e rotolerà a pinna in su. Che ne dite, uomini, volete impiombarci su le mani? Mi sembrate coraggiosi».

«Sì, sì!» gridarono ramponieri e marinai, stringendosi attorno al vecchio esagitato: «Aguzziamo la vista per la Balena Bianca, aguzziamo le lance per Moby Dick!».

«Dio vi benedica», proferì Ahab, a metà fra il singhiozzo e il grido, «Dio vi benedica tutti. Cambusiere! Va' a spillare un bricco grande di grog. Ma cos'è quel muso lungo, Starbuck? Non vuoi dar la caccia alla balena bianca? Non te la senti d'affrontare Moby Dick?».

«Capitano Ahab, mi sento d'affrontare la mascella storta della balena bianca, e anche le mascelle della Morte, se m'arrivano giustamente a tiro mentre facciamo il nostro lavoro, però io son venuto qui per inseguire le balene, non la vendetta del mio comandante. Capitano Ahab, quanti barili ti frutterà la tua vendetta, sempre che tu riesca a ottenerla? Non ti renderà molto, al mercato della nostra Nantucket».

«Il mercato di Nantucket! Puh! Ma avvicinati, Starbuck. Lascia che ti spieghi, amico: con te bisogna andare a un livello un po' più profondo. Se il denaro è la misura, e i contabili stimano il valore del mondo – quel loro grande ufficio contabile – cingendolo tutto all'intorno di ghinee, e ogni ghinea è un terzo di pollice, allora, lasciatelo dire, la mia vendetta frutterà un grande aggio, proprio qui!».

«Si batte il petto», sussurrò Stubb. «Perché lo fa? A giudicare dal suono, sembra enorme ma vuoto».

«Vendicarsi di una bestia bruta!» gridò Sturbuck. «Una bestia che t'ha colpito solo per il più cieco istinto! Capitano Ahab, è una pazzia! Provar collera verso un essere bruto mi sembra un'empietà».

«Stammi di nuovo a sentire, amico... andiamo ancora un po' più a fondo. Tutti gli oggetti visibili non sono altro che maschere di cartapesta. Però, in ogni evento – in un atto reale, in un'azione indubbia – lì, un essere sconosciuto, ma comunque razionale, preme da dietro la maschera irrazionale, imprimendovi le proprie fattezze. Se l'uomo vuole colpire, allora che il suo ferro trapassi la maschera! Come farebbe un carcerato a raggiungere l'esterno se non trapassando il muro? Per me, la balena bianca è quel muro, che mi è stato spinto contro. A volte penso che dall'altra parte del muro non ci sia nulla. Ma questo basta già. Mi tiene occupato, mi si impone. Vedo in lei una forza furiosa, innervata da una malignità imperscrutabile. Ciò che odio di più è proprio quella imperscrutabilità, e che la balena bianca ne sia l'agente o il mandante, io le rovescerò comunque addosso il mio odio. E non venirmi a parlare di empietà, amico mio. Colpirei anche il sole, se mi offendesse. Giacché se il sole fosse capace di offendermi, io sarei capace di colpirlo, poiché esiste sempre una sorta di lealtà nel gioco, nella rivalità che regna su tutto il creato. Ma io, amico, non mi lascio comandare nemmeno dal gioco leale. Chi è sopra di me? La verità non ha confini. Toglimi gli occhi di dosso! Uno sguardo ottuso è ancora più insopportabile degli sguardi irati dei demoni! Ecco, ecco, arrossisci e impallidisci: il mio calore ti ha squagliato, e ora ardi di rabbia. Ma senti, Starbuck, ciò che si afferma a caldo si rinnega da sé. Le parole accalorate di certi uomini sono offese di poco conto. Non volevo farti infuriare. Lascia perdere. Guarda! Le vedi laggiù quelle guance tutte chiazzate, scure come i turchi? Sono quadri viventi dipinti dal sole. Leopardi pagani... creature senza una cura o un credo, eppur son vivi; e né cercano, né forniscono una ragione per la vita torrida che sentono! L'equipaggio, amico mio, l'equipaggio! In questa storia della balena, i marinai non sono forse tutti con Ahab, dal primo all'ultimo? Guarda Stubb! Ride! E guarda il cileno, laggiù! Freme al solo pensiero. Starbuck, la tua solitaria pianticella sballottata non può resistere in mezzo all'uragano generale. E di cosa si tratta, in fondo? Pensaci. Si tratta solo di dare una mano a colpire una pinna, impresa tutt'altro che stupefacente, per te, Starbuck! Che altro c'è? La miglior lancia di tutta Nantucket non vorrà certo tirarsi indietro davanti a quest'unica misera caccia, quando tutti gli altri marinai semplici già stringono in mano la cote? Ah, capisco, ti vengono gli scrupoli! Ti solleva un maroso! Parla, però, parla! Sì, sì... Il tuo silenzio, allora, parla per te! (A parte) Dalle mie narici dilatate è guizzato fuori qualcosa e lui l'ha inalato nei polmoni. Ora Starbuck è mio, ora non può più opporsi a me se non ribellandosi».

«Che Dio mi protegga! Che ci protegga tutti!» sussurrò Starbuck sommessamente.

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Ora, in cuor suo, Ahab aveva una vaga consapevolezza di ciò, vale a dire: tutti i miei modi sono sani, il mio movente e il mio obiettivo sono insani. Pur tuttavia, nell'impossibilità di eliminare, cambiare, o evitare questa realtà, sapeva altresì di aver finto a lungo davanti agli uomini, e, in un certo senso, di fingere ancora. Ma questa finzione era pervia solo alla sua percezione, non alla sua volontà determinata. Ciò nonostante, era riuscito talmente bene nella sua finzione che, quando finalmente scese a terra con la sua gamba d'avorio, tutti gli abitanti di Nantucket pensarono che la sua fosse un'afflizione naturale e niente più, e che quella terribile disgrazia capitatagli lo avesse ferito nel vivo.

Allo stesso modo, quando udirono il racconto del suo innegabile delirio in mare, lo attribuirono comunemente a una causa analoga. E così avvenne per i suoi nuovi cupi malumori che, da allora in poi, gli offuscarono la fronte, fino al giorno in cui era salpato il Pequod per il presente viaggio. E non è poi molto improbabile che davanti a sintomi così oscuri, gli abitanti scaltri e prudenti di quell'isola, lungi dal dubitare della sua idoneità a comandare un altro viaggio a caccia di balene, propendessero invece a credere che, proprio per quelle ragioni, egli fosse il più adatto e il più predisposto per un'impresa intrisa di furore e barbarie, come era la caccia sanguinaria alla balena. Bruciato fuori e roso dentro, azzannato da un'idea inesorabile, incurabile: un uomo simile, se lo si potesse trovare, parrebbe veramente il più adatto a scagliare il ferro e sollevare la lancia contro il bruto più immondo. O, se per qualche motivo non lo si riteneva fisicamente idoneo a farlo, nondimeno, un uomo simile sembrava pur sempre sommamente adatto a esortare all'attacco i suoi subalterni con le sue grida. Sia quel che sia, certo era che Ahab, tenendo chiuso dentro di sé a doppia mandata l'insano segreto della sua furia mai placata, si era imbarcato di proposito nel suo viaggio attuale avendo come unico ed esclusivo scopo quello di dare la caccia alla Balena Bianca. Se i suoi vecchi conoscenti a terra avessero anche lontanamente immaginato quel che egli celava dentro di sé, con che velocità quelle anime rette, sbigottite, avrebbero strappato la nave dalle grinfie di un essere così diabolico! Loro miravano a spedizioni profittevoli, a quel profitto che si conta in dollari sonanti. Ahab, invece, perseguiva una vendetta audace, implacabile, sovrannaturale.

Ecco, dunque, questo vecchio empio dai capelli grigi che inseguiva imprecando una balena di Giobbe in giro per il mondo, per di più a capo di un equipaggio composto prevalentemente di bastardi rinnegati, di reietti, di cannibali, e inoltre reso moralmente debole dalla inadeguatezza di Starbuck, con la sua dirittura e la sua virtù senza nerbo, dall'incrollabile allegria di Stubb fatta di noncuranza e sventatezza, dalla mediocrità di cui era pervaso Flask. Un simile equipaggio, con quegli ufficiali, pareva esser stato riunito e impacchettato a bella posta da qualche fato infernale affinché assistesse Ahab nella sua vendetta monomaniaca. Come mai assecondavano con tanta liberalità la collera del vecchio? Quale malvagio incantesimo si era impossessato della loro anima, per cui, a volte, l'odio di Ahab sembrava quasi fosse il loro, e la Balena Bianca un avversario insopportabile quanto lo era per lui?

