Copertina
Autore Reinhold Messner
Titolo Popoli delle montagne
SottotitoloFotografie e incontri
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2002, Nuova Cultura 91 , pag. 226, dim. 230x270x23 mm , Isbn 978-88-339-1406-0
OriginaleBergvölker: Bilder und Begegnungen
EdizioneBLV Verlagsgesellschaft, München, 2001
TraduttoreOrsetta Barbero Lenti
LettoreCorrado Leonardo, 2002
Classe montagna , fotografia , etnologia , paesi: Tibet , storia: Asia
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Indice


  6 LE MONTAGNE D'EUROPA

  8 Problemi comuni
 10 Contadini di montagna del Sud Tirolo
    in trasformazione
 12 Riti alimentari
 14 I miei antenati
 15 Grandi famiglie e società rurale
 16 Dall'interno e dall'esterno
 17 Il futuro dei bambini
 19 Dio, mandaci la pioggia!
 20 Il mio bisnonno
 22 Un piccolo maso in Sud Tirolo
 24 Le donne delle montagne
 26 Fiori alle finestre
 28 Sotto il monte Rosa
 30 Se i contadini di montagna scendono a valle
 31 Armonia

 32 LE MONTAGNE DELL'ASIA

 34 Nazionalismo come stimolo
 36 Inshallah
 38 Tra il Demavend e il Sahara
 39 I curdi
 40 Dimostrazioni di forza e terrore
 42 Esodo in Caucaso
 43 Fiducia atavica
 44 L'eredità culturale come vincolo
 46 Popolazione rurale tra l'Oxus e l'Hindukush
 47 Ai piedi dell'Hindukush
 48 Gioco e lavoro dei bambini
 50 Il pane
 52 Come ospiti in cammino
 54 Le valli disabitate del Tien Shan
 56 Gli hunza, tra il Karakorum e l'Himalaya
 58 Ultar Nullah
 60 Roccaforte e pascoli
 63 Isar Khan
 64 Latte e burro
 65 Rischi in alta montagna
 66 Shangri La
 67 Antiche arti
 68 Realizzare se stessi
 70 Preghiera e sciopero
 70 I balti
 72 Semina scarsa su una terra dura
 74 Pulizia
 76 Prima che il tempo li raggiunga
 78 In alto oltre l'ansa dell'Indo
 80 Incertezza
 81 Autunno nella valle di Rakhiot
 84 Esodo
 86 Come secoli fa
 88 A cavallo e nelle iurte, come un tempo
 90 Identità regionale
 92 Sotto la protezione di madre, padre e muri
 94 Uiguri nel Taklimakan
 95 Strati
 96 Danze e giochi
 98 Ladakh, l'ultima roccaforte del lamaismo
100 Architettura dei paesaggio
102 Regole della vita in comune
103 Nascoste e sporche
104 L'altopiano del Tibet
106 Amuleti e ornamenti
108 Karma
111 Ricchi sono solo i monasteri e gli dei
112 Morte, distruzione e ricostruzione
114 Migrazione di popoli
116 Sale dal Tibet
118 Attraverso il Tibet
120 Nel Tibet del nord
123 Nella terra degli sherpa
124 Alberghi, l'inizio del turismo
126 Il vecchio lama di Pangboche
128 I portatori d'acqua degli scalatori
130 Lavoro e pericoli
132 Guide alpine in Europa e
    sherpa sull'Himalaya
134 Contadini di montagna nepalesi
136 Urkien
138 Mani Rimdu
140 In cammino
141 Sentieri ripidi
142 Gli sherpa del Rolwaling
144 Impotenza
147 L'artigianato
148 Povertà e ricchezza
150 Religiosità
151 Fede, felicità e bellezza
152 Non solo un re
154 Centomila monaci circondati dal mistero
156 Il lavoro dei bambini
157 Alcol
159 Con gli occhi aperti
161 Cultura tibetana in Nepal
162 Inverno nel Mustang
164 Cascine in inverno
166 Acqua e mulini
167 Villaggio in inverno e in estate
169 Inverno a Manang
170 I granai sono chiusi
172 Ritorno al Medioevo
174 Cieli della migrazione annuale

