Autore Clemens Meyer
Titolo Eravamo dei grandissimi
EdizioneKeller, Rovereto, 2016, Passi , pag. 608, cop.fle., dim. 14,5x21x4 cm , Isbn 978-88-99911-00-3
OriginaleAls wir träumten
EdizioneFischer, Frankfurt am Main, 2007
TraduttoreRoberta Gado, Riccardo Cravero
LettoreCristina Lupo, 2018
Classe narrativa tedesca












 

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Indice


Giochi da bambini                     9

Mine colorate                        18

Palast Theater                       53

Radiazioni                           66

Nel buco nero  I   Contatti          78
               II  Concorrenza      101
               III Gite             109

Grandi incontri                     132

Bagno di Ketchup                    157

Sempre pronti                       171

Ritorno                             179

Notti verdi                         204

Tempi supplementari                 213

Carcere minorile di Zeithain        222

Tutte le mie donne                  285

Eastside Story                      292

Alla Silberhöhe                     310

Thilo dei tatù                      332

Cane randagio                       340

Spari                               382

Ritorno, addio                      398

Alla Grüne Aue                      416

Grande Carro                        456

Piccolo bolide Primo giro           477
               Secondo giro         480
               Terzo giro           482

Assemblee                           486

Misure occupazionali straordinarie  514

Cuore di cane                       521

Uccellino                           543

Addio                               548

Quando eravamo reporter             587


 

 

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Pagina 9

GIOCHI DA BAMBINI



So una filastrocca. La canticchio tra me e me quando la testa comincia a giocarmi strani scherzi. Credo che la cantassimo da bambini saltellando da un rettangolo di gesso all'altro, ma può essere che me la sia inventata o l'abbia soltanto sognata. Certe volte la recito in silenzio, solo muovendo le labbra, altre mi metto a canticchiarla e nemmeno me ne accorgo perché mi ballano in testa i ricordi, no, non dei ricordi qualsiasi, ma quelli dopo la magnifica caduta del Muro, quando siamo, come dire... venuti in contatto.

In contatto con tutte quelle auto colorate, con la birra Holsten e lo Jägermeister. All'epoca avevamo quindici anni, la Holsten Pilsener era troppo amara e quindi, almeno nel bere, eravamo conservatori. Leipziger Premium Pils. Costava anche meno perché ce la procuravamo direttamente nel cortile della fabbrica, la Leipziger Premium Brauerei. In genere di notte. Il birrificio era il fulcro del quartiere e della nostra vita. L'origine di notti etiliche nel cimitero di periferia, di infinite orge vandaliche e di balli sui tetti delle macchine nella stagione della Bock, la birra forte.

La Original Leipziger era una specie di fatina bionda che usciva dalla bottiglia, ci prendeva dolcemente per i capelli e ci issava oltre i muri, faceva volare le macchine e ci prestava il tappeto magico con cui schizzavamo via sputando in testa alla pula.

Peccato che queste sonnamboliche notti volanti si concludessero nella maggior parte dei casi con l'atterraggio in una cella di ubriachi o nel corridoio del commissariato sud-est di polizia, ammanettati a un termosifone.

Quando eravamo bambini – a quindici anni si è ancora bambini? Forse abbiamo smesso di esserlo la prima volta che siamo comparsi davanti al giudice, quasi sempre una donna, o la prima volta che ci hanno riaccompagnato a casa di notte e il giorno dopo siamo andati a scuola (o anche no) con i polsi sottili ancora segnati da quell'8 del cazzo – quando eravamo ancora dei bravi bambini, dicevo, per noi il fulcro del quartiere era la grande azienda del popolo VEB Giocattoli in Duroplast, Timbri e Affini. Avevamo un compagno di classe, per il resto irrilevante, che ci procurava timbri e macchinine tramite la madre impiegata al reparto dei tamponi inchiostrati, per cui non lo menavamo e, anzi, ogni tanto gli allungavamo persino qualche spicciolo. Nel 1991 l'azienda fallì, demolirono l'edificio, la madre del piccolo ricettatore perse il lavoro dopo vent'anni là dentro e si impiccò nel cesso sul pianerottolo, per cui continuammo a non menarlo e ad allungargli qualche spicciolo anche dopo. Oggi al posto del VEB c'è un discount dove vendono birra e spaghetti di sottomarche.

La storia che la madre si è suicidata è un'invenzione. Nel 1992 ha trovato lavoro in un distributore della Shell appena aperto, faceva sempre finta di non conoscerci quando andavamo a comprare birra e roba più forte da lei perché era notte, gli altri negozi chiusi e certe volte i muri del birrificio troppo alti anche per noi.