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Capitolo 44

La carta nautica


Se aveste seguito il Capitano Ahab giù in cabina dopo la burrasca, la notte dopo che l'equipaggio aveva selvaggiamente ratificato il suo proposito, lo avreste visto dirigersi al ripostiglio situato nell'arcaccia per tirarne fuori un grande rotolo di carte nautiche tutte ingiallite e sgualcite, e poi distenderle davanti a sé sul tavolo fissato all'assito. Lo avreste quindi visto sedersi al tavolo per studiare attentamente le varie linee e ombreggiature che attiravano il suo sguardo, e tracciarvi sopra a matita, con mano lenta ma ferma, nuove rotte negli spazi finora vuoti. A tratti consultava le pile di vecchi giornali di bordo lì accanto, dove erano riportati le stagioni e i luoghi in cui erano stati catturati o avvistati i capodogli da varie navi in vari viaggi precedenti.

Mentre era in tali faccende occupato, la pesante lampada di peltro, sospesa con le catene sul suo capo, oscillava continuamente seguendo il rollio della nave, gettando di continuo sulla sua fronte grinzosa bagliori e linee d'ombra cangianti, per cui, mentre lui tracciava percorsi e rotte sulle carte sgualcite, sembrava quasi che una matita invisibile stesse tracciando percorsi e rotte sulla carta profondamente segnata della sua fronte.

Ma non fu solo quella notte in particolare che Ahab, nella solitudine della sua cabina, esaminò pensoso le sue carte. Le tirava fuori dallo stipetto quasi ogni notte, e quasi ogni notte cancellava alcuni segni di matita per sostituirli con altri, giacché, con le carte di tutti e quattro gli oceani davanti a sé, Ahab si faceva strada in un dedalo di correnti e di gorghi, per aumentare le probabilità di realizzare il pensiero monomaniacale che gli attanagliava l'anima.

Ora, chiunque non conosca appieno le abitudini dei Leviatani potrebbe ritenere che la ricerca di un singolo animale, negli oceani sdogati di questo pianeta, sia un'impresa assurda e disperata. Non Ahab, il quale conosceva il corso di tutte le correnti e le maree, e che pertanto, calcolando la deriva del cibo di cui si nutrivano i capodogli, e tenendo anche presente le regolari stagioni di caccia accertate a specifiche latitudini, poteva dedurre con buona approssimazione che sfiorava la certezza il giorno più adatto in cui trovarsi in questo o quel campo di caccia, alla ricerca della sua preda.

La presenza periodica dei capodogli in determinate acque è in realtà talmente scontata che, nell'opinione di molti cacciatori, se li si potesse osservare e studiare con attenzione in tutto il mondo, se si potessero confrontare accuratamente i diari di bordo di tutti i viaggi compiuti dall'intera flotta baleniera, si scoprirebbe che le migrazioni dei capodogli sono costanti quanto quelle dei banchi di aringhe o degli stormi di rondini. In base a questo indizio, si è tentato di tracciare delle carte che dettagliassero le rotte migratorie del capodoglio.

Inoltre, nel passare da un sito di alimentazione a un altro, i capodogli, guidati da un istinto infallibile – o meglio, da una informazione segreta da parte della Divinità – si spostano per lo più lungo vene d'acqua, come vengono chiamate, e seguono il loro percorso lungo una linea oceanica precisa senza deviare minimamente, tanto che, pur avvalendosi di carte nautiche, nessuna nave è mai riuscita a seguire la propria rotta con una decima parte della loro meravigliosa precisione. Sebbene in questi casi la direzione presa da una balena sia diritta come la parallela tracciata da un topografo, e sebbene la linea di marcia che essa segue sia limitata alla sua ineluttabile scia diritta, la vena d'acqua arbitraria, in cui si ritiene che essa si sposti in queste circostanze, solitamente misura alcune miglia di larghezza (più o meno, poiché si pensa che queste vene si espandano e si contraggano), senza però mai superare in estensione il campo visivo del colombiere della nave baleniera, la quale scivola silenziosa e circospetta lungo quella magica zona. In sostanza, in periodi particolari, entro una data distesa d'acqua e lungo un dato percorso, si possono fiduciosamente cercare le balene migratrici.

E quindi, Ahab non solo poteva sperare di incrociare la sua preda nei periodi già accertati, nei siti di alimentazione già noti, ma poteva anche regolare ad arte il tempo e il luogo in cui traversare le vastissime distese d'acqua fra un sito e l'altro, così da avere, anche allora, una qualche possibilità di imbattersi in lei.

Vi era una circostanza che, a prima vista, pareva intralciare il suo disegno delirante eppur metodico, ma in realtà forse non era così. Anche se i capodogli che vivono in branco frequentano regolarmente certi siti in periodi determinati, non per questo si può generalizzare, deducendo che i branchi che quest'anno sono presenti a una data latitudine e longitudine siano esattamente gli stessi avvistati in quel luogo la stagione precedente, per quanto vi siano stati casi particolari, indiscutibili, in cui si è verificato il contrario. In genere, la stessa osservazione, sia pure in modo più limitato, vale per i capodogli più anziani e maturi che vivono eremiti e solitari. Cosicché, anche se Moby Dick era stata avvistata qualche anno prima, poniamo, nell'Oceano Indiano, nel cosiddetto sito delle Seychelles, o nella Baia del Vulcano, lungo la costa giapponese, non ne conseguiva necessariamente che se il Pequod si fosse portato in quelle acque nel periodo corrispondente l'avrebbe infallibilmente incrociata. Lo stesso valeva per alcuni altri siti d'alimentazione dove Moby Dick si era talora manifestata. Ma questi sembravano essere soltanto luoghi di sosta saltuari, locande sull'oceano, per così dire, non luoghi di lunga dimora. Nel parlare delle possibilità che aveva Ahab di raggiungere il suo obiettivo, finora si è solo fatto riferimento alle sue speranze di riuscita anticipate, secondarie, aggiuntive, prima cioè di raggiungere il tempo e il luogo prestabiliti, allorché ogni possibilità sarebbe divenuta probabilità, e, come Ahab amava ardentemente credere, ogni possibilità sarebbe divenuta quasi certezza. Quella confluenza di tempo e luogo si riassumeva in un termine tecnico: Stagione Equatoriale. Giacché per molti anni consecutivi Moby Dick era stata avvistata «lì e allora», durante il suo soggiorno periodico in quelle acque, così come il sole, nella sua rotazione annuale, si intrattiene in ciascun segno dello Zodiaco per un intervallo di tempo prestabilito. Proprio lì, inoltre, si era verificata la maggior parte degli scontri fatali con la balena bianca; lì le onde erano istoriate delle sue gesta; lì era anche il posto tragico in cui il vecchio monomane aveva trovato l'orrendo movente della sua vendetta. Tuttavia, Ahab, nel gettare la sua anima pensosa in quella caccia risoluta, aveva vagliato cautamente ogni possibilità, usando un'alacre vigilanza, e non si sarebbe mai permesso di riporre tutte le proprie speranze nel singolo dato cruciale testé menzionato, per quanto potesse lusingare quelle speranze. E nell'insonnia in cui lo aveva gettato il suo voto di vendetta, non avrebbe neppure potuto calmare il suo cuore inquieto tanto da rimandare ogni ricerca intermedia.

Ora, il Pequod era salpato da Nantucket proprio all'inizio della Stagione Equatoriale. Nessuna impresa al mondo avrebbe pertanto consentito al suo capitano di compiere la grande traversata verso sud, di doppiare Capo Horn, e poi, risalendo a nord per sessanta gradi di latitudine, di giungere in tempo nel Pacifico equatoriale per battere le sue acque. Egli avrebbe dunque dovuto attendere la stagione successiva. Nondimeno, la partenza prematura del Pequod forse era stata scelta segretamente da Ahab proprio in considerazione di questo insieme di cose. Infatti, egli aveva innanzi a sé un'attesa di trecentosessantacinque giorni e altrettante notti, e invece di passarla a terra soffrendo impaziente, avrebbe impiegato quel lasso di tempo in una caccia mista, nel caso in cui la Balena Bianca, trascorrendo le vacanze in mari molto lontani dai suoi periodici siti di alimentazione, avesse mostrato la sua fronte rugosa al largo del Golfo Persico, o nella Baia del Bengala, o nei Mari della Cina, o nelle altre acque frequentate dalla sua specie. E così i monsoni, i pamperi, i maestrali, gli harmattan, gli alisei, tutti i venti, insomma, tranne il levante e il simun, avrebbero potuto sospingere Moby Dick entro il cerchio tracciato dalla scia del Pequod, nel suo tortuoso zigzagare per il mondo.

