Copertina
Autore Philippe Mesnard
Titolo Primo Levi
SottotitoloUna vita per immagini
EdizioneMarsilio, Venezia, 2008, Gli specchi , pag. 228, ill., cop.fle., dim. 13,8x21,2x1,5 cm , Isbn 978-88-317-9596-8
PrefazioneFrediano Sessi
TraduttoreFrediano Sessi
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe biografie , storia letteraria , fotografia
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Indice


  7 Prefazione
    di Frediano Sessi

    PRIMO LEVI. UNA VITA PER IMMAGINI

 15 Introduzione
    di Philippe Mesnard

 19 1.  Gli anni della formazione
 51 2.  A che cosa assomiglia la vita dopo Auschwitz?
 77 3.  Le trasformazioni di un libro di testimonianza
105 4.  Se questo è un uomo attraversa le Alpi
109 5.  La tregua
115 6.  Il cambiamento morale a partire dall'adattamento teatrale
141 7.  L'uomo versatile
173 8.  Guardare in faccia la zona grigia dell'umanità
183 9.  Il richiamo delle cime e dell'aria pura
189 10. Posterità di Primo Levi
201 11. Una biografia cronologica dettagliata
213 12. Bibliografia


 

 

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Pagina 15

INTRODUZIONE



Non si scrive su Primo Levi senza tener conto dei numerosi libri che hanno già contribuito a diffondere il suo pensiero e a restituire all'uomo la giusta importanza e attualità. Dunque, chi si occupa di Primo Levi non può essere un autore solitario; ancor prima di circondarsi di lettori e critici, è con Levi stesso che sceglie le parole per raccontarlo. La sua presenza è viva e vigile. Levi era così attento alla diffusione del suo pensiero che colui che si avvicina alla sua opera si sente investito allo stesso modo dalla volontà di essere capito al di fuori di una ristretta cerchia, oltre un dire fine a se stesso.

Ed è una scommessa quella di evitare ogni forma di volgarizzazione che sminuisca la ricchezza della sua opera e tutto ciò che ne deriva. La questione della testimonianza è strettamente legata alla problematica della trasmissione; così ci si accorge assai presto che il pensiero di Levi, anche se lo si riconosce governato da una grande preoccupazione di chiarezza, non è affatto semplice. Primo Levi è un uomo multiplo, la cui personalità nasconde differenti aspetti e la cui discrezione ne rende l'approccio più difficile di quanto non si supponga a un primo sguardo.

Per questa ragione le immagini fotografiche ci aiutano a riscoprire la sua vita e le esperienze sulle quali è costruita. Instaurano un regime di alternanza che, dal testo all'immagine e inversamente, vuole aprire una strada per facilitare al meglio l'incontro con l'uomo e il suo destino. Perché si può ben parlare di destino per colui che, partito dalla chimica e rimasto fedele alla sua prima vocazione, diventa in seguito uno dei grandi testimoni della violenza estrema del nostro secolo, dopo essere riuscito a sopravvivere.


Primo Levi è senza alcun dubbio uno dei maggiori testimoni del sistema e dell'esperienza concentrazionari. Ma se la volontà di attribuire al sapere sui campi una portata universale caratterizza la sua azione e il suo impegno, non si può certo vedere in lui solo un testimone, sebbene esemplare. Sarebbe come limitarne il valore e l'importanza.

In effetti, vi sono altre dimensioni che sono ancora poco conosciute e che abbiamo voluto mettere in evidenza. Primo Levi è un intellettuale autentico che ha saputo impegnarsi su questioni politiche e letterarie. Al tempo stesso è anche scrittore, poeta, romanziere, narratore, drammaturgo e saggista (e rari sono i testimoni che hanno scritto saggi). Così, la sola categoria della testimonianza non è sufficiente a circoscrivere la sua opera. L'esperienza prima radiofonica e poi teatrale, inoltre, corrisponde a un momento chiave – una svolta – del suo pensiero.

