Copertina
Autore Eduardo Mendicutti
Titolo I fidanzati bulgari
EdizioneVoland, Roma, 2005, intrecci 39 , pag. 186, cop.fle., dim. 145x205x22 mm , Isbn 978-88-88700-47-2
OriginaleLos novios búlgaros
EdizioneTusquets, Barcelona, 1993
TraduttoreFrancesca Lazzarato
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe narrativa spagnola
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Indice

I    Dove il bulgaro dice sì, anche se sembra un no       9
II   Dove si lotta duramente con la lingua               17
III  Dove emerge la qualità dell'anima slava             21
IV   Dove si sottolineano i vantaggi del mecenatismo     31
V    Dove spunta l'ombra della fidanzata                 42
VI   Dove affiorano i discorsi a doppio taglio           52
VII  Dove si enumerano gli effetti dell'alcol            61
VIII Dove si offre la vita                               70
IX   Dove la fidanzata appare in carne e video           79
X    Dove l'uomo è sfruttato dall'uomo                   88
XI   Dove gli sposi dicono sì e anche no                100
XII  Dove si riconoscono le virtù del fidanzato ideale  109
XIII Dove si compie un viaggio interiore                118
XIV  Dove non piove ma diluvia                          140
XV   Dove in giardino i sentieri si biforcano           148
XVI  Dove tutto si sa                                   160
XVII Dove il bulgaro dice no, anche se sembra un sì     178

 

 

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Pagina 9

I
Dove il bulgaro dice sì, anche se sembra un no



Ero un caballero e avevo un fidanzato bulgaro. Ma ora sono rimasto senza fidanzato e dubito molto di essere ancora un caballero. Credo di essere una persa.

Per cominciare ho deciso di ubriacarmi. Da quando ho l'età per essere un caballero sono stato un caballero astemio, ma ho appena aperto, con il gesto e l'intenzione sfrontati che vengono spontanei solo a una persa, la bottiglia di rakìa, l'acquavite che i bulgari bevono a litri anche se un dito per volta, in bicchieri minuscoli e spessi, con il sano proposito di scaldarsi il cuore; prima, secondo loro, per far fronte alla robusta sciagura del comunismo; adesso, dopo il fragoroso crollo di tutto il possibile e l'immaginabile, per continuare a far fronte alle tenaci e robuste sciagure di questa vita incorreggibile, perché in fin dei conti l'unica cosa che resta, come un vecchio amico spietato, è la rakìa.

Nazdrave. Che vuol dire "Salute!"

Ero un caballero, avevo un fidanzato bulgaro e il bulgaro aveva a sua volta una fidanzata bulgara, e tutti e tre formavamo una singolare famiglia in gestazione, un'incipiente, insolita e vertiginosa trinità familiare in cui loro condividevano tutto ciò che era mio, e di quel che era loro io condividevo soltanto il bulgaro. Questione di generosità da parte mia. Ma la generosità è una pessima formula per arrivare a un accordo di vita in comune. La generosità finisce per rovinare tutto e la prova sta nel fatto che, adesso, il folle ma stimolante progetto di una famiglia costituita dallo sposo, dalla sposa dello sposo - entrambi bulgari – e da me, è andato in malora. Loro formeranno tra pochissimo, durante il viaggio in Bulgaria che si sono promessi l'uno all'altro per la prossima estate, una famiglia convenzionale, benché bulgara, dopo il matrimonio religioso che si sono proposti di celebrare là, tra la propria gente, con la più grande solennità e il massimo sperpero, dato che considerano il sobrio matrimonio civile senza invitati celebrato a Madrid all'inizio dell'anno, e che io ho patrocinato e finanziato con adeguata emozione, un semplice trucco perché lei ottenesse più facilmente il permesso di soggiorno. La dimensione della mia tragedia merita, secondo me, una sbronza memorabile.