176 LE MONTAGNE D'AMERICA

178 Sulle vette delle Ande
179 Sospinti verso le valli impraticabili delle
    Ande
18o Morte a Pokpa
182 Nessun riparo nella Puna de Atacama
184 I valori di chi resta
186 Window Rock e il Terzo mondo
188 Fiducia nella terra
1gi Dall'esterno e dall'interno
192 Kucherla

194 LE MONTAGNE DELL'AFRICA

196 Sempre in cammino
198 Alis, la guida dei masai
200 Uomini nel deserto
202 Architettura senza architetti

204 LE MONTAGNE DELL'OCEANIA

206 L'altopiano della Nuova Guinea
208 Nessuna paura dei cannibali
210 Freddo, fame e piedi nudi
212 Sulle tracce delle ultime tribù di montagna

214 APPENDICE ETNOLOGICA

224 Consigli utili per chi viaggia
225 Bibliografia
 

 

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LE MONTAGNE D'EUROPA



Il motivo principale che mi ha spinto a scrivere questo libro è il fatto che sono cresciuto in un paese di contadini del Sud Tirolo e ancora oggi vivo in montagna. Se non avessi mai vissuto e lavorato insieme ai contadini delle Alpi, non avrei potuto capire neppure gli altri popoli che vivono in montagna. Per questo mi sono familiari i tetti delle case di Ilaga, il letame davanti alle stalle di Hunza o lo sgabello per mungere a Namche Bazar. Non ho osservato le tribù montane di tutti i continenti per indagare le loro condizioni di vita, ho soltanto cercato di capire in che cosa si assomigliano o si differenziano i loro mondi.

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DALL'INTERNO E DALL'ESTERNO

Da bambino trascorsi due estati lavorando nel Braunhof sul Renon. Ho lavorato nelle stalle, nel bosco e nei campi. Durante la fienagione bisognava alzarsi molto presto, alle quattro, e spesso era già notte quando, alla sera, ritornavamo a casa. Questa straordinaria esperienza in un maso mi ha permesso di capire molto bene la vita dei contadini. In casa, alla domenica, dalla finestra, seguivamo con lo sguardo i «signori» che passeggiavano per il sentiero tra l'abitazione e la stalla con il magazzino dei foraggi. E quanta rabbia provavamo quando i villeggianti stavano a guardare, per ore intere, come noi mettevamo insieme il fieno, avvolgendolo nei teli. Ci guardavano come animali in uno zoo.

In seguito, durante le mie spedizioni, sebbene all'inizio inseguissi soltanto mete alpinistiche, abbandonai per la prima volta il mio ambiente culturale e imparai a conoscere paesi stranieri. Ben presto cominciarono a interessarmi non solo le vette ma anche gli uomini che vivono ai piedi delle grandi montagne. La cosa che mi colpiva ancor più degli aspetti sconosciuti, dei riti e dei modi di vivere, era la naturalezza che i bambini dei contadini esprimevano ovunque, sebbene fossero obbligati a lavorare insieme agli adulti. Nei bambini dei portatori più poveri, uomini che avevano imparato soltanto a servire, trovai quella fiducia in se stessi che manca al cittadino che si crede affermato. Non è la fierezza che questi uomini contrappongono alla crescente angoscia esistenziale di chi mira unicamente al proprio benessere, è la gioia di vivere riuscendo a nutrirsi dei propri prodotti.

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Pagina 17

IL FUTURO DEI BAMBINI

Quanti genitori che vivono nelle grandi concentrazioni urbane sognano che i loro bambini possano giocare nei prati e nei boschi. Oggi i sentieri dove si può gridare e saltare liberamente, i fienili e le stanze per accogliere tutti quando piove o nevica, sono considerati un lusso.

I bambini dei contadini di montagna vivono ancora questa realtà quando iniziano a esplorare e conquistare il loro mondo. Ed è per questo motivo che, al momento di affrontare la prova della scuola, trovano difficile abituarsi alle aule piccole e sovraffollate delle città rumorose e caotiche. Durante gli anni delle elementari, affaticati dal lungo tragitto tra casa e scuola e dal lavoro in casa, a volte restano indietro rispetto agli altri bambini; nelle scuole superiori invece è l'animo che ne soffre perché, costretti in collegio, devono vivere lontani dai genitori e dall'ambiente familiare. Questa situazione è la medesima ovunque, che si tratti di un bimbo di contadini del Sud Tirolo o delle ragazze curde.

