Copertina
Autore Fioravante Meo
Titolo L'ultimo rifugio di Ettore Majorana
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2012 , pag. 104, ill., cop.fle., dim. 12x18,5x1 cm , Isbn 978-88-7937-443-9
PrefazioneMaria Rosario Landolfi, Domenico Montanaro
LettoreCorrado Leonardo, 2013
Classe biografie
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Indice


  7 Prefazione

 13 Visciano
 15 Io e i miei ricordi
 18 L'articolo di «Stampa Sera» e la mia coscienza
 19 Sant'Angelo del Monte
 22 Lo Sconosciuto di Sant'Angelo del Monte
 24 La caccia all'identità del misterioso personaggio,
    ovvero i ragazzi curiosi e lo sconosciuto
 27 Guerra e fame
 28 L'Agape fraterna
 31 Il professore dei Camaldoli
 34 Le "primizie" di mio padre
 38 Riservatezza violata
 40 Ricordi e rimpianti
 42 Testimonianze
 50 Testimonianze recenti
 66 Considerazioni
 72 I ricordi della "memoria adulta"
 74 La parola a uno scienziato
 78 Il priore dei Camaldoli lo chiamava Ettore
 82 Per concludere

 84 Postfazione
 90 Appendice
    Visciano
    L'Eremo di Santa Maria degli Angeli

101 Bibliografia

 

 

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Pagina 13

VISCIANO



«Visciano? Addò se trova 'stu paese?» è il primo verso di una canzone tipica della tradizione viscianese, risalente al 1931.

Quando, all'indomani dell'8 settembre 1943, cominciarono le rappresaglie tedesche, anche a Visciano si temette per i propri uomini. Tutti si erano preparati per far fronte al pericolo, ma non ci fu bisogno di contrastare il nemico. I viscianesi ebbero dalla loro un alleato potentissimo: l'inaccessibilità del sito.

I tedeschi arrivarono, dalla provinciale di Nola, ai piedi della salita che porta a Visciano, in località Schiava.

Le carte topografiche segnalavano un paese accucciato in una conca, tra verdi colline.

Avevano le loro efficienti camionette, sicuramente delle potenti motociclette, degli ordini perentori da eseguire, ma non si aspettavano di trovare una tale scalata da intraprendere, per cui i loro ben collaudati mezzi sarebbero stati più d'impaccio che di aiuto.

La strada, lunga all'incirca cinque chilometri, non era lastricata, era piuttosto un'erta dissestata, in parte franosa, con curve mal disegnate e rese ancora più impervie dalla pendenza e dalle intemperie.

Gli obbedienti e solerti militi intrapresero la salita ma, probabilmente, all'ennesimo disagio, al ruzzolone di qualche motociclista, al capotarsi di qualche vettura, anche il comandante della "missione rastrellamento giovani viscianesi" dovette pensare che sarebbe stato più utile e patriottico desistere.

E Visciano fu, forse, l'unico paese della zona non "visitato" dalle truppe germaniche.


Gli stessi viscianesi, d'altronde, per scendere a valle, verso Nola, praticavano dei sentieri che, dall'Eremo dei Camaldoli, attraverso Castelcicala, portano a Nola.

Tali, quindi, erano le vie d'accesso al piccolo centro agricolo che, tra l'altro, dalla strada provinciale non è visibile.

Se ho rievocato questo particolare, noto a quanti fra noi sono più anziani, per averlo vissuto con il cuore in gola, è per dare una valenza maggiore alla certezza che ho di avere visto e conosciuto quell'insolito personaggio che, per un lungo periodo, ha vissuto nel territorio del mio paese.

C'è ancora qualcuno che lo ricorda come «'nu monaco strano» anche se, quasi per tutti è «'o professore».

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Pagina 24

LA CACCIA ALL'IDENTITÀ DEL MISTERIOSO PERSONAGGIO,
OVVERO
I RAGAZZI CURIOSI E LO SCONOSCIUTO



Negli anni Quaranta, dicevo, una ben nutrita rappresentanza di studenti viscianesi scendeva per quella mulattiera per raggiungere le scuole di Nola.

Altri, quelli più abbienti, si servivano del pullman della ditta "La Manna e D'Elia", che effettuava due corse, alle sette antimeridiane e alle sei pomeridiane.

Il gruppo dei "podisti", costituita dalla "Compagnia dei cacciatori" del personaggio misterioso, era composta dagli studenti Mimi Ferrante, Giosuè Bernardo, Salvatore Sirignano, Felicetta Ferrante, Pasquale La Manna, Gennaro Addeo, Michele Addeo e il sottoscritto.

Un giorno, era primavera, decidemmo di fare filone, cioè di assentarci dalla scuola per seguire l'attività giornaliera del "nostro" sconosciuto.

Prendemmo la via rurale che menava al dirupato Chiostro di Sant'Angelo del Monte e lo vedemmo scendere dalla stanzetta del suo precario ricovero, avviarsi per l'impervio sentiero che costeggia i terreni di un certo Sangermano e, a poche centinaia di metri, deviare a sinistra, per raggiungere i resti di un Mausoleo romano – descritto anche dall'archeologo Amedeo Majuri in Passeggiate campane – e ammirarne interessato, quasi da intenditore, l'antica fabbrica abbandonata, le mura di contenimento del terrapieno in opus reticulatum e altri resti, qua e là sparsi.

Se ne rimaneva intento, per ore, a esaminarli, tra il disinteresse nostro, che non comprendevamo l'importanza di quei reperti che, invece, tanto lo avvincevano.

Sembrava che quasi instaurasse un colloquio interessante con quelle pietre e l'area circostante, ricavandone un intenso godimento che appagava il suo animo e la sua tensione interiore. Al che, molti di noi incominciavano a stancarsi, per cui qualcuno decise di abbandonare l'impresa.

Mentre decidevamo il da farsi, lo vedemmo risolversi muovendosi verso di noi, che stavamo acquattati in un incavo naturale del terreno più a monte, per non essere visti.

Finalmente "il nostro", dopo aver rivolto l'ultimo sguardo a valle, dove si ammirava un incomparabile spettacolo di paesi e ville fino a terminare sul Vesuvio e la marina di Torre Annunziata – Oplonti e Stabia – si mosse risalendo l'erta salita, sulla destra, per raggiungere l'Eremo camaldolese di Santa Maria degli Angeli.

Noi, che conoscevamo la scorciatoia, raggiungemmo prima di lui l'area ottagonale circostante l'ingresso dell'Eremo e di lì a poco lo vedemmo arrivare e dirigersi verso il portone, afferrare una funicella, che era collegata a una campanella, e uscirne un suono argentino.

A quel suono fece capolino il portinaio, fra' Massimiliano, al secolo Rodolfo Slezizschi, di nazionalità polacca, che lo fece entrare con fare confidenziale.

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