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Pagina 37

Le tartine erano eccellenti, i bulgari ingollavano tartine con una voracità senza dubbio eccessiva, ma la colpa era di Gildo, perché non si offrono tartine squisite ma un po' evanescenti a ragazzi malnutriti e bisognosi. Il sussidio della Croce Rossa, circa trentamila pesatas mensili, lo spendevano in poche ore dopo averlo preso, e inoltre l'ultima cosa a cui pensavano era mangiare decentemente. I più sensati pagavano una settimana di pensione e il resto lo spendevano per gli oggetti più assurdi: macchine fotografiche, occhiali da sole firmati, una piccola croce d'oro da appendere al lobo dell'orecchio. Tutti avevano almeno un paio di pantaloni, una camicia e un giubbotto o una giacca più che presentabili e che usavano solo in occasioni speciali: per esempio per andare alla festa di Gildo. I meno scrupolosi e orgogliosi andavano a pranzo e a cena nelle mense dei poveri; Kyril preferiva digiunare, mi disse, che infilarsi in una di quelle code bisognose e miserabili, e gli giurai che non avrebbe mai avuto la necessità di farlo. Ma quella notte, almeno per tutto il tempo che i bulgari dedicarono a inghiottire tartine, la casa di Gildo sembrò un ostello per giovani vagabondi, una dependance municipale per stranieri senza tetto anche se, questo sì, belli, puliti, in buona salute nonostante le privazioni e, per colmo di attrattiva, addolciti – almeno in teoria – dal prestigio dell'anima slava e nobilitati dall'ansia di approfittare, nonostante le molte difficoltà, delle opportunità che si offrono agli uomini liberi. Per questo non c'era niente di strano nel fatto che — mentre Toni, il cameriere filippino, assolveva con sufficiente disciplina alle funzioni di suora di carità – Gregorio Patiρo fosse sul punto di scorticare le ginocchia di Petre a furia di palpeggiarle e la Tiralinee trovasse imprescindibile accarezzare la nuca di Bambi, mentre cercava di spiegargli come si andava ad Alcalà de Henares, e la Regina non riuscisse a distogliere lo sguardo dalla patta aderente di Ivo senza per questo smettere di raccontargli i suoi numerosi e amichevoli incontri con re Simeone, e Adelardo Taormina alzasse dolcemente con la punta delle dita il mento di Vladimir e mormorasse estatico: che lineamenti perfetti ha questo ragazzo.

– Attento – lo avvertì Gildo. – Ha i condilomi.

– Condilomi? – Adelardo Taormina, la Mogambo, accusava subito i disagi della giungla. — Che cosa sono?

— Una malattia venerea, caro. Escrescenze orribili e contagiosissime.

Le dita di Adelardo Taormina toccarono legno. Al culmine della festa era improvvisamente apparso lo spettro di una malattia e, anche se pareva non si trattasse 'della' malattia, una minaccia difficile da ignorare premeva sulla superficie idilliaca della riunione, come la mano di un cadavere sepolto sotto un prato e condannato a sbucare alla superficie in un momento qualsiasi. Ammetto di aver pensato: per le sue pretese di avventuriero nella giungla, Adelardo Taormina è un po' troppo apprensivo. Dopo tutto noi cacciatori di talenti della Puerta del Sol avevamo deciso di convincerci che quei ragazzi venivano da terre incontaminate, non erano portatori di pericolo mortale, le loro vene erano libere dal virus generato nelle cloache dell'Occidente, non venivano da Sao Paulo o da San Francisco né da una provincia nigeriana decimata dall'AIDS, venivano da paesi circondati da un muro, nei quali qualsiasi pratica rischiosa era proibita per legge. Era senza dubbio una convinzione insensata, ma anche un modo per ritrovare l'entusiasmo e la spensieratezza degli anni paradisiaci in cui ogni corpo appetibile era sempre innocente, e nessuno, per il semplice fatto di offrire o accettare fiumi d'amore o un istante di sesso, diventava immediatamente sospetto. Quei ragazzi venivano dalla preistoria, dove la lussuria era sana o afflitta solo da malattie rimediabili, come i condilomi che Gildo aveva appena rifilato al bel Vladimir, e come tutto il repertorio di malattie cutanee che la Molokai distribuiva senza misura tra stanziali, conosciuti, appena arrivati e uccelli di passo. Poco ma sicuro, nessuno di quei ragazzi faceva niente che l'Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe classificato come remotamente rischioso, ma è anche possibile che l'insistenza di Gildo nel praticare a tutte le ore una dermatologia da ambulatorio servisse a nascondere l'ossessione per il gran male.