La cosa fantastica è che il birrificio c'era sempre, c'era anche se non lo vedevamo perché stavamo portando a casa la borsa a una vecchietta un paio di vie più in là, o perché era notte (intendo quelle tarde serate invernali terribilmente buie in cui vedi solo le luci e ti senti tristissimo), o perché ci sfrecciavamo davanti in macchina a occhi chiusi. La grande, vecchia Leipziger Premium Pilsner Brauerei c'era. Lo sapevi dall'odore. Un odore veramente buono, cazzo, una botta di luppolo, come di tè forte ma molto meglio. Con il vento giusto lo sentivamo a chilometri di distanza.

Se apro la finestra lo sento persino adesso, anche se sono molto lontano; peccato che gli altri non vogliano saperne niente. Del resto come potrebbero, non ho nemmeno provato a dirglielo e nelle notti in cui non riusciamo a dormire e restiamo svegli nei letti mordo un angolo della coperta pur di non raccontare quegli anni selvaggi.

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Pagina 15

Una notte come un sogno. Eravamo nel nostro parco, dove presto tornerò a fare una passeggiata e a guardare i bambini giocare nella sabbiera, la stessa dove una volta pisciavamo e non di rado vomitavamo pure. Quella notte tanto per cambiare avevano ribeccato Fred che, in piedi sul muro di cinta del birrificio, stava passando le casse di birra a Rico, Rico il matto, come lo chiamavamo quando non c'era, perché ai tempi della DDR aveva staccato con un morso la punta del naso al nostro capopionieri che voleva requisirgli un giornaletto di Capitan America, e se non lo hanno espulso da scuola è solo perché poco dopo i pionieri sono scomparsi e il capopionieri con loro. Però non è vero che Rico abbia staccato la punta del naso anche al poliziotto che voleva requisire la cassa di birra a lui e a Fred. Mark invece, che avrebbe dovuto aiutarli nell'operazione e era rimasto strippato sul marciapiede a buttare sassolini in aria, capìta la situazione, ha approfittato che la polizia non si era nemmeno accorta di lui e facendosi strada fra ragni e ragnatele ci ha raggiunti nel parco, dove lo aspettavamo assetati io, la mia sifilitica Estrellita, Walter e Stefan, che allora chiamavamo già Pitbull. Avevamo davvero una sete pazzesca perché poco prima, per aprire in bellezza la serata, avevamo fatto a pezzi una delle macchine più o meno legali di Fred. Lui aveva annunciato che non gli serviva più, allora uno di noi ha mollato un calcio a una portiera, poi l'abbiamo scardinata tutti insieme, e poi abbiamo spaccato i vetri, tagliato le gomme e quant'altro. Penso che se avessimo avuto le qualità di quel francese del Guinness dei primati l'avremmo sbranata. Non so che ci era preso, una specie di ebbrezza, anche per via dell'alcol, certo, ma era più un qualcosa che aveva fatto clic dentro di noi, spostato la leva su "tempesta nel cervello". La mia piccola Estrellita si è messa a ballare gridando sul tetto. Quanto l'amavo, diosanto.

La tempesta nel cervello si è scatenata anche quando Mark ci ha riferito dov'erano Rico e Fred. Decisi a tirarli fuori, abbiamo fatto a pezzi tutti i bidoni, i cartelli stradali, le panchine e una macchina su cinque da lì al commissariato sud-est di polizia. Pazzesco che quando abbiamo educatamente preso a calci il grosso cancello e comunicato il motivo della nostra visita gli sbirri ci abbiano detto solo: «Andatevene e tornate a prenderli domattina». E dire che tra urla, schianti e botte avevamo fatto un tale casino che avrebbe svegliato pure la nonna sorda di Rico. La nonna che dormiva male perché il nipote, che stava da lei, non era ancora rientrato a casa. Intanto Rico aveva le braccia legate dietro la schiena, lo stavano spintonando per un lungo corridoio bianco fino a una stanza bianca e luminosa dove c'era la macchina da scrivere per il verbale di fermo: indiziato di furto. Lo abbiamo sentito urlare da dentro: «Tutto a posto, sto bene, siamo dei grandi!» come se già ai tempi avesse fatto il callo a stare dietro le sbarre.