Pur ammettendo tutto ciò, tuttavia, a pensarci su con giudizio e con distacco, il fatto che un cacciatore possa riconoscere una singola balena nel vasto oceano sconfinato, sempre che riesca ad avvistarla, come se fosse un Gran Muftì dalla barba bianca nelle strade affollate di Costantinopoli, non è un'idea semplicemente folle? Sì. Ma la particolare fronte nivea di Moby Dick, e la sua gobba nivea, erano davvero inconfondibili. «Non l'ho forse segnata come mia, quella balena?» borbottava fra sé e sé Ahab allorché, dopo essersi consumato la vista sulle carte ben oltre la mezzanotte, tornava a sprofondare nelle sue fantasticherie. «L'ho segnata, e come potrà sfuggire? Le sue larghe pinne sono forate, sfrangiate come l'orecchio di una pecora smarrita!» A questo punto, la sua mente folle si lanciava in una corsa senza respiro, finché, a forza di ponderare, una certa fiacchezza e spossatezza si impossessavano di lui, e allora egli cercava di riacquistare le forze all'aria aperta, sul ponte. Oh, Dio! A quale estasi arriva il tormento di chi è consumato da un unico desiderio di vendetta mai appagato! Egli dorme serrando i pugni e si risveglia con le unghie insanguinate, conficcate nelle palme della mano.

Sovente, quando Ahab veniva strappato dalla branda dai suoi sogni notturni così sfibranti, così intollerabilmente vividi, i quali riprendevano i suoi intensi pensieri diurni e li continuavano in uno stridore di deliri, e li facevano turbinare frenetici nel suo cervello in fiamme, finché il battito del suo stesso centro vitale diventava un'angoscia insopportabile; quando, come talvolta accadeva, questi suoi spasimi spirituali sommuovevano le fondamenta del suo essere e in lui sembrava aprirsi un baratro, dal quale guizzavano su lingue di fuoco e fulmini, e i demoni maledetti gli facevan cenno di saltare giù in mezzo a loro; quando quest'inferno interiore gli si spalancava sotto, allora si udiva un grido selvaggio echeggiare per tutta la nave, e Ahab balzava fuori dalla cabina con gli occhi accesi, come se stesse fuggendo da un letto in fiamme. Tuttavia, questi non erano tanto i sintomi irrefrenabili di debolezza latente o di paura davanti al suo proposito, quanto piuttosto i chiarissimi segni dell'intensità di quel proposito. Giacché, in tali momenti, a farlo schizzar fuori dalla branda, inorridito, non era 1'Ahab che vi si era coricato prima, il folle, astuto, implacabile cacciatore della balena bianca, ma l'anima, o l'eterno principio vitale che era in lui; nel sonno, dissociandosi per il momento dalla mente raziocinante di cui era negli altri momenti strumento o veicolo esterno, l'anima cercava spontaneamente la fuga per distaccarsi da quell'entità frenetica, bruciante, di cui per il momento non era più parte integrante. Ma siccome la mente può esistere solo se associata all'anima, nel caso di Ahab – il quale aveva consegnato ogni pensiero e fantasia a un unico proposito supremo – doveva esser successo che tale proposito, grazie alla propria volontà caparbia, si era erto contro dèi e demoni fino a diventare per autovolizione una sorta di essere indipendente. O meglio, questo proposito poteva vivere e ardere sinistramente, mentre la vitalità terrena alla quale era unito fuggiva inorridita da quella nascita non desiderata, non generata. Perciò lo spirito tormentato che ardeva negli occhi corporei, quando l'essere che aveva le sembianze di Ahab si precipitava fuori dalla cabina, in quel momento non era che una cosa svuotata, un'informe creatura sonnambolica, un raggio di luce viva, questo sìl, ma privo di un oggetto da colorare, e quindi di per sé vacuo. Che Iddio ti aiuti, vecchio. I tuoi pensieri hanno creato in te una creatura, e colui che viene trasformato in un Prometeo dal suo intenso pensiero, si vede divorare eternamente il cuore da un avvoltoio: quell'avvoltoio è la creatura stessa da lui creata.

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Capitolo 47

Il pagliettaio


Era un pomeriggio annuvolato e afoso. I marinai ciondolavano pigri sulla tolda, oppure contemplavano distratti le acque plumbee. Queequeg e io eravamo placidamente intenti a tessere ciò che viene chiamato paglietto a trama, da usarsi come legatura supplementare della nostra lancia. L'intera scena appariva immobile e sommessa ma carica di presagi, e su di essa aleggiava un'aria da favoloso incanto, tanto che tutti i marinai parevano dissolversi silenziosamente nel proprio io invisibile.

Nel nostro lavoro al paglietto facevo da paggio, o valletto, di Queequeg. Io passavo e ripassavo continuamente la trama di lezzino tra i lunghi fili dell'ordito, usando la mano come spola, e Queequeg, in piedi al mio fianco, ogni tanto infilava fra i fili la sua pesante spada di legno di quercia, e volgendo pigramente lo sguardo sull'acqua, spingeva ogni filo al suo posto con fare incurante e distratto. Ripeto, in quel momento regnava ovunque, sulla nave e sul mare, una strana atmosfera di sogno, spezzata solo dal sordo rumore intermittente della spada, tanto che quello sembrava essere il Telaio del Tempo, e io una spola che tesseva e ritesseva meccanicamente le trame del Fato. Ecco lì stendersi i fili fissi dell'ordito, soggetti a un'unica vibrazione, sempre uguale, ricorrente, tale da consentire appena l'intrecciarsi dei suoi fili coi fili trasversali. Questo ordito, pensai, sembra essere la Necessità, e io son qui a guidare con la mia stessa mano la mia stessa spola, a intrecciare la trama del mio stesso Fato con questi fili immutabili. Nel frattempo, la spada di Queequeg calava ogni tanto sulla trama, indifferente e impulsiva, ora di traverso, ora di sbieco, ora forte, ora piano, come voleva la sorte, e questa differenza nel suo ultimo tocco produceva un contrasto corrispondente nell'aspetto finale del tessuto: la spada di questo selvaggio, pensai, che in questo modo modella e foggia definitivamente la trama e l'ordito, questa spada che cala disinvolta e indifferente, dev'essere la sorte... sì, la sorte, il libero arbitrio, e la necessità – per nulla incompatibili – interagiscono, intrecciandosi strettamente. L'ordito diritto della necessità, che non si lascia deviare dalla sua destinazione finale; anzi, ogni sua alterna vibrazione tende unicamente a essa. Il libero arbitrio rimane libero di passare la sua spola fra fili prestabiliti; la sorte è limitata nel suo gioco entro le linee rette della necessità, e guidata lateralmente nei movimenti dal libero arbitrio, ma, seppur controllata da entrambi, li governa a turno, e dà agli eventi l'ultimo tocco distintivo.


Continuavamo a tessere e a ritessere a quel modo, allorché trasalii nell'udire un lungo suono, così strano, così selvaggio e sovrannaturale nella sua musicalità, che il gomitolo del libero arbitrio mi scivolò di mano, e rimasi a mirar le nuvole donde quella voce scendeva aleggiando. In alto arriva, sulle crocette, c'era Tashtego, quel matto d'un Testa Allegra. Con il corpo proteso ansiosamente in avanti e la mano allungata come una bacchetta magica, lanciava a brevi intervalli le sue grida improvvise. Certo, forse proprio in quel medesimo istante, lo stesso suono echeggiava per tutti i mari, lanciato da centinaia di balenieri di vedetta appollaiati in aria, alla stessa altezza, ma pochi di loro, nel lanciare quel consueto antico grido, potevano trarre dai polmoni una cadenza così meravigliosa come quella dell'indiano Tashtego.

Vedendolo librarsi a quel modo sul vostro capo, quasi sospeso in aria, con quel suo sguardo così ansioso e selvaggio teso a scrutare l'orizzonte, lo avreste detto un profeta o un veggente che scorgesse le ombre del Fato e che ne stesse annunciando l'arrivo con le sue grida selvagge.

«Eccola che sfiata! Eccola! Eccola! Eccola! Sfiata! Sfiata!».

«Da che parte?».

«Dritto pel traverso; di sottovento, due miglia al largo circa! Ce n'è un branco intero!».

Scoppiò il trambusto generale.

Il Capodoglio sfiata con regolarità immutabile e costante come il ticchettio di un orologio. Ciò consente ai balenieri di distinguere questo pesce da tutte le altre tribù della sua razza.

«Eccola che va di coda!» gridò ora Tashtego, e le balene scomparvero.

«Svelto, cambusiere!» gridò Ahab. «L'ora! L'ora!».

Pastella corse sottocoperta, gettò un'occhiata all'orologio e riferì ad Ahab l'ora esatta al minuto.