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Pagina 79

IX
Dove la fidanzata appare in carne e video



Ho qui la rakìa, un video con i nostri vagabondaggi durante la prima notte che Kalina trascorse a Madrid, e tutte le ricevute dei pagamenti di diciottomilacinquecento pesetas al mese, domiciliati sul mio conto corrente nell'agenzia centrale di Banesto. Dato che le cambiali domiciliate si pagano da sole – cioè te le addebitano automaticamente sul conto, così stavolta non c'era bisogno di una periodica ed evidente ostentazione di generosità da parte mia – le ricevute che sono andato accumulando e che conservo mi riportano il ricordo di Kyril, come animali da compagnia lasciati qui per confortarmi e impedirmi di dimenticarlo. Manca solo che le porti fuori ogni sera in Plaza de Espaρa, come barboncini.

Con la rakìa forse riuscirei a placare un po' la memoria, ma non ho il coraggio di bruciare il video in cui ci siamo Kalina e io, così contenti, o Kyril e io sorpresi a guardarci di straforo ma soddisfatti per la missione compiuta, mai tutti e tre insieme, e nemmeno loro due da soli – perché io dichiarai un'incapacità incurabile nei confronti dei meccanismi di ogni genere, compresa una innocua videocamera Panasonic – oltre a qualche assurda immagine di strade e negozi del centro di Madrid, se era l'occhio predatore di Kyril a guardare nella videocamera, o alle inquadrature puntigliose anche se sconnesse del ristorante tipico della Cava Baja nel quale cenammo quella prima sera, quando la camera obbediva allo sguardo diffidente ma cauto di Kalina. Fortunatamente, nel video quei due non appaiono mai con la moto che mi è toccato finir di pagare cambiale dopo cambiale, sistema deplorevole perché tipico delle economie in crisi ma al quale mi ero deciso a ricorrere con l'assurda convinzione che così mi sarei tenuto accanto Kyril, almeno finché durava il prestito.

Era una moto imponente, una Suzuki da 750 centimetri cubici, nera, forte come una bestia di muscolatura metallica e falcata cilindrica, arrogante, poderosa. Debbo confessare che le volte in cui ci montai sopra, sul sedile posteriore e con Kyril che guidava come un pazzo, mi sentii identico a Marianne Faithfull nei suoi giorni di splendore, con la chioma al vento. Visti i pochi capelli che mi restano, la cosa più prodigiosa era la sensazione di trascinarmi dietro una lunga e compatta capigliatura bionda, a centotrenta all'ora nella notte di Madrid.

– Grazie, hombre. Sono molto felice – mi disse Kyril, con quel suo concetto schematico e assoluto di felicità, quando portò fuori la moto dal negozio, ci montò sopra e saggiò il suo potere come se si trattasse di una cavalla selvaggia che si proponeva di domare.

Dato che un caballero deve stare sempre dalla parte della legge, lo avvertii: — Ci vuole un casco.

— Dopo, hombre. Monta. Ti porto a casa.

Montai, mi sentii Marianne Faithfull, mi portò a casa, e poi non vidi ombra di Kyril per tre giorni.

Mi risulta che fece sensazione. Tra i bulgari, naturalmente, ma anche tra le stupide streghefroce di borsa stretta che lo videro cavalcare a pelo quella macchina vistosa e che a un tratto, quando innumerevoli richieste di moto piovvero loro addosso, non poterono far altro che mostrarsi come realmente erano davanti ai propri fidanzati, pretendenti o sfruttatori bulgari: povere, taccagne, imbroglione o spregevoli. Com'è naturale, cominciarono a dire che avevo perso la bussola, che per colpa del vizio bulgaro avrei concluso i miei giorni in un ospizio, che se una non sa tenere sotto controllo il prurito e le sue conseguenze, ragazze, meglio incatenarsi al piede del letto e offrire le proprie sofferenze alla Vergine della Macarena. Ma nella colonia bulgara il mio prestigio salì alle stelle, e più d'uno si augurava che Kyril si spaccasse la testa contro un semaforo, per poterlo sostituire nel mio cuore a tutta velocità.