Allo stesso modo, lo scrittore, il pensatore e il testimone non potrebbero esistere senza ricordare come la chimica ha rappresentato per Levi un mestiere, come amava dire, ma insieme il quadro dominante della sua esistenza, un modo di vedere e di stare nel mondo e di renderlo leggibile ai propri occhi – per mostrarlo agli occhi di tutti. La chimica è stata uno dei fattori che gli ha permesso di sopravvivere ad Auschwitz e, in seguito, di rimanere in disparte rispetto agli ambienti letterari ed editoriali ai quali sentiva di non appartenere. La chimica rimanda anche alle questioni della scienza e della ragione, centrali quando si tratta di ergersi contro l'irrazionale e l'oscuro, o contro l'oscurantismo dei negazíonistí.

Questo studio, che a tratti assume il carattere di una ricerca, a partire da un fondo fotografico unico e perlopiù inedito, ricostruisce la formazione intellettuale, l'esperienza della deportazione di Primo Levi ebreo, sebbene fosse stato arrestato come partigiano, e insieme, il percorso della scrittura delle sue opere e le sue differenti forme di impegno nello spazio pubblico, per soffermarsi anche sugli aspetti più caratteristici della ricezione di Levi nel mondo. Molti dei materiali proposti ne fanno riscoprire la sua molteplice presenza. Infine, non poteva mancare una conclusione intorno alla questione della permanenza e della diffusione del suo pensiero, attraverso una rivisitazione dei luoghi che gli sono consacrati. Così come ho fatto con le fotografie, mi è sembrato importante – quasi al modo di una guida – seguire, passo dopo passo, taluni momenti biografici dell'autore; senza per questo fare ricorso ad aneddoti che non avrebbero apportato chiarimenti né alla sua scrittura, né all'esperienza della deportazione vissuta ad Auschwitz, che si è sforzato di testimoniare in nome dei morti più che per se stesso, e ha rivolto ai vivi – a noi se fosse necessario.

PH.M.

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Pagina 34

In Piemonte, regione montuosa e ricca di potenziali rifugi, i partigiani sono molti. Primo Levi fa esperienza del paradosso di quel «rifugio» che la neve rende quasi inaccessibile e che si trasforma in trappola a causa delle difficoltà di rifornimento, dell'assenza di armi e della totale inesperienza militare dei membri del suo gruppo. «Avevamo freddo e fame, eravamo i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti. Ci credevamo al sicuro, perché non ci eravamo ancora mossi dal nostro rifugio, sepolto da un metro di neve: ma qualcuno ci tradì, ed all'alba del 13 dicembre 1943 ci svegliammo circondati dalla repubblica». Il gruppo, che era costituito da undici persone tra uomini e donne, si trova di fronte a un importante distaccamento di miliziani fascisti partiti in missione per arrestare un'altra brigata, assai più importante.

La maggior parte riuscirà a fuggire, solo Primo Levi e due dei suoi compagni saranno arrestati e condotti alla caserma di Aosta. Nel corso del tragitto, Levi riesce a sbarazzarsi del suo taccuino di indirizzi e, ingerendola, della carta d'identità «veramente troppo falsa». Per circa un mese, viene regolarmente interrogato sulle sue attività di resistente. Dichiarandosi ebreo, pensa che gli venga riservata una sorte più favorevole di quella riservata ai partigiani destinati, secondo i suoi carcerieri, al plotone d'esecuzione.




Da Fossoli ad Auschwitz, verso una destinazione ignota

Nel gennaio del '44, Primo Levi cade sotto i colpi delle leggi razziali, ormai applicate con estremo rigore dall'occupante tedesco e dalle milizie repubblichine. Dalla caserma di Aosta, viene trasferito al campo di Fossoli, a una ventina di chilometri da Modena. Predisposto all'inizio, nel 1942, per i prigionieri britannici e americani catturati in Africa del Nord, nell'autunno del '43 il campo diventa luogo di detenzione per gli oppositori, poi, in dicembre, «un campo di concentramento e transito per ebrei» sotto l'autorità della prefettura di Modena. A partire dal febbraio del '44, passa sotto il comando delle SS, fatta eccezione per alcune baracche del settore denominato Campo vecchio, che restano amministrate dalla Repubblica sociale di Salò. Solo nell'agosto del '44, con l'avanzata degli Alleati, il campo di Fossoli viene abbandonato e trasferito al campo di Bolzano-Gries. Nel corso del suo funzionamento, a Fossoli sono state internate circa 5.000 persone.