Intanto fuori Estrellita vomitava sul parabrezza di una volante in manovra e l'abbiamo portata subito a casa. Arrivati lì Walter ha cercato di buttarsi dal terzo piano per via di una stronza che non lo amava e non voleva andare al mare con lui, ma io l'ho preso per la maglietta; lui gridava, o meglio biascicava, «ti amo, Anja!», poi la stoffa si è strappata e intanto si è sporto dalla finestra pure Mark per cercare di aiutarmi a tirarlo dentro, anche se non riusciva più nemmeno a coordinare i suoi, di movimenti. Non so bene come abbiamo fatto a uscirne senza romperci l'osso del collo, so solo che più tardi Walter ha provato a farla finita una seconda volta gettandosi sotto un camion e che, dopo che l'ho salvato per un pelo dallo spappolamento, ci siamo trascinati a casa sbronzi e frastornati. Era tutto impazzito come in un sogno, l'incubo di una torrida notte di mezza estate.

Non c'è notte in cui non sogni queste cose, e di giorno mi ballano in testa i ricordi, e mi tormento a chiedermi perché tutto è andato com'è andato. Certo, ai tempi ci divertivamo anche un sacco, ma in quel che facevamo avevamo sempre dentro un senso di smarrimento che non riesco a spiegare.

È mercoledì, e tra un attimo apriranno la porta per accompagnarmi dal dottor Confessore. So una filastrocca. La canticchio tra me e me quando la testa comincia a giocarmi strani scherzi.

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Pagina 55

Mi fermai in mezzo alla strada a guardare la facciata del vecchio cinema. Il Palast si trovava all'estremo margine della città, qualche centinaio di metri prima del cartello di fine centro abitato. Era un piccolo cinema poco frequentato già ai tempi della DDR, e tre anni dopo la riunificazione il tizio che l'aveva comprato gli aveva dato fuoco, o almeno così girava voce nel quartiere. Ma all'assicurazione non importava cosa si dicesse in giro, pagò e il tizio scomparve. E magari fu davvero solo un incidente, un cortocircuito o una roba del genere, perché nell'estate dopo la caduta del Muro davano una serie di soft-porno fantastici, ci andava mezzo quartiere a vedere la Mutzenbacher, l'Histoire d'O., La fortezza espugnata o Le scolarette confessano: film come questi erano una novità per i cittadini dell'Est e il tizio del Palast faceva affari d'oro.

Guardai l'insegna rossa appena sotto il tetto che una volta accendevano per i film in seconda serata, "Pa ast Theater", la "l" si era fulminata già molto prima della riunificazione. Sopra l'insegna c'erano due finestrelle con i vetri rotti, i muri tutt'intorno erano anneriti. Salii sul marciapiede e mi fermai davanti all'ingresso. Il portone marrone era chiuso con assi inchiodate e su entrambi i battenti erano affissi i cartelli "Divieto di accesso alle persone non autorizzate", come se il cinema diroccato e mezzo bruciato fosse più allettante di allora, quando il proiezionista o il cassiere andavano nei parchi giochi dell'Ostwäldchen a radunare un altro po' di bambini per lo spettacolo pomeridiano perché in sala c'eravamo solo io e Mark, più altri due o tre figli di alcolizzati, mentre il numero minimo per cominciare la proiezione era dieci. Con i regolamenti non si scherzava. Ai tempi il programma e le locandine erano esposti di fianco alla porta, in una bacheca di cui restavano i vetri rotti e pochi brandelli di carta appiccicati sul fondo, "Film per" e mezza "a".

