Copertina
Autore Sami Michael
Titolo Una tromba nello uadi
EdizioneGiuntina, Firenze, 2006, Israeliana , pag. 272, cop.fle., dim. 133x209x16 mm , Isbn 978-88-8057-234-3
OriginaleHatzotzrah bavadi
EdizioneAm Oved, Tel Aviv, 1987
TraduttoreShulim Vogelmann
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa israeliana , narrativa irachena
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Pagina 7

Il nonno Elias, sorridendo con quel suo sorriso egiziano, sentenziò che le piccole seccature sono un dono divino per i disgraziati. La mamma si lasciò cadere sulla sedia e volse il suo mento caparbio verso la porta. «Allah deve essere spiritoso come te per accordarci simili regali» disse, come se si aspettasse che la porta venisse abbattuta da un momento all'altro e gambe turbolente entrassero a violare la lucentezza del pavimento del soggiorno. Questa madre, che si era sposata e aveva partorito me e Mary e poi era diventata vedova, era ancora molto attaccata alla virtù della castità; forse perché si era sposata tardi, o forse perché nostro padre aveva fatto in fretta a metterci al mondo e se n'era andato senza perder tempo. Dalle poche cose che ho saputo su di lui ho appreso che non aveva il carattere faceto di nonno Elias, suo padre. Forse io sono come lui.

Sono tanti anni che abitiamo nello uadi, ma non ho amici né amiche arabe. Cerco di essere più israeliana degli ebrei stessi. Come un pescatore che non prende altro che scarpe rotte ho cercato zone migliori senza sosta, e adesso Yehuda Amichai è più vicino al mio cuore di qualunque poeta arabo. Mary invece non deve fare nessuno sforzo. Lei è il prodotto più israeliano della nostra famiglia. È più giovane di me di due anni ed è frizzante e audace. Mette sempre in gioco la sua vita, con quel suo sorriso seducente. Io non la rimprovero. La grande differenza tra noi due è che io vagheggio e lei prova, io sogno e lei assaggia.

I passi pesanti e rumorosi sulle scale che portano alla stanza sul tetto fanno impazzire Jamilla, che invecchia con il suo gatto un piano sotto di noi, e disturbano il riposo della mamma. Io invece sento i passi solo nei miei sogni, ma due volte più forti. Le gambe muscolose e pelose assalgono il mio sonno in incubi umidi. Mi alzo e mi vergogno dei miei sogni. Mi disgustano i muscoli, le grida e gli odori di quei sogni. Mary si mette in ascolto e percepisce la reale esistenza dei ragazzi. Forse non sono poi molti; probabilmente non più di cinque, sei ragazzi dei villaggi vicini. Ma le scale sono pericolanti e a sentire le urla di Jamilla da sotto sembra che la casa stia per crollare. E loro corrono via, come se si inseguissero l'un l'altro, pestando forte con i loro stivali; e il nostro appartamento trema come una trappola scattata. La sensazione di invasione che coglie mia madre non mi colpisce, perché io mi ritiro subito nel mio corpo, nel dolore pungente che mi prende alla spalla destra e mi fa storcere la schiena. È il dolore che fa vacillare la mia sedia, non i battiti dei rozzi passi sulle scale. Mary, al contrario, si arrende alle vibrazioni che avvolgono la casa come una bambina che si arrende alle salite e le discese di un treno sulle montagne russe. Ora si guardava nel piccolo specchio tondo e ritoccandosi un sopracciglio canticchiava: «Magari una volta gli apriamo la porta e gli offriamo qualcosa». E in ebraico aggiunse: «Che problema c'è?».

La mamma sussultò anche se lo sapeva che Mary stava scherzando. «Io vado a fuoco e tu mi versi l'olio addosso» la rimproverò, perché aveva notato che il nonno stava ridendo e il suo affetto non era rivolto a lei.

«Il lavoro è lavoro, e che non si raccontino balle» disse il nonno. «Quando ero giovane, alla fine della giornata volevo cantare e correre».

«In questo modo? Come quei selvaggi?».

«No, si lavorava dal sorgere del sole fino al tramonto e dovevo anche farmi da mangiare. Quando tuo marito era un bambino correva e urlava».

«Poi si e zittito, ed è rimasto zitto fino a quando se n'è andato».

Il nonno annuì e chino sul narghilè sistemò i carboni con le sue dita nere e non difese il proprio figlio neppure con una parola. Dalle bolle d'acqua del narghilè parve di sentire che non era opportuno parlare così di un marito morto.