In capo a quei tre giorni di frenesia motorizzata, Kyril ovviamente tornò. Tra le altre ragioni, perché c'era un'altra e fondamentale questione da risolvere, prima che io invitassi Kalina a venire a Madrid, tramite lettera autenticata dalla firma di un notaio. La seconda questione era l'appartamento che Kyril aveva bisogno di affittare a proprio nome, con due obiettivi fondamentali: uno, la già citata comodità di Kalina; l'altro, iscriversi all'anagrafe presentando il contratto di affitto e rimpinguare così la documentazione da allegare alla richiesta di permesso di soggiorno. L'unico problema, come sempre, era quello economico. Un problema che, come sempre, mi incaricai di risolvere.

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Pagina 100

XI
Dove gli sposi dicono sì e anche no



Le nozze di Kyril e Kalina si celebrarono a metà gennaio, un mercoledì, e Kalina si conciò come la figlia di un trafficante arabo di armi. Con un abito color avorio molto aderente e pieno di applicazioni fantasia da tutte le parti, sembrava una sposa di altri tempi nell'asettica succursale e tra la folla sempre un po' incredula dei tribunali municipali. C'era qualcosa di anacronistico ma di commovente in quel modello troppo carico e vistoso. C'era un grande impegno di Kalina — e più denaro del ragionevole — per sembrare radiosa, incomparabile, e in effetti tutti la guardavano. E c'erano senza dubbio una dose eccessiva di illusione e molta malinconia, compensata da quello strepitoso vestito da sposa. Nonostante tutto, quando Kalina entrò nell'edificio del tribunale non era precisamente il ritratto della felicità.

— Che succede? — domandai a Kyril.

— Stronzate.

Da qualche tempo Kyril usava la parola 'stronzate' — sempre al plurale — con molta frequenza e intensità. Nel dirla riusciva a essere assolutamente sprezzante. Kyril possedeva la maligna abilità di supplire al suo scarso dominio dello spagnolo con una grande espressività, di modo che la stessa parola, pronunciata da lui, poteva risultare estremamente dolce o estremamente spregiativa e offensiva. Soprattutto perché, com'è naturale, la diceva sempre in modo che chi doveva sentire sentisse. Kalina sentì Kyril definire stronzate tutto quello che stava succedendo e si mise subito a piangere in un modo assai indiscreto. Per rimediare dovetti tirar fuori tutte le mie qualità di mediatore e ottenni che Kyril e Kalina facessero pace, ma sempre in un modo assai indiscreto.

— Questo lasciatevelo per dopo, caramba — disse allegramente un signore burlone, invitato a un altro matrimonio, che passava in quel momento.

Kalina diventò rossa di gioia. Non riuscii a capire bene perché fossero arrivati così di cattivo umore, ma mi sembra c'entrasse qualcosa il pessimo aspetto che, secondo Kalina, Kyril mostrava proprio in un giorno come quello. Eppure era pulito e ben rasato e sfoggiava un completo grigio con giacca a doppio petto, che insinuava un certo aplomb tradizionale nell'apparenza in genere torbida, se non apertamente canagliesca, del mio autista bulgaro. Il fatto è che la mattina delle sue nozze Kyril esibiva occhiaie scure e uno sguardo sonnolento, capaci di spiegare quanto Kalina si fosse sentita offesa, tradita, abbandonata nella sua ultima notte da nubile. Anche se a sentirmi ben più offesa, tradita e abbandonata avrei dovuto essere io, che in quella tiepida e incerta mattina di gennaio non stavo nemmeno per sposarmi.

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Pagina 142

– Hombre, devi aiutarmi.

Aveva con sé tutta la documentazione della Porsche 968. Erano documenti bulgari, in bianco, con timbri che sembravano autentici. Mi chiese la macchina da scrivere. Si trattava semplicemente di riportare sui documenti gli estremi del veicolo, il nome del nuovo proprietario – Kyril – e tutti i dettagli della transazione, inclusi i dati del venditore, un tizio di nazionalità polacca con un nome composto da un'inverosimile combinazione di consonanti e la cui patente, sicuramente falsa, era tra le altre carte. Nei dati del trasferimento bisognava includere anche il prezzo di vendita della macchina.