La nave allontanò ora la prua dal vento, rollandogli dolcemente innanzi. Poiché Tashtego aveva riferito che le balene si erano immerse dirigendosi sottovento, confidavamo di vederle riapparire proprio davanti alla nostra prora, data la singolare abilità dimostrata talvolta dal capodoglio allorché, dopo essersi immerso con la testa rivolta in una direzione, si gira su se stesso mentre è nascosto alla vista sott'acqua e fugge nuotando velocemente verso la quarta opposta — in quel caso quel suo stratagemma non poteva essere stato messo in atto, in quanto non vi era motivo di supporre che il pesce visto da Tashtego si fosse minimamente allarmato, o che si fosse addirittura accorto della nostra vicinanza. Uno degli uomini scelti come guardiani di nave, ovvero quelli non assegnati alle lance, diede intanto il cambio all'indiano sul colombiere di maestra. I marinai di vedetta all'albero di trinchetto e all'albero di mezzana erano già scesi. Le tinozze delle lenze vennero sistemate al loro posto, le grue mobili vennero sospinte fuori, il pennone di maestra venne bracciato a collo, e le tre lance presero a dondolare sul mare come tre ceste di baciglia sulle alte scogliere. Fuori dalle murate di coperta, gli uomini dell'equipaggio con una mano si aggrappavano impazienti alla ringhiera della nave, mentre già poggiavano speranzosi un piede sulla falchetta della lancia. Tali appaiono i marinai in fila sulle navi da guerra, pronti a gettarsi all'arrembaggio di una unità nemica.

Ma in quel momento critico si udì un'esclamazione improvvisa che distolse lo sguardo di ognuno dalle balene. Trasalendo, si volsero tutti a fissare attoniti il cupo Ahab, attorniato da cinque foschi fantasmi che parevano essersi materializzati dal nulla.

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Capitolo 48

Il primo ammaino delle lance


I fantasmi, poiché quegli uomini allora ci apparvero tali, volteggiavano rapidi e leggeri dall'altra parte del ponte, mentre, senza far rumore, liberavano dai paranchi e dalle rizze la lancia che dondolava là sospesa. Quella era sempre stata considerata una lancia di riserva, anche se tecnicamente veniva chiamata lancia del capitano, in quanto sospesa sul giardinetto di dritta. Il personaggio ora ritto accanto ai masconi della lancia era alto e bruno, con un unico dente bianco che gli sporgeva maligno dalle labbra d'acciaio. Il suo vestimento funereo era costituito da una sgualcita casacca cinese di cotone nero e ampi calzoni neri della stessa stoffa scura. A coronare curiosamente quel completo nero ebano, vi era però un turbante a treccia di un bianco lucente, composto dai suoi nudi capelli addugliati sul capo in un'alta crocchia. I compagni di questo personaggio, meno bruni d'aspetto, avevano la carnagione di un intenso color giallo tigre, caratteristica di certi indigeni delle Filippine ... una genia ahimé tristemente nota per una sottile diabolicità, e composta, secondo alcuni onesti marinai bianchi, di spie prezzolate e di fidati agenti segreti dislocati in mare, al soldo del diavolo, loro signore, il cui ufficio contabile si ritiene sia locato altrove.

«Fedallah, siete pronti, laggiù?» gridò Ahab al vecchio dal turbante bianco, il loro capo, mentre la ciurma fissava ancora stupita quegli sconosciuti.

«Pronti», rispose quello con un mezzo sibilo.

«Ammaina, allora!» urlò Ahab lungo la coperta. «Avete sentito? Ammaina, ho detto!».

La sua voce risuonò così tonante che, a dispetto del loro stupore, i marinai scavalcarono d'un balzo la ringhiera: le pulegge mulinarono nei bozzelli e le tre lance rollando calarono in mare. Nel frattempo i marinai, con un gesto abile e audace sconosciuto in qualsiasi altro mestiere, balzarono come capre dalla banda ondeggiante della nave, per gettarsi giù, nelle lance sballottate dalle onde.

Si erano appena allontanati dal lato sottovento, allorché dal lato sopravvento giunse un quarto scafo che girò sotto la poppa della nave, rivelando i cinque sconosciuti ai remi che spingevano Ahab, il quale, ritto a poppa, chiamò a gran voce Starbuck, Stubb e Flask, ordinando loro di allargarsi in modo da coprire un ampio tratto di mare. Ma poiché gli occhi di tutti erano nuovamente inchiodati sul bruno Fedallah e sul suo equipaggio, gli occupanti delle altre lance non obbedirono al suo ordine.

«Capitano Ahab...?» fece Starbuck.

«Allargatevi», gridò Ahab. «Arranca, tutt'e quattro le lance. Tu, Flask, spingiti più sottovento!».

«Sì, sì, signore», gridò allegramente il piccolo Puntale con un movimento circolare del suo grosso remo di coda. «Rincula!» aggiunse rivolto alla ciurma. «Eccola! Eccola...! Eccola di nuovo! Eccola che sfiata! Dritto a prua, ragazzi! Rincula! Archy, non far caso a quei tizi gialli laggiù».

«Oh, io non ci bado, signore!» disse Archy. «Sapevo già tutto, io. Non li avevo forse sentiti nella stiva? E non glielo avevo forse detto a Cabaco, qui? Che ne dici, ora, Cabaco? Sono clandestini, Flask».

«Voga, voga, tesorucci miei; voga, figlioli miei; voga, bimbi miei!» sussurrò Flask con voce lenta e carezzevole agli uomini del suo equipaggio, fra cui qualcuno dava ancora segni di disagio. «Perché non vi spaccate la schiena, ragazzi miei? Che avete da guardare? Quei tipi laggiù, nella lancia? Bah! Son solo cinque marinai in più venuti a darci una mano... che vi importa da dove vengono... più siamo meglio è. Voga, dunque, voga: che vi importa dello zolfo... i diavoli son brava gente, in fondo. Così, così, adesso sì che ci siamo! Ecco la remata da mille sterline, ecco la remata che si prende tutto il piatto! Viva la coppa d'oro di spermaceti, miei prodi! Tre urrà, marinai... tesorucci miei! Adagio, adagio, non abbiate fretta... non abbiate fretta. Ma perché non li azzannate, quei remi, canaglie? Stringete qualcosa fra i denti, cani! Così, così, così, ecco... piano, piano! Ci siamo... ci siamo! Voga lungo e forte. Ehi, laggiù, arranca, arranca! Che il diavolo vi porti, miserabili furfanti! Dormite tutti. Smettetela di ronfare, dormiglioni, e voga. Voga... sì o no? Cos'è... non volete vogare? Non ce la fate a vogare? Voga, eh? Santo zenzero! Gobioni che non siete altro, ma perché non vogate? Vogate fino a schiantarvi! Vogate finché non vi schizzano gli occhi di fuori! Ecco qua!» E sfoderò il suo coltello affilato dalla cintola. «Tutti quanti, tirate fuori il coltello e vogate con la lama fra i denti. Così... così. Adesso sì che ci siamo, miei morsi d'acciaio! Fatela filare, fatela filare, miei cucchiaini d'argento! Fatela filare, fatela filare, caviglie di ferro!

L'esordio oratorio di Stubb indirizzato agli uomini del suo equipaggio viene riportato qui per esteso, poiché egli aveva, in genere, un modo alquanto singolare di apostrofarli e, soprattutto, di inculcare in loro la fede per la voga. Da questo saggio dei suoi sermoni, tuttavia, non si deve necessariamente arguire ch'egli poi s'adirasse per davvero con la sua congregazione. Tutt'altro: e proprio in questo consisteva la sua maggiore peculiarità. Era capace di dire al suo equipaggio le cose più tremende, in uno strano tono in cui si mescolavano burla e collera, e la collera sembrava essere dosata in modo tale da rendere gustosa la burla, tanto che nessun rematore poteva udire quelle sue esortazioni bizzarre senza vogare come se ne andasse della propria vita, e allo stesso tempo vogava semplicemente perché divertito dalla cosa. Bisogna inoltre aggiungere che lo stesso Stubb aveva sempre un'aria talmente paciosa e indolente, manovrava il suo remo di coda con tale pigrizia, sbadigliava in modo talmente vistoso, fino a spalancar la bocca, che la sola vista di un comandante in preda a quegli sbadigli, per puro contrasto, sortiva un effetto malioso sull'equipaggio. D'altro canto, Stubb apparteneva a quella strana razza di buontemponi la cui allegria è talora così curiosamente ambigua che i loro sottoposti, nel dubbio, si cautelano guardandosi bene dal disobbedire.

Obbedendo a un segnale di Ahab, Starbuck stava ora avanzando obliquamente davanti alla prua di Stubb, e allorché le due lance per qualche attimo si trovarono abbastanza vicine, Stubb chiamò il primo ufficiale.

«Starbuck! Ohé, della lancia a babordo! Signore, se non vi spiace vorrei scambiare due parole con voi!».

«Ohilà», replicò Starbuck senza girarsi minimamente verso Stubb, continuando invece a incitare con fervore l'equipaggio, seppur sottovoce, con la sua faccia dura come la selce.

«Che ne pensate di quei tizi gialli, signore?».