Mi sono sempre chiesta quale fosse la vera natura del rapporto tra mia madre e suo suocero. La differenza d'età non necessariamente scoraggia in certe circostanze. Amichai ha scritto delle poesie prima che io nascessi... Se fossimo vissuti insieme, se insieme avessimo conosciuto il freddo d'inverno e la solitudine della primavera, se lui fosse stato il cacciatore e io la guardiana del nido, se fossi stata avvolta in un temperato calore maschile e in un quieto riguardo... come nonno Elias circonda la mamma, forse... non mi sarei scandalizzata se avessi scoperto che c'era stato qualcosa tra loro. Oggi è un vecchio del quale nessuno conosce l'età, ma è ancora sano e agile e sorridente. Un tempo deve essere stato sicuramente un bel giovane. Che cosa li ha divisi durante gli anni seguiti alla morte di suo figlio? O forse niente li ha divisi? Prima che conoscessi Bahij, e nei giorni in cui Bahij è venuto e ha acceso la mia anima con la lucentezza di un altro mondo, e anche nei giorni grigi dopo Bahij io ero serrata nella mia timidezza. Mi sono vergognata di chiedere e ho ritenuto che solo gli sporcaccioni esplorano certi argomenti. Sapevo che quella era ipocrisia, ma del resto l'ipocrisia è la difesa dei timidi. E tuttavia la curiosità era grande. Una volta ho cautamente accennato la questione a Mary, mia sorella che detesta la santità e che mi ha gridato: «Proprio tu che mi accusi di essere così!». Ho avuto l'impressione che mi avesse urlato contro perché il pensiero era venuto a me e non a lei. Sorrise subito dopo e disse: «La mamma e il nonno? Hai mai sentito di un uccello che fa l'amore con un sasso? Tra l'altro, non so neppure chi è il sasso e chi l'uccello tra quei due».

Il nonno arrotolò il tubo rosso intorno al narghilè e si appoggiò all'indietro sulla sua ottomana in soggiorno e disse. «I ragazzi sopra si sono calmati. Possiamo vedere la televizione».

La mamma si alzò per portargli il caffè. In mezzo al soggiorno si bloccò e infossò la testa tra le spalle come se temesse che il soffitto potesse crollarle addosso. Sopra, qualcuno scalciava un secchio vuoto in preda alla rabbia. Tre bottiglie si frantumarono una dopo l'altra. Una voce potente fece vibrare l'aria: «Maledetto Iddio che mi ha obbligato a vedere la tua faccia, bestia!».

Mary spalancò gli occhi per l'eccitazione, come se fosse una tifosa in uno stadio.

«Ascolta, ascolta» disse la mamma al nonno con biasimo.

«Si stancheranno».

Il soffitto tremò. Gambe maldestre correvano e scalciavano. Una voce terrorizzata gridò: «Lasciami, lasciami!».

«Buttalo in strada!» incitò un'altra voce.

«L'altra notte,» raccontò la mamma con il viso pallido come se la cosa fosse appena successa «ho aperto la finestra e per poco il loro piscio puzzolente non mi prendeva in faccia. Si fa così, si piscia dal balcone?» chiese al nonno con il tono di un'alunna diligente.

Ma il nonno si rifiutò di fare il maestro e ridendo disse: «Chi è che apre le finestre con il freddo dell'autunno?».

La mamma si guardò le mani che per poco non erano state bagnate e disse: «Io ci rinuncio a regali di Dio come questi».

Il nonno non si annovera tra i credenti. Il suo Dio, se crede in un Dio, è sicuramente un maschio scapolo, libero dagli affanni della vita e intento solamente a inventarsi buone battute, suo unico piacere. «Dici bene,» replicò alla mamma «non sempre è opportuno correre dietro ai Suoi regali». Poi si voltò e parlò al profilo del volto di Mary: «Certe volte, lega i suoi doni a un filo invisibile e poi lo tira e ride a crepapelle nel vedere gli sciocchi che corrono e corrono dietro ai regali».

«Parli con me?» sorrise Mary.

«Io?».

La mamma non lasciò perdere. «Mi disturbano il sonno. Salgono e scendono in mezzo alla notte, e le urla mentre giocano a carte, e non parlo della droga e delle donne sozze che si portano là sopra».

«Non è davvero il caso di parlarne» la interruppe il nonno.

«Ridi, ridi pure, ma sappi che Abu-Nachla ce lo fa apposta. Affitta la stanza a tipi come quelli per rendere a noi la vita più amara qua dentro».

Amavo quelle discussioni. Erano un'àncora sul fondale del tempo, come un'alleanza che resisteva alle tempeste. Più di una volta mi sono chiesta se non si trattasse dell'amore profondo che nasce tra due persone cha hanno smesso di correre dietro a regali legati a fili invisibili.