Nel frattempo in molti insediamenti montani sono sorte le scuole. Sull'altopiano dell'Irian Barat i missionari olandesi si occupano della scuola, nel Solo Khumbu Edmund Hillary, il primo scalatore dell'Everest, ha fondato una scuola, e in altri luoghi sono intervenute associazioni private appoggiate dallo stato. Tuttavia soltanto gli insegnanti in grado di capire le condizioni particolari in cui crescono i bambini dei contadini e di iniziare a gettare le basi della loro cultura, possono costituire un valido aiuto. In caso contrario molti saranno costretti ad andare nelle città per consentire ai fratelli, svantaggiati fin dall'inizio, di sopravvivere nei villaggi.

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Pagina 28

SOTTO IL MONTE ROSA

Nell'estate del 1993 mi recai sotto il monte Rosa insieme al professar Zanzi e a suo figlio per un motivo preciso, non per una semplice passeggiata in montagna. Il mio interesse era rivolto ai walser, che da secoli vivono nelle valli ai piedi di questo possente massiccio, e alla possibilità di sopravvivenza della loro cultura. Ci spostavamo da una valle all'altra per incontrare la gente e parlare. Osservavo le persone e facevo domande.

Non ottenni risposte. Sul monte Rosa gli uomini sono molto silenziosi, come le gole, profonde e cupe. Ogni cosa resta senza risposta. Le valli giacciono tra le montagne come bocche mute, aperte. Spalancate ma senza che ne escano suoni.

Gli uomini, che un tempo continuavano ad arrampicarsi sui pendii delle montagne per creare insediamenti, fissavano il fondo di queste gole come pervasi da una sensazione di vuoto. Ed era così ovunque: sull'Himalaya, sulle Ande, nel Caucaso o sulle Alpi. Questi uomini di montagna si sono costruiti case adeguate al clima, utilizzando i materiali del posto, di solito pietra e legno. Le tecniche, gli attrezzi e il ritmo di lavoro in molti luoghi sono così simili che le distanze tra le singole popolazioni a volte confondono. Sherpa e walser, indios e cimbri potrebbero essere vicini di casa.

I torrenti, le barriere di detriti, le frane in montagna sono simili dappertutto e coloro che devono vivere cercando l'armonia sui pendii ripidi dei monti diventano ingegnosi quando sono minacciati dalle catastrofi.

Ovunque sulla terra, dove le montagne s'innalzano fino al cielo, l'uomo cerca di sfruttare i terreni da pascolo in alto, fino al limite della vegetazione arborea. Conosce la conformazione della regione e non ha bisogno né di carte geografiche né di bussola per correre dietro agli animali domestici o alla selvaggina; con un complicato sistema di canali porta l'acqua dai nevai della vetta fino ai terreni coltivati a fondovalle per irrigarli. Con la medesima ostinazione con cui le montagne un tempo si sollevarono dal profondo della terra verso il firmamento, l'uomo usa i luoghi pianeggianti come campi, dissoda le foreste, costruisce sentieri, ponti, case.

La vita degli uomini delle montagne, diversamente da quella di coloro che vivono nelle città, pare serena e tragica nello stesso tempo. Non ho mai voluto scoprire se dietro tutto ciò ci sia la consapevolezza che non esiste alcuna via di scampo oppure semplicemente l'ingenuità di coloro che sono prigionieri delle gole e delle zone detritiche.

Nel corso dei secoli l'uomo «razionale» ha costruito un regno di comodità e sicurezze, la città, e considera «normale» questo modello di organizzazione sociale. Tuttavia c'è ancora qualcuno che continua a vivere tra le montagne. Lassù cercare di cavarsela è molto diverso dal vivere in un bassopiano: faticoso, con molti impedimenti, monotono. Malgrado tutto, vogliono restare lassù. Anche gli antenati soffrivano di nostalgia e d'angoscia e spesso pativano il freddo. Nascevano e morivano in solitudine ma non abbandonavano le loro cascine, le valli, le montagne. Essere soli è come essere lassù, sopportabile fintantoché si risparmia il proprio mondo dall'ordine sociale delle città. Sono molto pochi coloro che raccontano le loro storie nei libri o nei film. Vivono la loro vita fino alla fine e ogni singolo destino resta visibile nei tetti, nei muri, nei canali d'acqua. La loro realtà non ha bisogno di essere verificata. Anche gli arnesi degli artigiani vengono inventati e dimenticati.

