Autore Lidia Menapace
Titolo Canta il merlo sul frumento
SottotitoloIl romanzo della mia vita
EdizioneManni, San Cesario di Lecce, 2015 , pag. 144, cop.fle., dim. 13,4x18x0,9 cm , Isbn 978-88-6266-660-2
LettoreGiovanna Bacci, 2016
Classe biografie , storia sociale , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980












 

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Indice


  7 Premessa

 11 Commiato

 17 La memoria

 23 I ragazzi

 29 La famiglia

 39 L'antifascismo

 47 L'amore quello maiuscolo

 53 Il volto oscuro della Resistenza

 59 Tornano i partiti

 73 Nella Dc

 83 L'avventura del "manifesto"

 89 Il femminismo

101 Pacifismo e azione non violenta

105 In Senato

117 L'Anpi

121 Il Club delle Vecchiacce

125 Teoria d'occasione

129 L'economia della riproduzione biologica, domestica, sociale

135 Pausa


 

 

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Pagina 34

Ma torniamo alla vaporiera e alla famiglia di mia nonna: pur essendo mezzadri a Campospinoso, il mio futuro nonno materno volle andare in ferrovia e poiché sapeva leggere e scrivere poté diventare macchinista (aristocrazia operaia, si diceva) trasferendosi in giro con la sua amatissima Nina, anche a Genova, nelle case dei ferrovieri (quelle che ancora oggi si vedono passando col treno) a Sampierdarena, dove nacque mia madre.

La nonna Nina, donna forte e decisa, amò moltissimo Genova, la città del suo primo e unico amore, e lì partorì lo zio Piero, il primogenito, e la zia Anita, così chiamata in onore di Garibaldi, e mia madre Italia, perché non si dubitasse che erano una famiglia patriottica. Da Genova quando mia madre aveva tre anni furono trasferiti a Novara e mio nonno morì un anno dopo, a ventinove anni, di broncopolmonite presa in servizio, dato che guidare una locomotiva aperta alla vampa del motore alimentato dal fuochista era lavoro nocivo. Insomma mia madre restò orfana di padre a quattro anni. E la nonna rimase a Novara coi figli, nella casa dei ferrovieri in un appartamento di servizio e con una piccola pensione, non male come stato sociale del 1897, l'anno di nascita di mia madre. La nonna non voleva assolutamente tornare in campagna e fece di tutto per fornire ai tre figli quel massimo di istruzione che poté far loro conseguire con l'aiuto del cognato, lo zio Luigi, anche lui ferroviere come personale viaggiante, e anarchico militante e vedovo, sua moglie era morta di "mal sottile", come allora si chiamava la tubercolosi. Un romanzo dell'Ottocento, davvero! Mia madre considerò sempre lo zio Luigi come un padre. La nonna Nina teneva a pensione colleghi del marito, lavava stirava aggiustava panni, era una donna operosissima e sempre allegra.

La nonna Maria, madre di mio padre, era invece una donna religiosissima, che andava a messa tutte le mattine e a vespro il pomeriggio, recitava rosari tutte le sere, sapeva tutte le litanie, rispondeva sia pure a pappagallo, come tutte le persone del popolo che appunto non conoscevano il latino e quindi non capivano ciò che dicevano rispondendo in chiesa. La famiglia di mia madre brontolava un po' sommessamente verso quelle madri di famiglia che erano sempre in chiesa invece di badare a casa loro, ma lo "scontro" non andò mai più in là. A me piaceva moltissimo andare in chiesa ai vespri con la nonna Maria e cantavo a gola spiegata. Al ginnasio imparai il latino e incominciai a farmi domande su una religione così meccanica e fatta di gesti e parole senza senso per chi le pronunciava. Appresi che invece di "Tantum ergo sacramentum" che appunto si cantava ai vespri la gente del popolo diceva "Canta il merlo sul frumento" e altre piacevolezze, le più irriverenti erano quelle dette dal nonno Giuseppe padre di mio padre, e marito della piissima nonna Maria, che diceva "Madonna ma culatta", Madonna tutta coscia, invece che "immacolata". Se la mia famiglia poi produsse una sintesi di queste due maniere di concepire la religione, fu quella di mio padre mazziniano e laico, ma rispettoso e tollerante.