«E le ragazze?» chiese la mamma.

«Che c'entrano le ragazze?» replicò il nonno, e per la prima volta colsi della preoccupazione nella sua voce. Si mosse perfino sulla sua ottomana, come se intendesse alzarsi.

«Ti sei dimenticato di come si sono scagliati sulla porta quando erano ubriachi? Chi ci proteggerà?».

Il nonno assunse un'espressione offesa, si mise in piedi e dichiarò: «Ci sono io qua!». Mary non si fece impressionare dalla sua lunga ombra che raggiunse la cucina. «Ti faranno volare via con un soffio, nonno».

Lui si rivolse a lei come per chiarire una questione: «Credi?».

«Sei più vecchio di quanto pensi» gli rispose con affetto.

Tutti e tre mi ignorarono. Forse avevano capito che la vera paura, quella dura, perversa, dimorava proprio nel mio cuore. Questi ragazzi, che in teoria dovrebbero lavorare in ristoranti e in cantieri edili, in realtà non sono altro che gli scagnozzi degli oscuri progetti di Abu-Nachla. Notte dopo notte conquistano il buio che cala su di me: con i loro vestiti incrostati di sudore, con i loro capelli forti e arruffati, con i loro volti sui quali crescono barbe nere come boschi bruciati, con i loro denti gialli, con i loro sorrisi che si sciolgono sulle loro labbra umide. Tutte queste immagini si fondono e fanno di loro una sola creatura le cui mani strisciano sul muri della casa, si inoltrano nelle fessure e afferrano le grondaie e le sbarre delle finestre. Soffocherei in preda a questa creatura ringhiosa e le mie forze si esaurirebbero ancor prima della lotta. Mi arrenderei prima del contatto.

«Ancora la spalla?» domandò la mamma.

Mi vergognavo dei miei dolori. «No, no» dissi.

«È diventata pallida» disse Mary.

«Arak!» sentenziò il nonno. «Dov'è l'arak? Voi e i vostri dottori. Donna,» ordinò alla mamma «mesci l'arak, mesci».

Per rispetto del nostro bilancio, era solito attendere una buona occasione per aprire una nuova bottiglia, come un ospite o un malanno, ma poi se la scolava da solo. L'odore dell'arak, che mi ha accompagnato fin dall'infanzia, mi disgusta. Quell'odore e il dolore sono associati nella mia mente. Le dita della mamma si insinuarono sotto la mia camicetta e slacciarono il reggiseno con un movimento veloce iniziando a massaggiarmi la schiena e il petto come se conoscessero i tentacoli di dolore che li straziavano. Il nonno diede un piccolo colpo sul pavimento con la gamba e la sua voce si unì ai movimenti delle mani della mamma: «Ancora, ancora, ancora, donna, ancora, ancora, ancora». Chiusi gli occhi e mi dondolai sulla sedia insieme ai massaggi della mamma e fu come se il dolore si arrendesse al contatto, o ai vapori dell'arak, o alla voce monotona del nonno. «Ancora, ancora, ancora» ripeteva con la soporifera intonazione di un santone africano. Quando riaprii gli occhi, vidi il suo viso vicino a quelli della mamma e di Mary. Conoscevo la tensione dietro a quel piglio sorridente. Quando ero piccola e mi ammalavo, lui si metteva vicino al mio letto e le sue labbra non smettevano di bisbigliare incantesimi, probabilmente sentiti nella sua infanzia, visto che un credente non lo era mai stato. Amavo quei flebili bisbigli magici, ma lui non ha mai risposto alle mie suppliche e non li ha mai pronunciati a voce alta.

Anche ora le sue labbra sussurravano. Inconsapevolmente, si era avvicinato a me allontanando la mamma e Mary, e le sue palme scure mi avevano coperto il viso, e io avevo chiuso gli occhi. Quando li riaprii, vidi la sua faccia sudata e stremata.

Gli afferrai i polsi e li baciai: «Basta, nonno».

Il suo corpo si chinò su di me per baciarmi i capelli, come quando ero bambina; ma si raddrizzò immediatamente, e presa la sua bottiglia dal tavolo se ne tornò alla sua ottomana. Poi qualcuno bussò alla porta: lui trangugiò in fretta un onesto sorso di arak e nascose la bottiglia sotto all'ottomana.