«Imbarcati clandestini prima che la nave salpasse. (Forza, forza ragazzi!)» bisbigliò intanto all'equipaggio, parlando poi di nuovo a voce alta: «Brutta faccenda, Stubb! (Ragazzi, fatela schiumare, l'acqua!) Ma non preoccupatevi, meglio così. Assicuratevi che la vostra ciurma voghi forte, per il resto vada come vuole («Scattate, uomini, scattate!»). Stubb, davanti a voi, a proravia, ci sono interi caratelli di spermaceti che vi attendono, ed è per questo che siete qui. («Voga, ragazzi») È in palio lo spermaceti, lo spermaceti! È un dovere, perlomeno. Il dovere e il profitto che vanno a braccetto!».

«Sì, sì, è quel che ho pensato anch'io», disse Stubb tra sé e sé quando le lance si scostarono, «l'ho pensato non appena li ho visti. Sì, ecco perché Ahab scendeva così sovente nella stiva di poppa, come Pastella sospettava da un pezzo: erano nascosti laggiù. Sotto questa storia c'è la Balena Bianca. Beh, beh, così sia! Non ci si può far niente! D'accordo! Arranca, marinai! Oggi non è il giorno della Balena Bianca! Arranca!».

Ora, l'avvento di quegli stranieri esotici, in un momento particolarmente critico come l'ammaino delle lance dal ponte, aveva comprensibilmente risvegliato in alcuni uomini dell'equipaggio una sorta di stupore superstizioso, ma la voce della fantastica scoperta di Archy, diffusasi fra loro ormai da tempo, anche se al momento non aveva goduto di molto credito, li aveva in seppur minima misura preparati all'evento. Aveva attutito lo stupore della scoperta. E dunque, sia per questo motivo, sia per il tono fiducioso con cui Stubb aveva spiegato la loro apparizione, i marinai furono per il momento liberi da congetture superstiziose, sebbene vi fosse ancora abbondante spazio per ipotesi azzardate d'ogni genere circa il ruolo preciso svolto fin dall'inizio dal cupo Ahab in questa vicenda. Quanto a me, rammentai in silenzio le ombre misteriose che avevo visto scivolare a bordo del Pequod in quella fioca alba di Nantucket, e le enigmatiche allusioni dell'ineffabile Elia.

Nel frattempo, Ahab, essendosi spinto tutto a sopravvento, era troppo lontano per poter udire i suoi ufficiali. La lancia che lo trasportava precedeva ancora le altre lance, a dimostrazione della potenza dei rematori. Quelle sue creature giallo-tigre sembravano fatte interamente d'acciaio e d'osso di balena: a ogni vogata regolare, si sollevavano e si abbassavano con forza, come cinque magli meccanici, facendo scattare la lancia ritmicamente sull'acqua, come un battello del Mississipi sospinto dal getto orizzontale di una caldaia a vapore. Quanto a Fedallah, che si vedeva vogare al remo del ramponiere, s'era tolto la giacchetta nera gettandola in disparte, ostentando il petto nudo, e il suo intero torso s'ergeva sopra la falchetta, stagliandosi nettamente contro gli avvallamenti ondulati dell'orizzonte acqueo. Al capo opposto della lancia, si vedeva Ahab col braccio sollevato a mezz'aria e teso all'indietro, in posa da schermidore, quasi a voler controbilanciare ogni possibile perdita d'equilibrio mentre manovrava saldamente il remo di coda, come lo si era visto fare migliaia di volte nelle lance ammainate, prima che la Balena Bianca lo dilaniasse. Tutt'a un tratto, il suo braccio teso compì un movimento particolare per poi arrestarsi, e si videro i cinque remi della lancia levarsi a picco simultaneamente. Lancia e ciurma stettero immobili sul mare. Le tre lance sparse dietro di loro sospesero all'istante la loro avanzata. Le balene si erano immerse in massa nel blu del mare, in modo anomalo, senza perciò fornire alcuna traccia, percepibile a distanza, della direzione del loro moto, però Ahab, il più vicino di tutti, lo aveva potuto osservare.

«Ognuno all'erta lungo la linea del suo remo!» gridò Starbuck. «Tu, Queequeg, in piedi!».

Il selvaggio saltò agilmente sulla cassetta triangolare rialzata, situata a prua, e rimase lì ritto, a scrutare con sguardo intenso e ansioso il punto in cui era stata scorta da ultimo la preda. Analogamente, all'estremità poppiera della lancia, dov'era situata un'altra cassetta triangolare a filo con la falchetta, si vedeva lo stesso Starbuck reggersi in equilibrio, reagendo con fredda abilità alle scosse e ai sobbalzi di quel suo spicchio di scafo, gettando silenziosamente l'occhio sul vasto occhio azzurro del mare.

Non molto distante, anche la lancia di Flask attendeva immota, col fiato sospeso: il suo comandante se ne stava temerariamente ritto sul testone, un robusto pezzo di legno incastrato nella chiglia, il quale sporge di circa due piedi sulla piattaforma, usato per dar volta alla sagola dell'arpione. In cima esso non è più largo di un palmo di mano, per cui, stando ritto su una base simile, Flask pareva appollaiato sulla testa d'albero di una nave affondata fino ai pomi. Puntale era piccolo e basso, ma le sue ambizioni erano grandi ed elevate, cosicché quel posto di osservazione sul testone lo lasciava del tutto insoddisfatto.

«Non ci vedo tre onde più in là: tiriamo su un remo, così ci monto sopra».

A queste parole, Daggoo, reggendosi alla falchetta ora con una mano ora con l'altra, scivolò lesto a poppa, quindi, ergendosi in tutta la sua maestosa altezza, offrì a Flask le spalle come piedistallo.

«Una testa d'albero come un'altra, signore. Volete salire?».

«Per salire ci salgo, e ti ringrazio tanto, amico mio: vorrei solo che fossi cinquanta piedi più alto».

Al che, puntandosi saldamente contro due tavole ai lati opposti della lancia, il gigantesco negro, chinandosi leggermente, offrì il suo palmo aperto al piede di Flask, poi spinse la mano di questi sulla sua testa impennacchiata come un baldacchino funebre, invitandolo a saltar su mentre lui lo sollevava, e con un'abile spinta si tirò in secco l'ometto sulle spalle. Flask ora se ne stava ritto lassù, mentre Daggoo, col braccio sollevato, gli forniva un guardacorpo contro cui appoggiarsi e tenersi in equilibrio.

È sempre uno strano spettacolo, per un novizio, vedere la mirabile abilità istintiva con cui il baleniere si mantiene abitudinariamente in posizione eretta sulla lancia, anche se sballotata dal perfido incrociarsi delle onde tumultuose. Ancor più strano, in quelle circostanze, è vederlo vertiginosamente appollaiato sul testone. Ma lo spettacolo del piccolo Flask in groppa al gigantesco Daggoo era più curioso ancora, giacché il nobile negro si manteneva in equilibrio in modo barbaricamente maestoso, inopinatamente freddo e distaccato, accompagnando ogni rollio del mare col rollio armonioso della sua bella figura. Sulle ampie spalle di Daggoo, Flask, coi suoi capelli flavi, pareva un fiocco di neve. La cavalcatura aveva un aspetto più nobile del cavaliere. Il piccolo Flask, invero vivace, irruente, altezzoso, di quando in quando scalpitava d'impazienza, senza per questo suscitare un solo ansito nel superbo petto del negro. Così ho visto Passione e Vanità scalpitare sulla prodiga terra viva, senza che per questo la terra alterasse le maree e le stagioni.

Frattanto Stubb, il secondo ufficiale, non palesava simili smanie di lungimiranza. Le balene forse avevano compiuto una delle loro consuete immersioni in profondità, non una semplice discesa temporanea dettata dalla paura, e se le cose stavano così, Stubb era deciso a trascorrere la snervante attesa col conforto della sua pipa, com'era solito fare in quei casi. E dunque sfilò la pipa dalla fascia del cappello, dove la teneva sempre inclinata a mo' di piuma, la caricò e pressò per bene il tabacco con la punta del pollice. Aveva appena acceso il fiammifero contro il suo palmo ruvido come cartavetro, quando all'improvviso Tashtego, il suo ramponiere, con gli occhi puntati sopravvento come due stelle fisse, si lasciò cadere sullo scanno a velocità della luce, gridando frenetico: «Giù, giù tutti, e arranca! Eccole là!».

In quel momento, l'occhio inesperto di un terraiolo non avrebbe scorto non dico una balena, ma nemmeno l'ombra di un'aringa. Nulla, se non un piccolo tratto d'acqua mossa di colore bianco-verdognolo, e qualche rado sbuffo di vapore che vi aleggiava sopra, per poi soffondersi sottovento, come la vaga spuma bianca che s'alza dai marosi. All'improvviso, l'aria attorno prese a vibrare, fremendo, per così dire, come su di una piastra di ferro rovente. Sotto quell'atmosfera ondulata e increspata, sotto un sottile strato d'acqua, nuotavano le balene. I primi segni visibili della loro presenza, gli sfiati di vapore che esse emanavano, parevano le loro staffette distaccate, i loro battistrada volanti.