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Pagina 41

Il secondo episodio che considero all'origine del mio antifascismo avvenne molti anni dopo ed è drammatico. A scuola con me e mia sorella venivano due sorelline che avevano tra loro la stessa distanza di età che noi due; eravamo anche amiche e ci frequentavamo per fare i compiti a casa, ora nostra, ora loro. Un mattino a scuola non ci sono e essendo l'uso del telefono per motivi scolastici interdetto ai piccoli, e non potendosi perciò né dettare i compiti, né le soluzioni di matematica o il testo della versione, andiamo a casa loro, e alla domestica che apre dico che siamo venute a portare i compiti ad Ester e a Ruth (questi erano i loro nomi che ci sembravano esotici); «I compiti non servono, tanto a scuola non vengono più» dice la domestica e io stupitissima domando: «Ma perché?» e mi si risponde: «Perché sono ebree». Non capisco, cioè le parole dette sono semplici e chiare, ma insieme sono insensate. Torniamo verso casa e io per non perdere prestigio davanti alla sorellina minore, dico irritatissima: «Quella lì deve proprio essere una ragazza di campagna, non sarà mica una malattia infettiva essere ebrei», dato che l'unica lunga assenza da scuola, capace di farti perdere l'anno, era quella per rosolia morbillo scarlattina tosse canina eccetera, le malattie esantematiche del periodo scolastico.

Poiché non ne vengo a capo, a tavola, secondo tempi modi e usanze di famiglia, racconto e domando mentre mamma impreca all'indirizzo di "cul là ch'al parla dal pugiò", che parla dal balcone. Papà la prende alla lontana e incomincia a dire che hanno fatto una legge per la quale possono andare a scuola solo gli ariani. «Ma chi sono gli ariani?» chiediamo in coro e papà infine confessa: «Mi vergogno, ma siamo noi...» e ci narra la storia delle leggi razziali contro gli ebrei e anche gli zingari. Sono sconvolta, e dico: «E io mi vergogno di un Paese dove una perché si chiama Ester deve rimanere ignorante... mi sembra mostruoso». Poi vedrò avvilita e mortificata scomparire, senza che si possano chiedere sue notizie, una signora moglie di un farmacista di Novara, nostra vicina, e poi altri, e infine sappiamo che anche Ester e Ruth sono riuscite a scappare in Svizzera, dove hanno parenti. Ma una signora amica di mamma, che sta ad Arona sul Lago Maggiore, viene gettata nel lago, incinta e con le mani legate, e basta: è quella che Hitler chiama soluzione finale, Endlösung, della questione ebraica e tutte e tutti noi di casa nostra e dintorni di amicizie e conoscenze finisce che pensiamo come mamma e in cuor nostro chiamiamo Mussolini cul là, e intanto abbiamo anche imparato che però non bisogna dirlo, se non parlando con persone fidate, siamo entrate o stiamo entrando nella clandestinità.

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Pagina 83

L'avventura del "manifesto"


Poiché l'entrata alla Cattolica mi è interdetta mi trovo disoccupata, nel senso di priva di una relazione più ampia di quella di breve raggio del liceo — dove comunque insegno, nella sezione distaccata di Arona del liceo scientifico di Novara, faccio la pendolare e del resto niente di nuovo, perché mia madre già prima della Grande Guerra aveva fatto la pendolare e per questo si considerava una "ragazza emancipata".

Passo sei mesi di isolamento e poi dato che ero in contatto con Lucio Magri, proveniente lui pure dal "mondo cattolico" (come allora si usava dire) e con Luciana Castellina conosciuta all'Udi, frequento loro, ed inoltre la Casa della cultura di Milano, dove incontro Rossana Rossanda; in breve decido, tanto per non stare ferma, di andare a distribuire "il manifesto" mensile davanti alla Cattolica e mi lego alla sinistra comunista.

Fu Filippo Maone che venne a trovarmi, era la fine del '68 o i primi mesi del '69, alla Cattolica per raccontarmi quello che stavano progettando a Roma; eravamo ancora nel Pci, e fui subito interessata alla proposta di collaborare alla rivista, e già sul secondo fascicolo apparve un mio articolo sullo stato sociale.