Entrò Jamilla, la vicina di sotto. «Ancora malata?» mi rimproverò, come si rimproverano i bambini che fanno preoccupare i genitori. Era una vecchia donna, buona e sola, golosa di caffè. La sua eccessiva civetteria irritava il nonno, che però la perdonava, perché Jamilla voleva un bene dell'anima a me e a Mary. Si presentava da noi nelle ore più assurde e senza preavviso. Se capitava durante un pasto, mica si ritirava: si sedeva sull'ottomana del nonno e aspettava, rifiutandosi di assaggiare qualsiasi cosa; e noi ci siamo abituati a mangiare in sua presenza e a chiacchierare con lei durante i pasti.

Questa volta, venne direttamente da me con l'indice puntato e, prima che riuscissi a sottrarmi, mi toccò la fronte. Avevo notato che gli ebrei non usano toccarsi molto l'un l'altro. Una volta ho detto al nonno che ciò era preferibile alla nostra usanza orientale di palparsi continuamente. Ma lui non era d'accordo. «Sono come gli europei,» disse «amano da lontano e uccidono da lontano».

«Sei ancora giovane» disse Jamilla come se stesse diagnosticando la complicazione di una malattia. «Ti devi sposare. Chi ti ha fatto innervosire?» volle sapere.

Il volto del nonno sbiancò. La parola «ancora» gli aveva graffiato l'orecchio.

«Stavamo parlando di Abu-Nachla e dei suoi inquilini» spiegò la mamma.

Jamilla posò sul tavolo la ciotola con i biscotti che aveva preparato per noi senza lasciare adito a dubbi: stava aspettando il caffè. «Figli di Satana!» esclamò. «Quante volte ho dovuto salvare il gatto dalle loro grinfie? Una settimana fa gli hanno legato una lattina di birra alla coda. Il poverino era impazzito. Ieri l'altro è tornato da me mezzo morto che vomitava dappertutto: gli avevano dato del pesce con l'hashish!».

Il nonno sfilò di nascosto la bottiglia da sotto l'ottomana. Il chiacchiericcio di Jamilla non lo entusiasmava. Invece il viso della mamma si era illuminato: finalmente aveva un'alleata. «Abu-Nachla lo fa apposta a portare qui quegli animali, vuole cacciarci, e affittare l'appartamento a un prezzo più alto!».

«A me, di qui, non mi smuovono!» disse Jamilla.

«No,» concordò la mamma. «Halim, il figlio di tua sorella, è un avvocato. Ma noi? Siamo come degli orfani. Abu-Nachla era un miserabile ladruncolo che si è ingrassato grazie allo Stato. Dal giorno in cui ha iniziato a spifferare, gli permettono tutto. Una persona simile non si ferma neppure davanti a Dio! Perché mai dovrebbe rinunciare all'appartamento di una vedova? Sapete quanti sarebbero disposti a pagarlo lautamente per questi muri?

«È milionario,» disse Mary «questo posto è poca roba per lui».

«Un brigante» insisté la mamma «rimane sempre un brigante. Ruberà solo per il piacere di farlo. Per quanto tempo lo proteggeranno? I suoi scagnozzi stanno già vendendo la droga alle figlie degli ebrei sul Carmelo. Ora sta toccando la carne della loro carne. Non gliela faranno passare liscia, no che non lo faranno!».

«No, non lo faranno» ripeté Jamilla e il suo viso si illuminò mentre accendevo il gas in cucina. «Zucchero nella giusta quantità, figlia mia» mi ordinò a collo proteso.

Le dita del nonno si fecero strada tra i suoi capelli crespi e argentati. «Che Dio ci protegga dalle guerre delle donne. Donna, l'hai già minacciato?» domandò alla mamma.

«Non sono tupida. Mi misuro le ali da quando sono piccola e ancora non sono cresciute. Lo so che con uno come Abu-Nachla ne uscirei con le ossa rotte». Dall'entrata della cucina vidi il sorriso del nonno, quel sorriso che ogni volta mi disorientava, il sorriso di un vero uomo a una vera donna. Mary la furba, l'esperta del dipartimento uomini, forse era al corrente di tutti questi eventi drammatici, ma io, dopo l'episodio deludente con Bahij, sono stata costretta a ritirarmi dietro i veli orientali. Sono tornata tra le allusioni sottili, i rumori flebili e gli sguardi fulminei come lo scintillio di una piccola stella fra la moltitudine degli astri.

«Sei sicura,» le chiese con tatto «di non averlo, forse per caso, mandato al diavolo?».

La infastidì il fatto che lui la stesse esaminando e che non credesse alle sue parole.

«Ho detto che non gli ho rivolto una sola parola».

«Allora non capisco» borbottò interdetto. Divenne pallido mentre servivo il caffè. Mary aveva finito la sua opera di perfezionamento delle sopracciglia e raccoglieva tutti i suoi strumenti.

«Ci farà visita stasera» disse.