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I VALORI DI CHI RESTA

Nessun dubbio, abbiamo portato i valori di chi resta nelle nazioni industrializzate. Collegati in rete ovunque e, in qualche modo, socialmente sicuri, controlliamo il mondo e il nostro denaro controlla il mercato capitalistico. Tuttavia la nostra vita sembra essere costantemente minacciata. Le situazioni di allarme si susseguono, e così pure i programmi d'emergenza. Minacciati dall'esaurimento delle fonti di energia e dalla catastrofe climatica, spaventati dall'AIDS e dalle intossicazioni alimentari, preoccupati per la foresta tropicale e per la molteplicità delle specie, la speranza e la gioia di vivere si dileguano.

Una vera tragedia ma senza rimproveri o dubbi e alla fine senza la nostra partecipazione: il declino dei popoli delle montagne. Molti credono che l'ultimo atto dell'esodo dalle montagne significhi un guadagno per noi, un beneficio per le città. «I popoli delle montagne devono scomparire?» chiedo a me stesso e ai miei lettori.

Forse presto ci ricorderemo di loro nei nostri musei, degli hunza e degli sherpa, dei walser e degli indios, delle società tribali senza rappresentanti, delle società non costituite in nazione, degli aborigeni dei continenti più lontani. Tra alcuni decenni forse li avremo scacciati, integrati, assimilati oppure molto semplicemente eliminati. Ma quando avremo tolto all'ultimo khampa il suo orgoglio, al dani della Nuova Guinea l'astuccio penico e alla donna ladakhi i gioielli di turchesi per metterli nel nostro zaino, sarà troppo tardi. Perché se berremo il tè al burro sotto qualche tetto di lamiera o in qualche albergo di paese e ci entusiasmeremo per i tempi passati, nessuno saprà più che cosa è andato realmente perduto. Le strade, le case e gli stili di vita saranno come i nostri.

Se vogliamo «civilizzare» gli uomini delle montagne, diventeranno come noi, nostri pari. Ma come faranno le generazioni future a capire che cosa è andato perduto con il declino delle culture di montagna? Chi sentirà la mancanza di qualcosa che non ha mai conosciuto?

Cento anni fa un terzo della superficie terrestre apparteneva ancora ai popoli delle montagne. Ma gli uomini delle montagne non hanno costituito uno stato proprio, non hanno conservato le loro religioni, di rado hanno creato industrie. Non si espandevano, non facevano i missionari. Non investivano il denaro in azioni, non brevettavano il loro know-how. Sono stati conquistati, incorporati, evangelizzati, senza che potessero difendersi. Per i colonialisti non sono mai stati più che popolazioni esotiche. Esistevano ma non contavano. Certo, noi li visitiamo, offriamo loro aiuto per lo sviluppo dei turismo, li rispettiamo, paghiamo per i loro servizi, ma non cerchiamo di capirli. Quale forma dovrà assumere dunque una promozione del turismo che risulti adeguata anche per loro?

Se la povertà materiale dovesse essere paragonata alla diaspora culturale, nel nostro mercato globale potremmo rinunciare alla cultura dei caucasici, dei masai e dei tuareg. Ma tutte queste popolazioni di montagna hanno un'esperienza di vita così grande per ciò che concerne la sopravvivenza che potremmo diventare loro eredi: ricchezza di sentimenti, parsimonia, rispetto di fronte all'universo. Conservare tutto ciò sarebbe più importante del tentativo di renderli simile a noi. Il fatto che ai khampa, ai kalash e ai curdi non interessi cambiare il loro mondo in un miscuglio di carceri e parchi per il tempo libero, grandi magazzini e discariche, non significa negare la civilizzazione. Non devono diventare tutti come noi. Gli uomini che vivono in montagna hanno bisogno di mantenere la coscienza della propria identità, i valori che corrispondono al loro modo di vivere, i diritti sulla terra in cui vivono, le scuole che si fondano sul sistema di valori della loro cultura e non della società industriale. Sono loro che devono poter stabilire il grado della loro povertà e del loro isolamento. Forse lo sparuto manipolo degli scampati avrebbe ancora una possibilità di restare lassù dove solo loro sono in grado di sopravvivere.

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