Tutt'e quattro le lance puntarono ora all'inseguimento del punto dove l'acqua e l'aria apparivan mosse, ma quello era deciso a distanziarle, e fuggiva, fuggiva, come un vortice di bolle in un torrente di montagna trascinato rapidamente a valle.

«Voga, voga, miei bravi ragazzi», diceva Starbuck ai suoi uomini, nel modo più sommesso ma anche più intenso possibile, mentre il suo sguardo fisso dardeggiava a proravia, da quegli occhi che quasi parevano gli aghi magnetici di due infallibili bussole di chiesuola. Pur tuttavia, Starbuck non diceva molto all'equipaggio, né l'equipaggio diceva a lui alcunché. Il silenzio della lancia si limitava a essere lacerato ogni tanto, senza preavviso, da uno dei suoi caratteristici sussurri ora aspri e imperiosi, ora miti e supplichevoli.

Che differenza con il chiassoso, piccolo Puntale! «Cantate qualcosa a squarciagola, miei prodi! Rombate e remate, miei tuoni! Fatemi arenare sul dorso nero di quelle balene laggiù, ragazzi: fatelo per me, e vi cedo per iscritto la mia tenuta di Martha's Vineyard, moglie e figli compresi. Sbarcatemi là...! Sbarcatemi là! Buon Dio! Buon Dio! Finirò per diventar matto, matto da legare! Guardate! Guardate quell'acqua bianca!» Urlando a quel modo, si levò il cappello e si mise a saltellare calpestandolo, poi lo raccolse e lo scagliò lontano in mare, infine prese a impennarsi e abbassarsi nella poppa della lancia, come un puledro della prateria impazzito.

«Ma guarda che tipo», biascicò serafico Stubb, la pipetta spenta ancora serrata meccanicamente fra i denti, mentre seguiva Flask dappresso in poppa. «È uscito dai gangheri. I gangheri? Sì... è proprio la parola giusta... Sì, infiliamoglieli dentro, a quella balena là... infiliamoglieli dentro a tutte quelle balene. Allegria, allegria, tesorucci miei! A cena v'aspetta il budino. Allegria è proprio la parola giusta. Voga, piccini, voga, poppanti, voga insieme! Ma perché diamine avete tanta fretta? Adagio, adagio, amici miei, alla via così. Voga, voga solo, nient'altro. Spaccatevi la schiena e spezzate il coltello che avete fra i denti... tutto qui. Calma... prendetevela calma, ho detto... e fatevi schiattare il fegato e i polmoni!».

Ma quello che l'imperscrutabile Ahab diceva alla sua ciurma giallo-tigre... son parole che qui è meglio sottacere, giacché voi vivete nella terra illuminata dalla luce beata del vangelo. Solo gli empi squali nei mari temerari possono prestare orecchio a parole come quelle pronunciate da Ahab, allorché, con il ciglio turbinoso, gli occhi iniettati di sangue e le labbra serrate grondanti di schiuma, balzava dietro la sua preda.

Nel frattempo tutte le lance continuavano nella loro corsa. I riferimenti continui, ripetuti, di Flask a «quella balena», com'egli soleva chiamare il mostro immaginario, che, a suo dire, tantaleggiava incessante la lancia con la coda, questi suoi accenni a volte erano talmente vivi e realistici da indurre un paio dei suoi uomini a voltarsi, guardandosi atterriti alle spalle. Ma ciò andava contro ogni regola, poiché i rematori devono cavarsi gli occhi e infilarsi uno spiedo nel collo: la consuetudine, difatti, vuole che in momenti così critici essi non abbiano altri organi che le orecchie, e non abbiano altri arti che le braccia.

Era uno spettacolo che incuteva viva meraviglia e sgomento. Gli immensi marosi del mare onnipotente; il fragore cupo e avvolgente che producevano rollando lungo le otto falchette, come bocce gigantesche in uno sconfinato campo di bocce; l'istante di agonia della lancia quando, ergendosi, restava in bilico sulla lama di coltello delle onde più affilate che minacciavano quasi di tagliarla in due; il tuffo repentino nelle ime valli e gole acquatiche; i pungenti colpi di sperone e di pungolo per guadagnare la cima dell'altura opposta; la discesa a capofitto, scivolando giù lungo l'altro pendio, come su una slitta – tutto questo, unito alle grida dei capibarca e dei ramponieri, agli ansiti frementi dei rematori, con lo stupefacente spettacolo del Pequod eburneo che si dirigeva verso le sue lance a vele spiegate, così come la gallina prataiuola va dietro la sua nidiata di pulcini pigolanti – tutto questo era emozionante. La recluta alle prime armi, la quale, lasciato l'abbraccio della moglie, si getti nella foga febbrile della sua prima battaglia, o lo spirito di un morto che incontri nell'aldilà il primo fantasma sconosciuto – né l'uno né l'altro può provare emozioni più strane e più forti di chi, per la prima volta, si trovi a vogare nel cerchio incantato, ribollente di schiuma, del capodoglio cui si dà la caccia.

L'acqua bianca tremolante prodotta dalla preda diventava ora sempre più visibile per l'incupirsi delle nuvole che gettavano la loro ombra grigia sul mare. I getti di vapore non si fondevano più, ma si inclinavano in ogni direzione, a destra e a manca: le scie delle balena parevano distaccarsi. Le lance si separarono ancor di più. Starbuck diede la caccia a tre balene che correvano dritte sottovento. Issammo allora la vela e, con il vento sempre più teso, ci lanciammo in avanti. La lancia fendeva furiosa l'acqua, a tale velocità che nel manovrare i remi sottovento quasi non riuscivamo a evitare che fossero divelti dagli scalmi.

Presto ci ritrovammo a correre avvolti in un ampio velo di soffusa foschia: non si vedeva più né nave né lancia.

«Arranca, marinai», sussurrò Starbuck, cazzando la scotta della sua vela, «c'è ancora tempo di uccidere una balena prima che venga burrasca. Ecco lì di nuovo l'acqua bianca...! Accosta! Scatta!».

Di lì a poco, due grida in rapida successione da entrambi i lati ci annunciarono che le altre lance avevano fatto presa. Ma avevamo appena udito quelle grida che un sussurro di Starbuck saettò nell'aria: «Alzati!» disse, e Queequeg scattò subito in piedi, il rampone in mano.

Benché nessuno dei rematori in quel momento vedesse in faccia quel pericolo così vicino, capace di decidere vita o morte, pure, fissando l'espressione intensa dell'ufficiale a poppa capirono che il gran momento era imminente, e udirono anche un enorme rumore, come se cinquanta elefanti si rivoltassero nel loro strame. Intanto, la lancia procedeva sempre a capofitto nella foschia, con le onde che si impennavano attorno a noi, sibilando come serpenti infuriati dalla cresta eretta.

«Ecco la sua gobba! Lì, lì, dagli dentro!» sussurrò Starbuck.

Si udì un fruscio guizzare fuori dalla lancia: era il ferro scagliato da Queequeg. Poi, nello scompiglio causato dal fondersi di più eventi, la lancia venne spinta a poppa da una forza invisibile, mentre a prua parve urtare contro una catena di scogli: la vela cadde squarciandosi, un getto di vapore bollente schizzò su, vicinissimo, qualcosa rotolò e ruzzolò sotto di noi, come un terremoto. Tutti gli uomini dell'equipaggio vennero gettati alla rinfusa nel caglio bianco e cremoso del mare in burrasca, restandone quasi soffocati. Burrasca, balena e rampone si erano mescolati insieme, amalgamandosi. La balena, appena scalfita dal ferro, fuggì.

Sebbene interamente allagata, la lancia era pressoché intatta. Nuotando, ripescammo i remi che le galleggiavano intorno e, assicuratili al di là della falchetta, rotolammo a bordo per riprendere i nostri posti. Una volta dentro, ci tirammo su a sedere, con l'acqua che ci arrivava alle ginocchia, coprendo ogni costa e ogni tavola della lancia, cosicché, abbassando lo sguardo, ci pareva di essere sospesi su una barca di corallo cresciuta fino a noi dal fondo dell'oceano.