Girai intorno all'edificio ed entrai in cortile. Anche le case vicine erano malconce e abbandonate, nessuno voleva più abitare in una periferia lontana da tutto come quella sud-est di Lipsia; nel quartiere si scherzava sul fatto che, di quel passo, nel giro di pochi anni un bosco civico come l'Ostwäldchen si sarebbe mangiato il poco che restava sino al cartello di fine centro abitato. Trovai il mucchio di robaccia di cui aveva parlato Thilo Etilico: macerie, legna carbonizzata, vecchio mobilio e, sopra il cumulo, la finestra con le assi. Mi arrampicai, inciampai e mi aggrappai alle assi per non cadere. Certe tavole erano solo appoggiate all'infisso e mi bastò spingerle di lato. Offrire da bere a Thilo era stato un buon investimento. Dentro era buio, restai immobile sperando di sentire qualcosa. Niente. Salii sul davanzale e mi infilai nel varco. I vetri rotti mi scricchiolavano sotto le scarpe, presi l'accendino, uno Zippo antivento originale, e illuminai l'interno. Ero in una stanza vuota con manifesti di film alle pareti; sul muro di fronte riconobbi un'altra finestra senza vetri, con una porta a fianco: la biglietteria. Era rimasto odore di bruciato, ai tempi l'incendio era scoppiato al primo piano, nella cabina di proiezione, ed erano riusciti a spegnerlo solo dopo che aveva divorato tutto fino alla sala del cinema a piano terra. Quella notte io, Mark e Rico eravamo andati a bere nell'Ostwäldchen e quando sentimmo i pompieri e vedemmo poi anche il bagliore del fuoco sopra gli alberi ci precipitammo sul posto. «Il nostro cinema» ripeteva in continuazione Mark, «il nostro vecchio cinema». E adesso lui era tornato lì. Rimisi alla bell'e meglio le assi davanti alla finestra, poi proseguii rasente al muro. La lunga cavalcata a scuola, I due superpiedi quasi piatti. Mi fermai. Surehand – Mano veloce. Qualcuno aveva cercato di staccare il manifesto, ma doveva essere incollato molto bene alla parete perché mancava solo il pezzo in basso. Accarezzai la carta strappata e andai alla porta. Girai la maniglia. Era aperta. Ecco l'atrio. Mi sporsi sul piccolo banco della biglietteria. «Due bambini, per favore» sussurrai. L'accendino cominciava a scottare, lo spensi. Infilai le due bottiglie di birra nelle tasche del giubbotto, buttai nel buio il sacchetto vuoto e attraversai l'atrio con le braccia tese in avanti. Urtai contro un ostacolo di legno, doveva essere la porta della sala. Cercai la maniglia ma la porta si aprì da sola con un cigolio. Mi fermai di nuovo ad ascoltare. Niente. «Mark» chiamai piano, poi lo ripetei più forte. «Mark, sono io, Daniel!» Avevo sentito un rumore? «Ehi, Mark, cazzo, sono io, Daniel!» Tutto taceva. Forse se n'era già andato da un pezzo, o magari era uscito a fare un giro... Riaccesi lo Zippo e scesi i gradini fino ai sedili. Le ultime file erano carbonizzate, anche le pareti erano annerite. Proseguii fino al piccolo palcoscenico dove si vedeva ancora qualche brandello di schermo, mentre il sipario era sparito del tutto. La porta del gabinetto era aperta, ci puntai la luce, dentro c'erano i cocci di un lavandino. Salii sul palco e mi voltai a guardare la sala buia. L'accendino scottava un'altra volta, lo appoggiai per terra. Buttato davanti allo schermo c'era qualcosa. «Mark» ripetei piano. Era steso lì, immobile. Magari stava solo dormendo, sognando un pochino, oppure si era dato il colpo di grazia. Mi inginocchiai davanti a lui e posai una mano all'altezza della sua faccia. Freddo. Il sacco a pelo e la coperta erano vuoti, li presi e li gettai contro lo schermo. C'era anche un sacchetto, ma preferii non guardare cosa aveva dentro. «Dove sei, brutto deficiente? Non fare lo