«Abu-Nachla?» si stupì la mamma.

«Ero seduto al caffè con gli altri e all'improvviso si presenta suo figlio Zuhair, distribuendo sorrisi come elemosina ai poveri. Non mi aveva mai rivolto la parola prima. Ho pensato che volesse qualche servizio da Issa Mattar che in passato ha fatto dei lavori di pavimentazione per suo padre. No, è venuto proprio da me e mi ha detto che suo padre ci avrebbe fatto visita stasera».

«Padre e figlio, entrambi carogne» sentenziò Jamilla, che poi mi fissò fino a che non mi alzai e le versai una seconda tazza di caffè.

«Non ha detto quando sarebbe venuto, quel delinquente?» chiese al nonno.

«Ha detto stasera, potrebbe presentarsi in qualsiasi momento».

Amavamo Jamilla. Aveva tatto, e già si era alzata per andarsene, nonostante che morisse dalla curiosità di sapere che notizie ci portasse Abu-Nachla, e soprattutto dopo quell'annuncio così drammatico. «Io vado, buonanotte» disse posando gli occhi su Mary mentre con i denti si mordeva il labbro inferiore come se volesse arrestare le parole che intendeva dire. E uscì.

Non avevo bisogno delle sue parole: lo sapevo già. Gli occhi di Mary si divincolarono dai miei. Il nonno e la mamma, poveri ingenui, non avevano nemmeno intuito ciò che stava per succedere. Quasi di soppiatto Mary si ritirò nella nostra camera.

«Huda,» si rivolse a me la mamma «come va il dolore? Non hai messo in bocca niente da quando sei tornata dal lavoro. Bisogna che prepari la cena... E se si presenta nel bel mezzo?» chiese al nonno.

«Non vorrà assaggiare nulla dalla nostra tavola».

«Veleno, gli servirei» disse la mamma con odio. «Ha fatto la spia ai nostri fratelli dopo il 1948. A causa sua sono stati esiliati in Giordania; a causa sua sono rimasta sola e senza nulla, come una straniera nella città dove sono nata. Era tutto a nome loro ed è stato confiscato tutto; che Allah confischi i giorni rimasti a quel delinquente! Non servirò niente fino a che non avrà lasciato la nostra casa, e Huda mi scuserà».

«Si digiuna» concluse il nonno con un sorriso.

I colpi alla porta posero fine all'indecisione della mamma. «Abu-Nachla» sussurrò con disprezzo.

Il nonno si mise in piedi come per accingersi a uno scontro, ma non appena aprì la porta tornò un tradizionale ospite arabo. Con un sorriso caloroso si fece incontro all'ospite come se l'avesse atteso impazientemente tutto il giorno. «Ahalan! Ahalan wasahalan!» lo accolse a braccia aperte. «Come stai? Bene, inshallah!». Nonostante che ci fossero due sedie disponibili, il nonno mi fece segno di alzarmi e di cambiare sedia, in modo da rendere vero onore all'ospite. Abu-Nachla sapeva che quel cerimoniale era formale e finto, ma se il nonno si fosse comportato più freddamente, allora si sarebbe offeso.

Anche la mamma mostrò un sorriso, sul quale non mancò un pizzico di adulazione; e quando lo vidi il mio cuore si ribellò, più di quanto avesse fatto per la gentilezza cerimoniosa del nonno. Lui era cresciuto in mezzo a una cultura che esaltava la persona semplice che sapeva districarsi con l'astuzia e il sotterfugio, tra gli attacchi dei potenti; e a parte ciò, Abu-Nachla non aveva mai fatto del male al nonno, anzi lo trattava con rispetto. Nello uadi si era sparsa la voce che i grandi occhi verdi di nonno Elias non erano solo gli occhi di un tipico egiziano. Nessuno si era dimenticato che era scappato dall'Egitto, la sua patria, e aveva attraversato il deserto a piedi, da solo e con mio padre in braccio. Se le bande di briganti lo avevano risparmiato significava che era stato protetto da forze che non appartenevano a questo mondo. La solitudine che si era imposto per lunghi anni fino a che mio padre non sposò mia madre rafforzò quella credenza. Il nonno ascoltava e non negava.