A partire dall'ottobre del 1943, tutti gli ebrei italiani sono considerati dei senza patria, suscettibili di venire arrestati e privati dei loro beni. Le deportazioni cominciano il 16 ottobre dello stesso anno. All'inizio, colpiscono gli ebrei di Roma. Ecco una breve citazione dal racconto di Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, che ricostruisce in parte la razzia del ghetto di Roma: «Dei camion veniva abbassata la sponda destra e si cominciava a fare il carico. I malati, gli impediti, i restii erano stimolati con insulti, urlacci, e spintoni, percossi coi calci dei fucili. Il paralitico con la sua sedia venne letteralmente scaraventato sul camion, come un mobile fuori uso su un furgone da trasloco. Quanto ai bambini, strappati alle braccia delle madri, subivano il trattamento dei pacchi, quando negli uffici postali si prepara il furgoncino».

I prigionieri politici del campo di Fossoli vengono deportati a Mauthausen, gli ebrei ad Auschwitz-Birkenau. I primi convogli partono da Fossoli nel febbraio del '44, e saranno seguiti da altri otto, fino al 2 agosto dello stesso anno. Degli 8.369 ebrei italiani deportati, 2.226 partirono dal campo di Fossoli.

In Se questo è un uomo, Primo Levi descrive le ultime ore nel campo di transito, prima della partenza del convoglio. Anche se poco informati sulla realtà della "Soluzione finale", gli internati più religiosi organizzano cerimonie funebri. Il 22 febbraio 1944, nel corso del mattino, con altri 650 detenuti, di cui solo 469 sono stati identificati, Primo Levi viene deportato verso una destinazione che scopre solo al termine del viaggio, durato quattro giorni. «Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra». Del resto, per un gran numero di europei questo toponimo non evocava niente; in Francia, la maggior parte degli ebrei che stavano per essere deportati designavano quel luogo enigmatico con il nome di Pitchipoï. Il viaggio comincia dalla stazione di Carpi e in vagoni merci. Primo Levi e i suoi compagni di sventura di ogni età scoprono allora la brutalità dei nazisti. A Bolzano, poco prima di lasciare il Paese, Primo Levi, Vanda Maestro e Luciana Nissim scrivono una lettera indirizzata a Bianca Guidetti Serra. Come molti di questi messaggi, vere e proprie «bottiglie gettate in terra», verrà raccolto da un ferroviere e, miracolosamente, giunse a destinazione.


La selezione ad Auschwitz-Monowitz

«Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli».

Il 26 febbraio 1944, verso le 21, il convoglio del trasporto di Primo Levi e dei suoi compagni arriva alla Judenrampe di Birkenau. Le famiglie vengono separate. Uomini, donne e bambini divisi in due gruppi. Se tutti sono destinati alla morte, alcuni, tra cui Primo Levi che a quel tempo aveva venticinque anni, vengono "selezionati" come manodopera per l'industria tedesca o per il funzionamento del campo. Le modalità della selezione sono tra le più aleatorie e lasciano un grande spazio al caso: variano a seconda dei bisogni del momento e riguardano solo gli uomini giovani e in buone condizioni di salute e le donne senza bambini. Gli altri vengono condotti all'interno del campo di Birkenau e assassinati nelle camere a gas, molto spesso nelle prime ore che seguono l'arrivo.

In tempo record, in meno di dieci minuti, i deportati vengono trattati e la sorte della vita della maggior parte di loro è "regolata" in modo definitivo. Levi si trova tra gli uomini validi che adesso costituiscono un piccolo gruppo rispetto agli altri. «Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich [...] Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri».

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Pagina 141

7.
L'UOMO VERSATILE



«Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica: sono un tecnico, un chimico. Un'altra invece è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli. È una spaccatura paranoica».

E tuttavia, a guardar meglio, si ha l'impressione che quest'uomo — paradossalmente — fosse composto di più metà. Forse, sarebbe stato anche un ottimo soggetto della letteratura fantascientifica (o fantabiologica, per riprendere l'espressione di Calvino), che avrebbe destato interesse in Damiano Malabaila "in persona", per uno dei suoi racconti. Uomo versatile, Primo Levi ha saputo esplorare la scrittura in tutte le sue forme sperimentali, poetiche, classiche o polemiche di cui si è letto qualche testo su «La Stampa». Ma prima di ciò, aveva un'attività letteraria ed editoriale che non si limitava alla scrittura, pur costante e intensa, dei suoi libri e articoli. Era un traduttore e un lettore.