stronzo!» L'accendino si spense, lo cercai al buio. Caldo. Lo presi, saltai giù dal palco, trovai a tastoni la prima fila, aprii una delle ribaltine di legno e mi sedetti. Alzai la mano fino al cono sfarfallante di luce colorata sopra di me, la sagoma nera delle dita cadeva proprio sulla faccia di Surehand che impugnava la pistola, prendeva la mira e staccava all'ultimo momento la miccia accesa di un candelotto di dinamite. «Cacchio fai, e piantala su!» protestarono i ragazzini alle mie spalle. Mark, accanto a me, rideva. «Si può sapere dove sei, deficiente?» Stappai una birra sul bordo della sedia e mi accesi una sigaretta. Bevvi un sorso, misi la bottiglia per terra, presi l'altra dalla tasca del giubbotto, la sistemai a fianco della mia e mi appoggiai allo schienale. Allungai le gambe facendo urtare le birre. Erano venuti anche gli sbronzi. Si erano piazzati qualche fila dietro di me, facevano casino con le bottiglie, sghignazzavano e non gliene fregava niente di Winnetou 3. Fumavano dei sigari schifosi, forse Handelsgold a giudicare dall'odore, il fumo arrivava fino da noi, formava delle nuvolette davanti allo schermo, agli sbuffi degli spari, e i banditi avevano un sacco di munizioni. «Va a finire che incendiano la sala» sussurrò Mark al mio fianco, «non è vietato?», ma la regola "Vietato fumare" era meno importante di "Minimo dieci spettatori a spettacolo" e senz'altro il proiezionista era già contento di aver rimediato qualcuno disposto a guardare il film. Ci eravamo presentati soltanto io e Mark e non era riuscito a convincere i bambini dei parchi giochi nei dintorni, nemmeno riducendo l'ingresso a venti centesimi: la maggior parte aveva già visto il film e non ci teneva a rivivere la scena finale in cui restava secco Winnetou. Quando moriva tra le braccia del suo fratello di sangue piangevano sempre tutti, strappava una lacrimuccia persino a noi che ormai lo avevamo visto diverse volte ma arrivati a quel punto ci mordevamo la lingua ed evitavamo di guardarci. Però stavolta erano venuti gli sbronzi e a loro senz'altro non fregava niente che Winnetou crepasse: fuori pioveva e, se il proiezionista non fosse andato a chiamarli, sarebbero dovuti restare sotto l'acqua sulle panchine davanti al super. Facevano casino con le bottiglie, sghignazzavano e puzzavano che li sentivamo sino alla nostra fila. Ma quando arrivò il momento fatidico, quello della morte di Winnetou che quel bastardo dell'assassino aveva centrato proprio bene, e Old Shatterhand lo sorreggeva e lo deponeva su una barella di fortuna, il sole tramontava e un trombettiere suonava la canzone d'addio, e anche Old Shatterhand piangeva e ricordava tutti i bei momenti e le belle cavalcate con suo fratello, di colpo ammutolirono persino loro. «Muore» mormorò uno degli alcolizzati e tossì che sembrava dovesse tirare le cuoia pure lui, «se ne sta andando». «È il suo amico» bisbigliò un altro, «il suo migliore amico di sempre». E Old Shatterhand teneva la mano del fratello fissando lo sguardo prima sul sole calante e poi su di lui, con gli occhi lucidi. Io mi morsi la lingua e gli ubriaconi dietro di noi tirarono su piano dal naso. «Il suo amico, il suo migliore amico di sempre». «Fratello mio» sussurrò Winnetou con il poco fiato che gli restava. «Suo fratello» mormorò uno, «è addirittura suo fratello», e via a tossire ancora più forte, «il suo migliore fratello di sempre», e quando la scena finì e tutti se ne andarono a cavallo, gli sbronzi rimasero zitti finché pian piano tornò la luce. Noi ci alzammo e ci incamminammo verso l'uscita, mentre loro erano ancora seduti a occhi bassi con la faccia rossa e un po' umida sopra le barbe sfatte.