È noto che a un uomo solitario bisogna fare attenzione, e Abu-Nachla era noto per la sua cautela. Invece il comportamento della mamma mi sembrò strano. Diceva il vero quando sosteneva che Abu-Nachla si era accanito sui suoi fratelli. Nei giorni degli scontri che avevano preceduto la fondazione dello Stato d'Israele, i suoi fratelli erano scappati in Giordania, e mia madre, che si trovava in visita a Gerusalemme, aveva perso i contatti. Dopo la guerra cercarono di varcare il confine e tornare a casa. A quel tempo, Abu-Nachla si occupava di far passare i profughi tra i campi di mine e le postazioni dell'esercito. Li portava fino a Haifa, ma per la strada gli rubava i soldi. Molti sapevano che sarebbero ritornati, ma lui anticipò gli altri spioni e li consegnò alle autorità. Vennero tutti cacciati al di là del confine. Questo racconto è ben inciso nella mia memoria. La nostalgia della mamma per i suoi fratelli, l'amarezza di essere rimasta, in una notte, priva di tutto, il dolore per la solitudine e l'umiliazione per aver dovuto servire gli altri per vivere, tutto ciò attizzava il suo odio feroce per Abu-Nachla. E ora guardatela come gli rivolgeva quel sorriso servile! Mi sedetti e guardai quell'ospite. Contro la mia volontà fui costretta ad ammettere che faceva più impressione del nonno, e non solo perché era più giovane. In testa portava un tarbush rosso con una nappa nera oscillante; la sua giacca raffinata stava bene su quel corpo robusto e flessuoso. Le sue scarpe brillavano come i due enormi anelli d'oro che aveva alle dita. Una spilla con un diamante ornava la sua perfetta cravatta. In lui non c'era assolutamente niente di volgare, non nel modo in cui si era presentato, non nella sua voce e non nei movimenti del suo corpo. Era come un principe, che solo per divertimento si faceva coinvolgere in truffe e rapine. Si accorse immediatamente dell'odio che dilagava come veleno dentro di me, e sorrise come se stesse raccogliendo sguardi di ammirazione. Una sola cosa l'avrebbe potuto forse turbare: uno sguardo di disprezzo per la sua boria, ma non ci riuscii.

Si era seduto sull'orlo della sedia, tirandosi i pantaloni con un gesto elegante perché non si sgualcissero. Poi si guardò intorno, con un sorriso soddisfatto, come un padrone che vuol far capire ai suoi servi che è pronto per essere servito. Guardò la mamma che entrava in cucina per preparare il caffè e allora disse al nonno: «Dov'è Mary? Hai acceso la luce, ma io non vedo luce che assomigli o che sia equiparabile alla bellezza di tua nipote».

Notai subito come il nonno si irrigidì e capii quanto mi ero allontanata dalle mie radici. Non era consono che un uomo estraneo facesse dei complimenti a una giovane senza motivo. Abu-Nachla non era un uomo disattento ed era chiaro che conosceva il peso delle sue parole; e infatti smise di sorridere e incontrò gli occhi verdi e accesi del nonno. Lo sguardo di Abu-Nachla suggeriva serietà e riguardo, come se avesse voluto far capire al nonno che il suo complimento non intendeva essere una mancanza di rispetto. Dall'espressione del viso, adesso era chiaro che il nonno era più preoccupato delle vere intenzioni di Abu-Nachla che di quel complimento. Era un uomo ricco Abu-Nachla, e i suoi affari ramificati si estendevano da Haifa fino a Nazareth e Akko, ma oltre a possedere negozi e appartamenti era immerso fino al collo in giri di droga, prostituzione e contrabbando. Lui ce la metteva tutta nel cercare di dare un'immagine di decenza ai suoi loschi affari, e può darsi che stesse davvero cercando di passare dalla parte della legge, ma suo figlio Zuhair, invece, si trovava proprio in mezzo ai labirinti di quelle attività criminali. Era uno scapolo brillante, scaltro e pieno di quell'energia selvaggia della gioventù, anche se aveva già quarant'anni. Nello uadi era un segreto risaputo, ma non dalla mamma e dal nonno, che Zuhair era attratto da Mary, e io sapevo che aveva già provato a conquistarla, corteggiandola in tutti i modi.

Il nonno aveva raggiunto questa terra scalzo, affamato e a rischio della vita; qui aveva trovato da mangiare e un rifugio; aveva costruito una famiglia, e il suo modesto anonimato lo soddisfaceva. In cuor suo non si era mai disperato per la perdita delle proprietà della mamma, e aveva sempre gelosamente perseverato nel condurre una vita tranquilla; ma tutto questo non aveva nessun legame con l'umiltà cristiana; nasceva piuttosto da una profonda paura, le cui origini dimoravano nel suo passato avvolto nel mistero. Fin dalla nostra infanzia alludeva spesso al fatto che un brutto segreto gli alitava sul collo, ma sembrava ansioso di cancellarne le tracce; poi, quando fummo abbastanza grandi, lo ascoltammo dalla sua bocca. Un uomo come il nonno non sarà mai attratto dalla possibilità di diventare parente di un tipo come Abu-Nachla, a prescindere dalla povertà che ha potuto conoscere nella sua vita. È anche vero che il nonno è cristiano e Abu-Nachla musulmano, ma non è questa la ragione per cui un'unione tra i due sarebbe stata impensabile. Il nonno non ci ha mai fatto credere che la religione dovesse dividere.