In Primo Levi, il traduttore e il lettore si richiamano a vicenda nello stesso uomo. Già durante l'episodio della lezione di italiano che ritroviamo ne Il canto di Ulisse di Se questo è un uomo, Primo Levi si presenta come un traduttore indissociabile dal pedagogista che insegna l'umanità attraverso una citazione del poema di Dante. La sopravvivenza nel campo esigeva la minima comprensione del gergo germanico che parlavano le SS. Levi non soltanto possedeva già qualche rudimento di tedesco, ma contratta una formazione integrativa per identificare meglio i pericoli del mondo concentrazionario.

«Potevo sentire però, insieme con la paura, la fame e lo sfinimento, un desiderio estremamente intenso di comprendere il mondo circostante. La lingua in primo luogo. Sapevo un po' di tedesco, ma capii che dovevo impararlo molto meglio. Arrivai al punto di prendere lezioni, pagandole con una parte della mia razione di pane». Conoscere la lingua fa parte delle prime misure d'urgenza necessarie per capire il paese, il mondo, il pianeta dove ci si trova, per amore o per forza. Ebbene, Levi, in nessun momento della sua esistenza, ha rinunciato a mettersi a disposizione dell'apprendimento e della scoperta, e questo fa parte della sua umiltà di fronte al reale (qualità che l'uomo ha tendenza a trascurare). Una qualità che lo spingerà a esplorare la zona grigia a partire dagli anni ottanta mentre avrebbe potuto disinteressarsene a profitto della propria gloria. Ma torniamo alla questione della traduzione e della disposizione di Levi per le lingue, la loro diversità, la loro ricchezza, per fare l'esperienza della babele umana.

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Il mestiere e l'altro: chimico scrittore o scrittore chimico?
Primo Levi resta un chimico nell'anima. Questa scienza fondatrice è per lui più di un mestiere, è un modo di vedere il mondo, di andargli incontro. E di rendere intellegibile l'esperienza vissuta. Così tutta la vita di Primo Levi sarebbe stata guidata dalla scommessa di spiegare: nel suo lavoro di chimico, nel suo essere uomo pubblico e nel dovere di trasmissione. Una scommessa che non avrebbe mai spinto fino all'illusione di giungere a una spiegazione definitiva, perché la chimica insegna a colui che se ne occupa che il reale non si può ridurre a conoscenza, che c'è sempre qualcosa di incomprensibile che resiste alla scienza. Levi viveva in questa tensione che collega la volontà di sapere – e di trasmettere – a ciò che fa resistenza. Auschwitz, certo, era il nome di ciò che nella sua vita come agli occhi dell'umanità manteneva una parte irriducibile, non padroneggiabile.

La chimica posta in rapporto all'ignoto. Non è solo una scienza, è un metodo di esplorazione che è al tempo stesso una sorta di corollario pragmatico ai valori degli umanisti dei Lumi di cui Levi si presenta come erede. Pragmatica? Perché la chimica passa dalla sperimentazione e punta a un ordine della materia. «Ma che cosa le interessa, nella chimica?» gli chiede Ferdinando Camon. «Mi interessa il contatto con la materia, capire il mondo che è attorno a me» risponde. La chimica assume allora il senso e la funzione di una metafora proteiforme della scrittura – il mestiere degli altri diviene così il mestiere di questo altro che è in Primo Levi. A un tempo chimico scrittore e scrittore chimico.