Quando nell'aprile del 1971 Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli furono radiati dal Pci con l'accusa di "frazionismo", e poi con motivazioni varie furono allontanati o sospesi Lucio Magri, Massimo Caprara, Luciana Castellina e Valentino Parlato, il gruppo iniziava a pensare di lanciare il quotidiano, e io fui coinvolta fin dagli inizi.

Una avventura che si concretò nel 1972 con l'uscita del giornale; mi fermai a Roma, vivevo in una comune sessantottina con Giuliana Sgrena e il suo compagno Pier e Vincenzo Vita, Elisabetta Ramat, Ritanna Armeni, Rina Gagliardi; conobbi Pintor, uno straordinario personaggio che mi prese in grande simpatia e mi affidava non di rado compiti siffatti: «Lidia, scrivi brevi cenni sull'universo in dieci righe in dieci minuti, abbiamo un buco in prima e stiamo andando in macchina». Io scrivevo, e una volta gli chiesi perché ogni tanto queste "rogne" non le desse ad altri: «Perché tu non sei perfezionista e appunto questo in circostanze urgenti serve al giornale».

Con Luciana Castellina ho avuto un rapporto molto bello, straordinario; un rapporto un po' a intermittenza, ma conoscevo bene anche i suoi e stavo spesso a casa sua. Poi anche lei è un po' vagabonda come me, e abbiamo avuto un rapporto molto affettuoso.

Con Valentino Parlato era facile avere una connessione umana immediata; facevamo divertenti e scherzose gare sulle citazioni latine.

C'era Aldo Natoli, era un uomo affettuoso, anche se non sono mai stata a casa sua, il nostro era un rapporto più distaccato; ma lui era così un po' con tutti. Poi andò via, presto.

Verso Pietro Ingrao nutrivo una vera e propria venerazione, anche se in famiglia aveva un atteggiamento da patriarca. Certo, penso che se lui fosse uscito dal Pci "il manifesto" come movimento politico avrebbe avuto un gran futuro.

Quello fu un periodo davvero felice, la redazione del "manifesto" fu definita dal "Washington Post" il luogo più fosforescente del mondo e davvero vi si potevano incontrare le intelligenze più sfavillanti.

Naturalmente non eri sempre lì ad adorare i geni di passaggio, c'erano gli studenti romani che facevano servizio di portineria e costituivano la parte meno colta, ma avevano quella splendida capacità romana di non sentirsi mai spiazzati da nulla. Una volta si affaccia alla porta un signore che chiede di poter parlare con Rossana, e c'è uno di questi ragazzi: «Mettiti lì e aspetta, prima devo distribuire la carta igienica nei cessi sennò poi tutti se la prendono con me perché non sono in ordine» e se ne va lasciando il tipo sorridente in attesa. Va qua e là e poi finalmente rivedendolo gli dice: «Eri tu che volevi Rossana?» e al cenno di assenso strilla: «Rossana! Qui qualcuno ti vuole!» a voce alta, l'ufficio di Rossana è l'ultimo in fondo al corridoio, e intanto chiede: «Ma tu chi sei?» «Gabriel Garcia Marquez» e e lui: «Rossana, deve essere spagnolo, si chiama Marquez!» Rossana quasi sviene, corre alla porta e trova "Cent'anni di solitudine" che ride a crepapelle.

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Pagina 129

L'economia della riproduzione biologica, domestica, sociale


Da molto tempo ho incominciato ad occuparmi del lavoro che fanno le donne mettendo al mondo la specie. È un vero lavoro e per convincersene basta provare a farlo, anche se non produce merci da vendere: è vero che si possono vendere i figli, ma è un reato ormai da molto tempo. Gli antichi Romani ammettevano che il padre poteva vendere suo figlio al mercato degli schiavi per due volte impunemente, la terza diventava sacer cioè esecrabile, abbandonato alla vendetta degli dei.

Il lavoro di riprodurre la specie non produce merci, ma persone e poi prosegue riproducendo le condizioni perché chi nasce possa vivere, crescere studiare lavorare essere amministrato/a assistito/a curato/a eccetera.