Il soffio del vento divenne ululo. Le onde si scontrarono cozzando i loro scudi. La burrasca ci avvolse ruggendo, serpeggiando, crepitando, come il fuoco bianco in una prateria in fiamme, in cui bruciavamo senza consumarci: eravamo immortali in quelle fauci di morte! Invano chiamammo le altre lance: in quel fortunale, chiamarle era come urlare ai carboni ardenti nella ciminiera di una fornace accesa. Frattanto il rapido cumulo di nuvole, vapori e foschie si incupiva col giungere delle ombre della sera: della nave non si vedeva traccia. Il mare montante precludeva ogni nostro tentativo di aggottare la lancia. I remi, inutili come propulsori, fungevano ora da salvagenti. Così, tagliata la rizza del barilotto impermeabile degli zolfanelli, dopo molti tentativi andati a vuoto, Starbuck riuscì ad accendere la candela nella lanterna, poi, fissandola su un palo con guidone, la porse a Queequeg, l'alfiere di quella nostra desolata speranza. E Queequeg dunque si sedette là, a reggere quel lume nel cuore dell'onnipotente desolazione. Se ne stava là, segno e simbolo di un uomo senza fede che reggeva disperatamente la luce della speranza in mezzo alla disperazione.

Al sorger dell'alba, fradici fino al midollo, tremanti di freddo, sollevammo lo sguardo, disperando ormai di scorgere nave o lancia. La foschia si stendeva ancora sul mare, la lucerna scarica giaceva in frantumi sul fondo della lancia. Tutto a un tratto, Queequeg balzò in piedi portandosi la mano a imbuto intorno all'orecchio. Udimmo tutti un flebile cigolio, come di cavi e pennoni, che finora era stato attutito dal fortunale. Il suono si fece sempre più vicino. Le dense foschie vennero fievolmente dischiuse da una sagoma enorme, incerta. In preda al terrore, saltammo tutti in mare, mentre la nave si profilava minacciosa, puntando dritta su di noi, a una distanza non molto più grande della sua lunghezza.

Nel tenerci a galla, vedemmo per un attimo la lancia abbandonata che si scrollava e squarciava sotto la prora della nave, come un pezzetto di legno alla base di una cascata, poi l'immenso scafo le fu addosso ed essa scomparve, per poi riapparire sballottando a poppa. Mentre nuotavamo nuovamente verso la lancia, i marosi ci spinsero contro di lei, finché fummo finalmente raccolti e portati in salvo a bordo. Prima che la burrasca si avvicinasse, le altre lance avevano mollato i loro pesci ed erano tornate alla nave per tempo. La nave ci aveva dato per spacciati, ma stava ancora incrociando le acque lì intorno, nel caso riuscisse a trovare qualche traccia della nostra fine... un remo o un'asta di lancia.

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«Ala... ala!» gridò Stubb al prodiere; girandosi verso la balena, tutti gli uomini presero ad alare per avvicinarle la lancia, mentre questa ancora veniva rimorchiata. Ben presto andarono ad affiancarsi alla balena, e Stubb, piantato saldamente il ginocchio contro la galloccia rozza, scagliò un dardo dopo l'altro nel pesce in fuga. Ai suoi ordini, la lancia ora ruotava di poppa per sottrarsi all'orrendo diguazzare della balena, ora riaccostava per permettergli di scagliare un altro dardo.

Dai fianchi del mostro sgorgava a fiotti una marea rossa, come tanti ruscelli giù dalla collina. Il suo corpo straziato non rollava più nella salsedine ma nel sangue, che gorgogliava e ribolliva per acri nella loro scia. I raggi obliqui del sole, danzando su quello stagno marino vermiglio, si riflettevano sui loro volti così fiammeggianti che l'uno pareva all'altro un pellerossa. In quel mentre, dallo spiracolo della balena agonizzante si susseguivano gli spruzzi di vapore bianco, e dalla bocca del capolancia fremente si susseguivano veementi gli sbuffi di fumo; e dopo ogni colpo, recuperata la sua lancia contorta (grazie alla sagola a cui era attaccata), Stubb tornava ripetutamente a raddrizzarla contro la falchetta, con pochi colpi veloci, e tornava ripetutamente a scagliarla nella balena.

«Avvicina... avvicina!» gridò ora Stubb al prodiere, mentre la furia della balena languente andava scemando.

«Avvicina...! A segno!». E la lancia s'affiancò al pesce. Allora Stubb, tutto proteso fuori dalla prora, prese a rimestare lentamente la sua lunga asta affilata dentro i visceri del pesce, come in una zangola, e la tenne lì, mestando e rimestando con cura, cautamente, come se vi cercasse a tentoni un orologio d'oro che la balena poteva aver ingoiato e temesse di romperlo prima di riuscire a ripescarlo. Ma l'orologio d'oro che andava cercando era la vita più interna del pesce. E la trovò, giacché il mostro, passando dal torpore a quei suoi indicibili ultimi "sussulti", come vengon chiamati, prese a diguazzare in modo orrendo nel proprio sangue, avvolgendosi in uno strato impenetrabile di schiuma furiosa, ribollente, cosicché il legno, in pericolo, scivolò subito indietro e, procedendo alla cieca, riuscì faticosamente a lasciare quel crepuscolo frenetico per tornare alla limpida aria del giorno.

E ora la balena, i cui sussulti s'andavano affievolendo, si sollevò per girarsi da un fianco all'altro, mostrandosi ancora una volta alla vista, dilatando e contraendo convulsa lo sfiatatoio, coi suoi rantoli d'agonia, secchi, laceranti. Infine, nell'aria atterrita si levarono fiotti e fiotti di sangue grumoso, di colore porporino, come la feccia del vino rosso, i quali, ricadendo, sgocciolarono lungo i suoi fianchi ora immobili, finendo in mare. Le era scoppiato il cuore!

«È morta, Stubb» disse Daggoo.

«Sì, si sono spente tutt'e due le pipe!» E togliendosi la sua di bocca, Stubb sparse le morte ceneri sull'acqua, poi stette un attimo a osservare pensoso quel corpo immenso che egli aveva reso cadavere.

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Nel caso di un Capodoglio piccolo, il suo cervello viene considerato un piatto raffinato. Lo scrigno che lo racchiude viene forzato con un'accetta e ne vengono estratti i due paffuti lobi biancastri (del tutto simili a due grossi budini), i quali vengono poi mescolati con la farina fino a formare una deliziosa pastella morbida che, cucinata, ricorda in quanto a sapore la testina di vitello, considerata un piatto squisito da alcuni epicurei; e tutti sanno che fra gli epicurei vi sono certi giovani bellimbusti, i quali, a forza di mangiare sempre cervello di vitello, a poco a poco sviluppano un cervello tutto loro, grazie al quale sono in grado di distinguere una testa di vitello dalla propria, il che richiede un acume davvero non comune. Ed ecco spiegato perché un giovane bellimbusto che abbia davanti a sé una testa di vitello dallo sguardo intelligente sia, in certo qual modo, uno degli spettacoli più tristi a vedersi. La testa lo guarda quasi con aria di rimprovero, come per dire: «Et tu, Brute!».

Forse non è unicamente per l'oleosità eccessiva della balena che gli uomini di terra sembrano ripugnare l'idea di nutrirsi della sua carne, ma pare essere il risultato, in un certo senso, di quanto detto prima, ovvero, il fatto che un uomo mangi una creatura del mare appena assassinata e che per giunta la mangi al lume che essa stessa produce. Il primo uomo che uccise un bue fu senza dubbio considerato un assassino, e forse fu anche impiccato; e se fosse stato giudicato da un tribunale di buoi, impiccato lo sarebbe stato certamente, e se lo sarebbe certamente meritato, al pari di qualsiasi assassino, sempre che meriti questa punizione. Andate al mercato della carne, il sabato sera, a guardare la folla di bipedi vivi che sollevano lo sguardo verso le lunghe file di quadrupedi morti. Non è spettacolo da far cascare i denti a un cannibale? Un cannibale? E chi non è cannibale? In verità, vi dico che nel giorno del Giudizio avrà una sorte più sopportabile un indigeno delle Fiji, il quale, in previsione di una prossima carestia, abbia messo un missionario magro sotto sale, conservandolo in cantina, vi dico che questo previdente figiano avrà una sorte più sopportabile di te, gourmet civilizzato e illuminato, di te che inchiodi le oche a terra e banchetti col loro fegato gonfio, nel tuo pâté-de-foie-gras.

Stubb, però, mangia la balena al lume che essa stessa produce, non è vero? Ciò significa aggiungere insulto all'ingiuria, non è così? Da' un'occhiata al manico del tuo coltello, o mio civilizzato e illuminato gourmet, tu che stai cenando a base di arrosto di manzo: di che cosa è fatto il manico? Di che cosa, se non delle ossa del fratello dello stesso bue che stai mangiando? E che cosa usi per stuzzicadenti, dopo aver divorato quell'oca grassa? Una penna dello stesso volatile. E con che calamo il Segretario della Società per l'Abolizione delle Crudeltà verso i Paperi redige ufficialmente le sue circolari? È solo da un mese, al massimo due, che quella Società ha adottato una risoluzione che raccomanda l'uso esclusivo di penne d'acciaio.