Ora i due uomini cercavano entrambi un modo per ritirarsi. Abu-Nachla aveva capito di aver parlato troppo nella sua mossa d'apertura, e il nonno si era pentito di aver reso evidente il suo irrigidimento, e avrebbe preferito far finta che le cose dette non fossero mai state pronunciate. Non dubitai un attimo che ci sarebbero riusciti: erano due esperti nel far finta di nulla; Abu-Nachla con quel suo modo sicuro e consumato, il nonno con la sua raffinata grazia egiziana. Così, mentre la mamma si affaccendava in cucina, il nonno si sedette sulla sua ottomana, sì batté le mani sulle cosce e con una giocosa strizzata d'occhio tolse d'imbarazzo Abu-Nachla. «Prima del caffè sarà bene assaggiare un sorso di eccellente Zakhlawi» disse, e tirò fuori la bottiglia di arak da sotto l'ottomana.

«L'ulcera brucia,» sospirò Abu Nachla «ma come si fa a resistere alla tentazione di un buono Zakhlawi»

Il «sorso» si trasformò in cinque bicchierini a testa fino a che la mamma non usci di cucina con il caffè e i biscotti di Jamilla.

«Buttala,» ordinò il nonno all'ospite «butta quella sigaretta straniera. Te ne preparo una io con il mio tabacco».

Abu-Nachla si abbassò il tarbush fino a che la sua estremità non arrivò a toccargli le sopracciglia, dandogli così un aspetto spiritoso e seducente. Persino la mamma, che lo odiava, rivolse gli occhi altrove, come se cercasse di evitare una tentazione diabolica; invece lui prese la tazzina di caffè e le rivolse un sorriso regale. «Umm-Huda, sono venuto per darti una notizia, ho deciso di togliere la spazzatura dal tetto, getterò quell'immondizia nel pozzo dal quale è venuta. Cosa ne dici, Umm-Huda?».

«Che devo dire? Grazie, mille volte grazie, che tu goda di buona salute».

«E tu cosa dici, Huda?» si girò verso di me. «È bene che una ragazza sia silenziosa, ma non fino al punto di essere muta».

«Le siamo davvero riconoscenti» risposi con voce gelata.

«Non ce lo dimenticheremo mai, Abu-Nachla» intervenne il nonno, che ora conosceva il vero intento dell'ospite.

Gli occhi di Abu-Nachla si indurirono e il suo sorriso generoso scomparve. «Perdo del denaro per compiacervi».

«Allah ti ricompenserà» disse il nonno.

«Lascia perdere Allah» sentenziò Abu-Nachla, come se stesse ricusando un giudice parziale. «Se le persone aspettassero le ricompense di Allah andrebbero tutte scalze».

Il suo mondo è così distante dal mondo in cui io mi sono integrata. Sapevo solo che quelli erano i primi colpi di una dura sessione di mercanteggiamento. Forse quello era il suo nuovo esercizio: cacciarci dal nostro appartamento, o piuttosto affittarcelo a un prezzo più salato. La mia immaginazione si incendiò: mi sarei affittata quella camera da sola e sarebbe stata tutta per me. Su quel tetto spazioso e in quella camera quieta, lontana dal trambusto della strada, mi sarei potuta sedere accanto alla finestra e guardare il mare.

«Quanto chiede per la camera?» domandai.

Le dita di Abu-Nachla cessarono di giocare con il rosario.

«Cosa hai detto?».

«La camera di sopra, quanto mi costa?»

Abu-Nachla allungò la testa verso il nonno e indicandomi con il pollice rivolto all'indietro disse: «Che le succede? Cerca una stanza? Che si trovi un marito».

Le carte del nonno gli si mescolarono in mano. «Ma no... sogna, lasciala perdere».

«Non mi avrete mica mentito per tutti questi anni. Ve ne state qui praticamente gratis e con i tribunali degli ebrei a difendervi. Non sarete mica ricchi e solo alle mie orecchie piangete che non avete un soldo?».

«Non abbiamo mai pianto!» tuonò la mamma. «Ti abbiamo sempre pagato ciò che la legge ha stabilito».