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SEMPRE PRONTI



L ultima volta che lo vidi prima che partisse, Rico mi salutò dalla finestra con la mano. Sembrava piccolissimo. Avevo suonato il campanello giù al portone ma sua madre non mi aveva aperto. Così feci qualche passo indietro sulla strada e guardai in alto verso di lui, portando la mano alla testa come nel saluto dei pionieri. «Sempre pronti» sussurrai. Lassù alla finestra vidi Rico ridere. Solo un attimo, poi si girò e comparve sua madre che tirò le tende. Dietro di me una macchina suonò il clacson. Tornai sul marciapiede e mi avviai verso casa. Discesi la strada fino al parco, mi fermai di nuovo e mi voltai. Riuscivo ancora a vedere la finestra con le tende chiuse al terzo piano. Rico aveva riso quando gli avevo fatto il saluto dei pionieri giù in strada. Aveva riso anche se sarebbe dovuto andare via il mattino dopo all'alba. «Partenza alle sei e mezza» mi aveva detto il giorno prima, «in treno. Forte eh?», e anche allora aveva cercato di ridere.

Entrai nel parco, il nostro parco. Quel mattino aveva piovuto, c'era odore di terra bagnata e gli alberi sgocciolavano ancora. Ecco il nostro albero, quello così alto che dalla cima vedevamo la scuola e il cimitero. Era lì che ci incontravamo sempre il pomeriggio, quando non c'erano le adunate dei pionieri o le giornate di raccolta di qualche materiale riciclabile. In seguito Rico smise di andare alle manifestazioni dei pionieri e a volte lo vedevo seduto sull'albero da solo mentre io andavo ai raduni o a scuola, di solito di corsa perché ero in ritardo per colpa di quello stupido fazzoletto che non riuscivo mai ad annodare decentemente. Rico il fazzoletto non lo portava più. Lo aveva bruciato. Lo aveva bruciato al parco, c'ero anch'io. A sinistra del vialetto vidi la sabbiera con il piccolo arrampicatoio dove lo aveva appeso e bruciato. C'ero anch'io. All'inizio avevo pensato che volesse solo fare lo spiritoso, invece poi aveva tirato fuori i fiammiferi e gli aveva dato fuoco per davvero. «Ma sei matto?» avevo gridato, «dai, Rico, non fare lo scemo!» Troppo tardi, era già al terzo fiammifero e dall'arrampicatoio pendeva ormai soltanto un brandello bruciacchiato. Rico lo staccò e lo gettò nella sabbiera. «Ecco fatto» disse, e mi guardò. Avevo un groppo allo stomaco. Mi sedetti sul bordo della sabbiera e guardai la stoffa bruciata. «Cavolo, Rico» sussurrai, «perché?» Ma il perché lo sapevo, Rico mi aveva raccontato tutto. Di suo padre, l'ufficiale dell'esercito che ogni tanto, quando andavo a casa sua, vedevo seduto a tavola con l'uniforme indosso. Suo padre adesso non c'era più. «Ha trovato un'oca a Berlino» mi aveva raccontato Rico. Se nei pomeriggi dei pionieri, quando Rico ci veniva ancora ed era tutto a posto, o durante la lezione di storia nazionale capitava che ci chiedessero cosa volevamo fare da grandi, lui rispondeva "l'ufficiale". Non il soldato, "l'ufficiale". E anche quando ci vedevamo dopo la scuola, Rico aveva sempre indosso i vestiti da pioniere: i calzoni blu, la camicia bianca con le spalline, il fazzoletto blu e perfino il chepì. Era la sua uniforme. Ma adesso non succedeva più.

Presi a camminare più in fretta, concentrandomi sul vialetto perché non volevo che mi venissero in testa altre immagini. Rico se ne va, pensavo, deve andare, «Rico è solo un bambino difficile» aveva detto Herr Dettleff. Cominciai a contare le pozzanghere davanti a me, e poi vidi Maik. Era seduto sullo schienale di una panchina, con una mazza di legno appoggiata accanto e una rete per la spesa con dentro qualche bottiglia vuota, bottiglie bianche da superalcolici, trentacinque centesimi il pezzo se le portavi alla Böhland Materiali Riciclabili. «Ehi Dani, dove vai?» mi chiese Maik quando mi vide. Mi fermai e posai una mano sullo schienale: «Ehi Maik, come va?»

«Pace, Dani» disse, e diede un colpo con il piede alla mazza, che cadde. «Oggi non litighiamo. Siediti un po'». Mi sistemai di fianco a lui sullo schienale, contento che non volesse attaccar briga. C'eravamo picchiati spesso, io e Maik, e avevo quasi sempre perso. Era grande e grosso, il più alto della classe, aveva due anni più di noi perché lo avevano bocciato un paio di volte. In realtà non avevo niente contro di lui, solo che se ne stava sempre al parco e spesso finiva a botte. Maik andava in giro tutto il giorno anche d'inverno perché suo padre era un ubriacone, si sapeva. A casa litigavano sempre, a volte li sentivano urlare fino in strada, perciò rincasava tardi, anche a notte fonda. A scuola gli portavano quasi tutti rispetto, era noto che si scaldava alla svelta e alzava subito le mani. Ci pensava due volte solo con Rico perché lui sapeva tirare di boxe, glielo aveva insegnato suo padre. E Rico gli aveva già fatto un occhio così, che poi tutti avevano pensato fosse colpa di quell'ubriacone del padre di Maik.

«Bello schifo» disse Maik di fianco a me sullo schienale. «La faccenda di Rico, intendo». «Già» confermai. Avevo appoggiato la testa sulle mani e guardavo il prato dall'altra parte del vialetto. «Cioè» continuò Maik, «non so come dirlo ma in un certo senso mi spiace anche. Volevo farci un incontro di boxe, un incontro vero, eravamo già d'accordo. E poi, Dani, quella volta ho sbagliato, non immaginavo che sarebbe finita così».

«Che cosa?» domandai. Non capivo bene dove volesse andare a parare, però avevo una specie di presentimento e speravo che tenesse chiusa quella cavolo di bocca.

«Dai che hai capito. Però non è stata un'idea mia, davvero, è stato Friedrich a insistere. E comunque se adesso lo mandano là non è solo per quello. Lo so, è uno schifo, pure mio fratello...» Non sapevo che Maik avesse un fratello. Non la finiva più di parlare, mi pentii di essermi fermato. Perché non ero andato a casa e basta?