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Capitolo 133

La caccia: il primo giorno


Quella notte durante la seconda guardia, il vecchio, lasciato il boccaporto da cui si affacciava per raggiungere il suo foro a perno in coperta – così come soleva fare a volte – all'improvviso protese fieramente la faccia annusando l'aria marina, come un cane di bordo dotato di fiuto fine quando ci si avvicina a un'isola barbara. Affermò che doveva esserci qualche balena nelle vicinanze. Quell'odore particolare emanato dal capodoglio vivo, e percepibile a grande distanza, venne avvertito da tutti gli uomini di guardia; nessun marinaio si stupì allorché Ahab, dopo aver consultato la bussola e il mostravento, e aver determinato con la maggior precisione possibile la precisa provenienza dell'odore, ordinò subito di modificare leggermente la rotta e di ridurre la velatura.

L'acuta sagacia che gli suggerì queste mosse trovò sufficiente conferma all'alba, quando si vide direttamente a proravia una lunga striscia affusolata e liscia come l'olio, orlata da increspature d'acqua, simili ai lucenti segni metallici di un veloce frangente di marea, presso la foce di un torrente rapido e profondo.

«Arma i colombieri! Tutti in coperta!».

Usando l'impugnatura di tre aspe a mo' di clava, Daggoo prese a picchiare sul tavolato del castello di prua, producendo un rumore di tuono che pareva l'annuncio del Giudizio Universale, tanto da destare immediatamente i dormienti, i quali emersero in un soffio dal boccaporto coi vestiti in mano.

«Che cosa vedete?» urlò Ahab, la faccia parallela al cielo.

«Niente, signore, niente!» fu il grido di risposta d'arriva.

«I velacci! I coltellacci! Molla i terzaruoli alle gabbie, e alle bande!».

Dopo che furono spiegate tutte le vele, Ahab mollò il guardacorpo che serviva a innalzarlo in testa all'albero di controvelaccio. Qualche istante dopo, quando già lo stavano sollevando, giunto a soli due terzi del percorso, mentre scrutava la vuota distesa orizzontale che s'apriva a proravia fra la vela di gabbia e il velaccio, Ahab lanciò nell'aria come uno strido di gabbiano: «Eccola che sfiata! Eccola che sfiata! Ha una gobba che sembra una collina di neve! È Moby Dick!».

Infiammati da quel grido che le tre vedette parvero riprendere contemporaneamente, i marinai in coperta corsero alle manovre per meglio osservare la famosa balena inseguita da così tanto tempo. Ahab aveva intanto guadagnato il suo posatoio finale, situato qualche piede più in su rispetto alle altre vedette: l'indiano Tashtego era sulla testa di moro dell'albero di velaccio, appena più in basso, cosicché il suo capo era quasi al livello del calcagno di Ahab. Da quell'altezza si vedeva ora la balena, distante circa un miglio a proravia, la quale, a ogni rollio del mare, rivelava la sua alta gobba lucente, e a intervalli regolari lanciava in aria il suo getto silenzioso. Ai creduli marinari sembrò lo stesso getto silenzioso che avevano scorto tanto tempo addietro nel chiarore lunare, nell'Oceano Atlantico e nell'Oceano Indiano.

«E nessuno di voi l'ha vista prima?» gridò Ahab ai marinai appollaiati attorno a lui.

«Signore, io l'ho vista quasi nello stesso istante in cui l'ha vista il Capitano Ahab, e l'ho segnalata», disse Tashtego.

«No, non nello stesso istante, non nello stesso istante... no, il doblone è mio, il Fato lo ha riservato a me. Nessuno di voi poteva avvistare la Balena Bianca per primo. Solo io. Eccola che sfiata! Eccola che sfiata! Eccola che sfiata! Eccola, eccola di nuovo!» gridò, scandendo ogni parola, il cui tono s'allungava in modo metodico, in sintonia con i getti visibili della balena che si facevano progressivamente più lunghi. «Si sta per immergere! Serra i coltellacci! Giù i velacci! Pronti alle tre lance. Starbuck, ricordati, tu resti a bordo a governar la nave. Oilà, al timone! Orza, orza una quarta! Così: alla via, marinaio, alla via! Eccola che va di coda! No, no, c'è solo più acqua scura! Sono a posto le lance laggiù? Pronti, pronti! Fammi scendere, Starbuck, giù, giù... svelto, più svelto!» E Ahab scivolò nell'aria fino a toccare la coperta.

«Signore, punta dritto sottovento, via da noi», gridò Stubb. «Non può avere ancora visto la nave».

«Taci, marinaio! Pronti ai bracci! Tutta la barra sottovento! Braccia di punta! Fileggia! Fileggia! Alla via: bene così! Le lance, le lance!».

Vennero subito calate tutte le lance, tranne quella di Starbuck. Issate le vele, le lance si gettarono fulminee sottovento, spinte rapidamente da tutte le pagaie, facendo increspare le onde. E Ahab conduceva l'assalto. Un pallido bagliore di morte illuminava gli occhi infossati di Fedallah, una smorfia orribile gli torturava la bocca.

Le loro prue, silenziose come nautili, fendevano veloci il mare, avvicinandosi però solo lentamente al nemico. E mentre si avvicinavano, l'oceano diventava ancora più liscio; sembrava stesse stendendo un tappeto sulle sue onde; sembrava un prato a mezzogiorno, tanto si dispiegava sereno. Alla fine il cacciatore ansante giunse talmente vicino alla sua preda, apparentemente ignara, che riuscì a vedere distintamente in tutto il suo splendore la gobba che scivolava sul mare, stagliandosi isolata, perennemente incastonata in un cerchio mobile di finissima spuma soffice e verdastra. Vide il vasto intrico di rughe sulla testa che sporgeva leggermente più in là. Davanti ad essa, sulla distesa di onde simile a un soffice tappeto turco, si proiettava la luminosa ombra bianca della sua ampia fronte candida, accompagnata da un giocoso gorgoglio musicale. Dietro, le acque azzurre andavano rimestandosi, e rifluivano nella valle mobile della sua scia costante. Ai suoi lati affioravano delle bollicine luminose che le danzavano accanto, per essere però di nuovo infrante dalle zampe leggere di centinaia di gai uccelli che si lasciavano ondeggiare lievi come piume sul mare, per poi spiccare di scatto il volo; e sul dorso bianco della Balena Bianca, si ergeva la lunga asta spezzata di una lancia infitta di recente, simile all'asta di bandiera che s'innalza dallo scafo dipinto di un'argosia; e a tratti, dal nugolo di uccelli che sfioravano il pesce con le loro dita leggere e gli aleggiavano sopra come a formare un baldacchino, se ne staccava uno che andava ad appollaiarsi silenzioso su quell'asta, lasciandosi dondolare, mentre le lunghe penne della sua coda sventolavano come fiamme.

Nello scivolare sull'acqua con rapidità poderosa, la balena era avvolta da un'aura di mite gioia e di pacata compostezza. Neppure Giove, il bianco toro che fuggì a nuoto con la rapita Europa aggrappata alle sue leggiadre corna, sbirciando la fanciulla coi suoi amorevoli occhi lascivi, mentre, con incantevole e calma speditezza, in un increspar d'acque, filava dritto a Creta dov'era il suo talamo nuziale; nemmeno Giove, dunque, nemmeno quella grande maestà Suprema, superava la gloriosa Balena Bianca mentre questa nuotava così divinamente!

Dai suoi morbidi fianchi, nel fendersi dell'onda, la quale l'abbandonava subito per rifluire lontana, dai suoi lucenti fianchi la balena sprigionava le sue malie. Non v'è dunque da stupirsi se qualche cacciatore, indicibilmente sedotto e allettato da tanta serenità, si sia arrischiato ad assalirla, ma abbia fatalmente scoperto che sotto quella quiete apparente si nascondeva un uragano. Eppure, tu continui a scivolare calma sulle onde, oh, Balena! Calma e seducente, per tutti gli uomini che ti vedono per la prima volta, non importa quanti altri tu possa averne già ingannati e annientati allo stesso modo.

E così Moby Dick avanzava attraverso le serene tranquillità del mare tropicale, fra onde che arrestavano l'applauso tanto erano rapite, celando ancora alla vista tutti i terrori del suo tronco sommerso, evitando di rivelare la distorta mostruosità della sua mandibola. Ma ben presto la sua parte anteriore emerse lentamente dall'acqua; per un attimo, il suo intero corpo marezzato formò un alto arco, come il Ponte Naturale della Virginia, e sventolando la coda in aria come una bandiera, in segno di monito, la grandiosa divinità si manifestò, si immerse e scomparve alla vista. Arrestandosi in volo e scivolando d'ala, i bianchi uccelli marini indugiarono, esitanti e anelanti, sullo specchio d'acqua turbolenta che essa si era lasciata dietro.

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