«La legge! Rafforza i rammolliti e distrugge i leoni, questa è la vostra legge. Walla, queste leggi sono peggio degli occhi del diavolo. «Tfu! tfu!» sputò con disgusto, e nella sua rabbia si alzò in piedi e i suoi occhi da principe si agitarono, ma non volevano guardare nessuno. Ma subito si ricompose e si lasciò cadere sulla sedia asciugandosi la fronte con un fazzoletto bianco che emanava una piacevole fragranza. «Che Allah ci protegga dal diavolo maledetto» balbettò e si rivolse al nonno. «Perdo la pazienza a causa di Zuhair. Ha avuto un altro incidente. Ha distrutto la macchina e si è salvato per miracolo. Mi chiedo quando si calmerà, quando si costruirà una famiglia e mi darà un nipote. Voi pensate che il denaro risolva tutto; c'erano tempi che anch'io la pensavo così, Umm-Huda. Ecco, guarda i tuoi fratelli, contro i quali mi accusi di aver fatto la spia da tanti anni...».

La mamma si contorse sulla sedia: «Chi ti ha detto...».

«Non c'è bisogno che dicano, Umm-Huda. Ho fatto la spia, sì, l'ho fatto. Confesso. Quei giorni non avevano né padre né madre. Le spie degli ebrei non erano fesse, dovevo gettare loro qualche osso di volta in volta».

Guarda caso aveva scelto di gettar loro le ossa che aveva spolpato ben bene, pensai in cuor mio. La mamma sospirò forte, come ogni volta che ripensava ai suoi fratelli.

Abu-Nachla disse: «Sono incredibili le vie di Allah – forse non ero io, ma un suo angelo o un emissario».

«Di Allah?» ridacchiarono gli occhi del nonno perché in quel momento la sua natura egiziana aveva avuto il sopravvento.

«Sì, di Allah. Guardate cosa sono diventati i suoi fratelli in Giordania – uno annunciatore alla televisione, un altro è un importante funzionario al ministero degli esteri e il terzo, di che cosa si occupa il terzo, Umm-Huda?»

«Professore all'università» rispose orgogliosa con la sua voce nasale.

«Università! E dove sarebbero arrivati con gli ebrei in Israele? Dove sono arrivato io? A un figlio pazzo che salta di puttana in puttana e che per strada distrugge macchine».

«Si calmerà» intervenne il nonno, che si vide obbligato a tranquillizzare e consolare quell'uomo. «Ora arriviamo al punto» suggerì come una persona stanca la cui ora per andare a dormire è già giunta.

«Mi dovete dei soldi» disse Abu-Nachla.

«Per cosa?».

«Perché io vi mando via le bestie e sul tetto vi porto un ragazzo che qualsiasi persona pagherebbe una fortuna per averlo come vicino».

Trasalii: «Avete già affittato la camera?».

«E cosa pensavi, che ne facessi una gabbia per i piccioni? I soldi sono soldi, figlia mia». Poi tornò a rivolgersi al nonno. Gli ho affittato la camera a metà del prezzo che avevo preteso dalle bestie che vi infastidivano. Voi mi dovete risarcire».

Per quanto fosse un uomo saggio, il nonno era fondamentalmente un contadino e Abu-Nachla, acuto e raffinato, per lui era troppo. Adesso guardava l'ospite come uno che mentre cavalca un asino vede un aereo in cielo. «Non è per questo che sei venuto, Abu-Nachla. Ci sono cose più importanti del denaro anche tra i poveri. Il silenzio vale oro, Abu-Nachla, e io ti ringrazio per il tuo».

Dopo che se ne andò, la mamma, con un pizzico di rimprovero, chiese al nonno: «Per che cosa lo avresti ringraziato?».

«Donna, lui era venuto per chiedere la mano di Mary, ma Allah gli ha cucito le labbra».

«Mary! A un delinquente figlio di un delinquente come quello?».

«È rimasto in silenzio, donna, in silenzio, ed è bene che anche noi impariamo da lui. Intanto andiamo a mangiare, siamo affamati».

La notte, nella conchiglia buia della camera, ho sentito il respiro pesante di Mary. Ero stanca, ma sapevo che il sonno salvatore era lontano da me e che il giorno seguente sarei arrivata al lavoro come una sonnambula. Mary si rigirò nel letto, diede un colpo sul cuscino e si rimise nella posizione precedente.

«Mary,» dissi «Abu-Nachla non avrebbe osato tanto con tutte quelle allusioni se non avesse intenzioni serie».

«Huda, non ti far contagiare dal puzzo degli altri, pensa a te stessa».

Seguii il suo consiglio. Membro dopo membro addormentai il mio corpo. Dormii come un sasso, ma la mia mente era sveglia e i miei pensieri affilati come coltelli.

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