– Ottocentomila – disse Kyril, dopo averci pensato per un momento.

L'ignoranza è sorella dell'innocenza, così chiesi, molto meravigliato: – Solo ottocentomila?

Kyril sorrideva. La barba di due giorni, gli occhi gonfi e l'aria stanca gli davano un aspetto da martire sull'orlo dell'apostasia. Cercava di mostrarsi allegro e contento di sé stesso, ma riusciva solo a dare l'impressione di essere disposto a qualsiasi cosa per salvare la pelle.

– Meno – mormorò. – Hombre, l'ho pagata molto meno.

– Quanto?

– Centomila.

Immagino che un disturbo affettivo potrebbe venire considerato un'attenuante in qualsiasi processo per complicità. Non c'era bisogno di essere un genio per capire che le peripezie sopportate da quell'auto prima di cadere nelle mani di Kyril non dovevano essere irreprensibili. Ma il disturbo affettivo provoca seri problemi di giudizio, una distorsione della coscienza che trasforma in relativi i principi morali più radicati, ridicolizza gli scrupoli e concede sempre il beneficio del dubbio alle persone amate: nel peggiore dei casi Kyril si sarebbe limitato a trarre profitto da uno scambio irregolare di automobili di lusso, scambio che senza dubbio avveniva fuori dalla Spagna, come dimostrava, secondo me, il fatto che il precedente e forse fugace proprietario dell'auto fosse un polacco errante, e che la targa attuale della Porsche 968 fosse bulgara, una placca gialla con cifre nere e, come lettera iniziale, uno di quei caratteri incomparabili che solo la lingua bulgara ha nel suo abbecedario. I crimini lontani sono sempre incerti. E dopo tutto chi non ha un delinquente nel proprio albero genealogico? E quale coscienza è meno contaminata, quella di chi ha un antenato equivoco o quella di chi soffre, nel bel mezzo del violento crepuscolo della storia, di un ingovernabile disturbo amoroso?

La Legge degli Angeli, al cui giudizio professionale finii per rivolgermi in cerca di consiglio, me lo disse con chiarezza: – Hai semplicemente perso la bussola.

Perché non solo avevo dato a Kyril la mia macchina da scrivere ma, rendendomi conto che per la sua mancanza di pratica e la sua ignoranza del funzionamento rischiava di rovinare i moduli e di lasciare la lussuosa auto senza documenti, come un qualsiasi emigrante senza fortuna e senza nessuno al quale far venire un disturbo affettivo — mi ero offerto — mettendo da parte ragione, prudenza e decenza — di essere la mano esecutrice dell'evidentissima falsificazione. Il disturbo affettivo trasforma una signora in una bucaniera. Avevo battuto con le mie stesse dita i tasti che avevano impresso i dati grazie ai quali la Porsche 968 diventava proprietà del mio autista, e così – prodigi dell'indegnità – non solo avevo trasformato quest'ultimo in un uomo felice, ma ero anche riuscito a giustificare un contratto di lavoro fondato sul delirio di prestare servizio come autista di un caballero che non aveva l'auto. Forse ero sempre meno caballero, ma almeno la macchina ce l'avevamo.

Per mia disgrazia, quell'auto aerodinamica e sfavillante cominciò ad apparirmi in sogno. Prima alla maniera capricciosa e strisciante dei rimorsi. Poi come una minaccia che a un tratto appariva accanto al letto con i fari accesi e il cui motore rombava sempre più violento per proclamare il mio disonore. Alla fine, eccola lanciata a tutta velocità nel cuore della notte per distruggermi la vita: la mia casa segnata da un marchio infamante, il mio ufficio svaligiato dai creditori, Adela compromessa con la malavita per sopravvivere una volta terminato il sussidio di disoccupazione, il nome della mia famiglia macchiato, i miei genitori costretti a non uscire di casa per non essere segnati a dito. Il disturbo affettivo avrebbe potuto salvarmi dalla prigione e mi avrebbe messo nelle mani di uno specialista in schiavitù dello spirito, ma chi mi avrebbe liberato dalla vergogna e dalla rovina?

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