«Non credo che è solo per quello, Dani... Rico era uscito completamente di testa e suo padre, be', il divorzio, lo sai, e poi le tre sorelle...»

«Che vuoi da me, Maik?» urlai. «Che cazzo vuoi? Falla finita di parlare a vanvera di Rico come uno scemo!»

«Ehi, va bene Dani, calmati, volevo solo dire che mi dispiace che siamo andati a raccontarlo, e che è stata un'idea di Friedrich. Ma gliele ho già date io, Dani, gli ho spaccato la faccia». Ripensai agli occhi gonfi di Friedrich qualche giorno prima.

«Ti dispiace cosa?» domandai. «Che cosa hai raccontato?» Ormai l'avevo capito, ma a quel punto volevo che Maik me lo dicesse chiaro e tondo. Mi ero rimproverato di non aver negato tutto, di non aver difeso Rico e forse persino di non essermi preso un po' di colpa anch'io. Invece non avevo fatto niente.

«La storia del fazzoletto» disse Maik dopo un lungo silenzio, «lo sai, Dani, c'eri anche tu, non sarei dovuto andare a spiattellarlo, ma è stata un'idea di Friedrich. E comunque se Rico non lo bruciava non succedeva niente». A dire il vero avevo sempre sospettato che fosse stato Maik a fare la spia, lui o uno dei suoi amici. Probabilmente l'avevano visto dall'albero ed erano corsi subito a riferirlo. Del resto quando io mi ero ritrovato seduto nella stanza del capopionieri con tutti intorno, il preside, il capopionieri, la Seidel e Singer con i suoi distintivi sulla giacca, avevo confermato la loro versione.

«Spia!» gli gridai, mi alzai e mi piazzai davanti a lui. «Brutto traditore, sporca spia di merda!» Lo spintonai più forte che potevo, e Maik cadde dallo schienale della panchina. Prima che facesse in tempo a rialzarsi mi buttai su di lui, gli tenni la testa schiacciata a terra con una mano e con l'altra lo colpii in faccia, a raffica. «Spia, traditore di merda!»

Non è vero, restammo tutti e due seduti sullo schienale della panchina, zitti, a guardare il prato dall'altra parte del vialetto. Due bambini piantarono due stecchi per terra, uno si piazzò in mezzo a fare il portiere, l'altro ci venne incontro. «Vi va di fare due tiri in porta?»

«Sparisci o le prendi!» urlò Maik. Il bambino non disse altro e se ne andò. Mi alzai anch'io. «È tutto uno schifo» sospirai, «ma tu resti una spia di merda lo stesso». Quindi attraversai il prato diretto verso casa. «Anche tu hai confermato tutto!» mi gridò dietro Maik. Il pallone mi rotolò fra i piedi, gli diedi un tale calcio che volò fin sul vialetto e da lì sulla strada. «Deficiente!» non ascoltai nemmeno. Volevo solo tornarmene a casa il più in fretta possibile e mettere la musica alta o accendere il televisore, perché mi sentivo di nuovo in testa le voci tutt'intorno, su nella stanza del capopionieri.

«Ci sono testimoni, Daniel!»

«Sappiamo anche che tu non hai fatto niente, eri soltanto lì vicino a lui».

«Rico è un bambino difficile» disse Herr Dettleff, il capopionieri. «Ha dei comportamenti che non sono degni di un piccolo pioniere, lo sai anche tu».

«Ma questo è un gesto che non si può assolutamente giustificare».

«E non è la prima volta» aggiunse Herr Singer. Gli guardai i distintivi sulla giacca, su uno c'era un pugno con una fiaccola. «Rico ha una cattiva influenza su di te, Daniel. E ha un carattere che mostra inclinazioni pericolose, e io non credo...» Singer guardò le facce intorno e tutti annuirono, «non credo che possiamo continuare a tollerarlo».

«È meglio se ci racconti per filo e per segno che cosa ha fatto Rico nel parco» mi incalzò la Seidel, «e ci spieghi per bene che tu non avresti potuto impedirglielo».

«Non capiamo come un pioniere modello come te continui a frequentare Rico dopo tutto quel che ha combinato in quest'anno scolastico. Si sta approfittando della tua amicizia, Daniel!»

«È nel tuo interesse, e poi quest'anno ti stai anche impegnando per ricevere l'Attestato del Consiglio dei Ministri».