Per illustrare questo passaggio Il sistema periodico è l'opera esemplare. Pubblicata nel 1975, è costruita in modo manifesto a partire da un dispositivo simbolico. Il libro è composto da ventuno racconti che hanno come titolo il nome dei ventuno elementi della celebre tavola di Mendeleev. In ognuno dei racconti, Levi torna su alcuni episodi che segnano la sua esistenza. Ma il filo conduttore di questi episodi non è il loro carattere cronologico quanto la chimica, che dà la necessaria coerenza a taluni accadimenti, legati al suo arresto, alla deportazione o alla perdita di un caro amico, che sono stati particolarmente dolorosi o caotici. La lingua è allora un luogo di passaggio, la chimica una vera e propria guida. Per parlare di una vita che porta l'impronta dolorosa di una concatenazione di circostanze e di perdite che hanno nome Auschwitz, è necessario passare per la pratica dell'autobiografica classica? No, sarebbe come credere che si può parlare meglio di sé con l'illusione di avvicinarsi a ciò che è passato definitivamente, o cercare di attribuire alle parole la circostanza della scomparsa o dell'intensità della violenza subita (la scrittura poetica è in grado di caricare le parole con il peso del reale, ma Il sistema periodico non risponde a un simile progetto — e sappiamo bene che Levi scriveva anche poesie). È allora necessario passare per la pratica della testimonianza? No, Levi l'aveva già sperimentata e, con essa, non si trattava tanto di parlare della propria esperienza ma di testimoniare per i morti e di mantenere la memoria del crimine per far comprendere ciò che era accaduto e come era accaduto. Prendere la strada della tavola di Mendeleev significava assoggettare la descrizione della vita a un ordine arbitrario che rompeva con le possibilità dell'illusione autobiografica. Voleva dire legare la lingua alle cose – alle cose della vita come si dice in francese – in modo arbitrario, seguendo l'alfabeto di questa scienza che, tra l'altro, sa esplorare la materia. Da questa pratica deriverà tutta una sua concezione del linguaggio.

Di quali elementi si tratta ne Il sistema periodico? Legati a quale periodo? Alcuni, come l'idrogeno nella descrizione di un'esperienza, ci possono servire da esempio, altri come il piombo sono invece semplici pretesti, mentre lo zinco e il ferro sono presenti a titolo simbolico. L'avere scelto il carbone per l'ultimo capitolo consente a Levi un'apertura su una polisemia che esprime a un tempo l'elemento fondamentale per tutti gli esseri viventi: la possibilità stessa della vita, la datazione di una materia (il carbonio 14) – la possibilità stessa di una storia della vita organica – e, più prosaicamente, la duplicazione con la carta dello stesso nome – la possibilità di diffondere e, ciò facendo, di comunicare. Soffermiamoci sul racconto Cromo nel quale, dopo avere ricordato l'incontro con la sua futura moglie, Primo Levi scrive: «Altrettanto guarito era il mondo intorno a me, ed esorcizzato il nome e il viso della donna che era discesa agl'inferi con me e non ne era tornata. Lo stesso mio scrivere diventò un'avventura diversa, non più l'itinerario doloroso di un convalescente [...], ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un'opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché».

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Pagina 173

8.
GUARDARE IN FACCIA
LA ZONA GRIGIA DELL'UMANITÀ



Forse è necessario avanzare l'ipotesi che dietro questa volontà di comprendere ciò che ha spinto i tedeschi al crimine, ci sia l'ossessione di chiarire che cosa spinga una massa (una nazione, una popolazione che si pone sotto l'autorità di uno Stato, di un partito o di un clan) a perpetrare delle violenze che colpiscono l'umanità nel corpo e nello spirito; ossessione che cerca anche di capire ciò che spinge una popolazione a lasciar fare. A tal proposito, è proprio sulla questione della zona grigia che Levi torna in continuazione. Questo interesse si manifesta parallelamente all'accentuazione delle problematiche della solidarietà e dell'umanità che lo scrittore affronta nei suoi libri di testimonianza. Come se trasmettere un messaggio di umanità e, insieme, di speranza non potesse valere se non in relazione a una ricerca di ciò che nella stessa umanità conduce alla distruzione. La messa in tensione di queste due dimensioni è importante per avvicinarsi al suo pensiero: trasmettere un messaggio chiaro che conduce alla fede nell'uomo, certo, ma con una convinzione altrettanto forte di andare a esplorare la violenza nelle sue forme più complesse, che comprende l'uomo. E coincide anche con un altro fattore, decisivo, del percorso di testimonianza di Levi – decisivo tanto più perché agli occhi di qualcuno può essere uno degli elementi che ne spiega il suicidio: si tratta della fatica di testimoniare che Levi esprime con decisione e a volte con rassegnazione.

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