Tutta la mole di lavoro che riproduce le condizioni sociali e culturali per vivere è riconducibile sotto il nome di lavoro della riproduzione biologica domestica sociale, chiunque lo faccia, dal presidente della Repubblica alla bidella, dunque la riproduzione della vita vera e propria e poi la sanità, la scuola, la pubblica amministrazione. Un complesso molto rilevante di lavoro che non ha adeguato riconoscimento. Credo che vada riconosciuto come lavoro il cui esercizio deve essere distribuito nella popolazione tra donne e uomini e compensato altrimenti è schiavitù (come appunto il casalingato non retribuito in alcun modo), e vada regolato non dal mercato poiché appunto non produce merci, bensì dalla decisione politica collettiva. La destinazione delle risorse va assicurata col fisco, similmente a quello che è stato chiamato stato sociale e che non deve essere lasciato ridiventare uno striminzito stato assistenziale che distribuisce servizi in parte per assistenza e in parte per profitto privato.

I diritti che esprimono la cittadinanza vengono riconosciuti e anche retribuiti per i compiti e le finalità che col detto lavoro perseguono e conseguono, cioè avere una natalità regolata col minimo possibile di mortalità, con l'assistenza al parto, con una sanità per l'intera popolazione volta a mantenere la salute e a prevenire la malattia con attività di educazione sanitaria eccetera, avere una scuola dell'alfabetizzazione totale e una pubblica amministrazione condivisa e controllata dalla popolazione. Le risorse si trovano con la lotta all'evasione fiscale, nel funzionamento di un fisco giusto e nella riduzione delle spese militari.

È in atto una profonda crisi capitalistica. Sono contenta che il capitalismo sia in crisi e che questa sia definita dagli economisti come strutturale: sappiamo infatti che le crisi congiunturali sono endemiche in questo sistema e non dicono poi molto di significativo.

Ma una crisi strutturale è qualcosa di grosso, dato che nella plurisecolare storia del capitalismo si ricorda solo quella del 1929 della stessa portata. Inoltre, questa volta la crisi è caratterizzata dalla dimensione globale. Mi sembra che l'analisi più attendibile sia quella di Samir Amin, economista arabo di cultura francese, già professore alla Sorbona e attualmente presidente del Forum delle Alternative a Dakar.

Da lì almeno un decennio fa, se non di più, Samir Amin disse che la crisi non era più riformabile e che quindi tutte le politiche riformiste e/o riformatrici sono inefficaci e impossibili e il dilemma che ci si presenta è quello classico: Alternativa o Barbarie, o come diceva Rosa: Socialismo o Barbarie. Samir fa una domanda precisa: bisogna dunque cercar di uscire dalla crisi capitalistica o dal capitalismo in crisi? Mi sembra ovvia la risposta. Anche perché Samir ha pubblicato ben presto un saggio nel quale prevede riemersioni di fascismo e razzismo dal capitalismo in crisi. Quindi il che fare? è semplicemente questo: costruire l'alternativa al capitalismo in crisi. "Hic Rhodus hic salta".

Prima di tutto bisogna sgombrare il campo dall'idea che forse, lasciata alla sua spontaneità, la crisi capitalista estinguerà il sistema: no, produce barbarie, non vi è bisogno di dimostrazione, la barbarie cresce sotto i nostri occhi. Ma di socialismo nemmeno l'ombra.

Credo che sia necessario, per quanto è possibile, non essere precipitosi e usare tempo, senza sprecarne, a costruire le forme di rivoluzione culturale che non portano allo scontro, ma mutano lo stato di cose presenti, come avrebbe voluto Marx. Oltre agli aspetti contenutistici, è necessario trovare per l'organizzazione dell'agire forme politiche flessibili autogestite, capaci di confrontarsi e stringere patti senza pretendere sottomissioni, adeguamenti burocratici, e fornendo regole di azione complesse. Quando sarà cresciuto un movimento molteplice, di soggettività complesse e di dimensioni grandi, la rivoluzione sarà possibile, benché ardua. Si dispiegherà l'economia della riproduzione, che dal basso ricomporrà la prosecuzione della specie, la tutela della vita e della salute, la costruzione dell'alfabetizzazione totale, cercando le maglie rotte nella rete: questa l'economia che ruberà continuamente posto ai mercati e costruirà relazioni umane laiche molteplici flessibili.

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