«E pensa al concorso dei talenti, Daniel. Siamo sicuri che potresti ben rappresentare la nostra scuola come l'anno scorso».

«Rico rovinerà i tuoi propositi!»

«Sarebbe grave che deludessi ancora una volta i tuoi genitori, Daniel!»

«E poi tu hai cercato di fermarlo, vero?»

«Sì» dissi. E poi... e poi raccontai tutto.

Salii le scale. Cercai la chiave nella tasca dei calzoni. Non c'era. Forse non l'avevo presa, l'avevo scordata in camera, l'avevo persa per strada. Suonai. Era una domenica pomeriggio e la mattina dopo sarei dovuto andare a scuola presto. Senza Rico.

Mia madre aprì. «Eccoti, finalmente» mi accolse. Sfilai le scarpe.

«Il presidente del Gruppenrat comunica che la classe quarta B è presente al completo e pronta alla lezione!» «Per la pace e il socialismo: state pronti!» esclamò Frau Seidel davanti alla lavagna, «sempre pronti!» rispondemmo noi in coro portandoci la mano alla testa nel saluto del pioniere. «Seduti» disse la Seidel. Ci sedemmo. Guardò la classe da sopra gli occhiali. Diede delle indicazioni: «Libro di lettura... pagina... all'inizio...», ma io non ascoltavo già più. Aprii il libro a una pagina a caso e fissai il banco davanti a me. C'era seduta Katja, la sedia vicina era vuota, era quella di Rico. La mamma mi aveva detto di levarmelo di testa alla svelta, me lo dicevano tutti, ma io non ci riuscivo.

«Il mandarino è di un bell'arancio dorato, grande come un pugno e di forma tondeggiante.

«E si mangia come una mela?

«È un frutto speciale, Leka, una pianta magica».

Katja leggeva forte, con la sua bella voce.

«... Fa danzare chi lo mangia, sì, lo fa danzare!

«E magari lo fa anche cantare?»

Guardai Rico. Aveva messo da parte il libro e teneva la testa china, in silenzio. La lettura si intitolava L'Armata Rossa nella lotta contro il nazifascismo, toccava a lui ma si rifiutò di continuare.

«Allora» disse la Seidel, «non vuoi leggere?»

«No» Si oppose Rico, «non voglio più saperne di 'sto soldato sovietico del cavolo. Basta». Rico era seduto di fianco a me, gli diedi un calcio sotto il banco. «No» ripeté Rico, e chiuse il libro così forte che sussultai, «no», e poi lo buttò per terra fra i banchi. «Alzati» intimò la Seidel a voce bassissima. Fuori sul campo sportivo sentivamo le urla di quelli che giocavano a pallone e il fischietto dell'insegnante di ginnastica. «Katja» disse Frau Seidel, «ti affido per cinque minuti la responsabilità della classe. Leggete il testo fino alla fine». «Rico, vieni qui». Rico andò lentissimamente alla cattedra, poi dovette aprire la porta e uscire dall'aula. La Seidel lo accompagnò. «Maxim però non vuole perdere il suo carico prezioso. Se sparano proiettili incendiari i bambini non vedranno mai i mandarini, pensa Maxim. Ecco che i nemici tornano all'attacco». Guardai la gola liscia di Katja che si muoveva piano mentre leggeva. Dopo lo avevano fatto sedere lì, vicino a Katja. «Chissà che lei riesca a esercitare su Rico un'influenza positiva» mi aveva detto la Seidel. E io avevo cercato di convincerlo, «Rico, ti prego, ridiventa normale, andrà tutto a posto», ma non era servito a niente, e avrei tanto voluto che suo padre tornasse da loro e trovarlo seduto a tavola in uniforme quando andavo a casa loro...

«Daniel!» Frau Seidel era davanti a me, gli occhiali le erano scivolati sulla punta del naso. «Daniel, per la terza volta, continua a leggere tu, per favore. Sei così distratto, negli ultimi tempi!» Sfogliai il libro di lettura cercando la pagina. Katja si girò verso di me e sussurrò qualcosa.

«Mi scusi» mormorai, «ero... sono alla pagina sbagliata».

«Daniel» disse Frau Seidel, anche lei sottovoce, «alla fine della lezione fermati in classe. Maik, leggi tu fino in fondo e poi fai il riassunto». Maik si mise a leggere, stentato e lento: «Leka... man-gia uno spic-chio del frut-to magi-co. Barcol-la fino alla fine-stra. Si tiene for-te. Canta: Guar-da, due tordi pic-coli pic-coli, soli nel ni-do».

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