Copertina
Autore Jean-Claude Michéa
Titolo Il vicolo cieco dell'economia
SottotitoloSull'impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo
Edizioneeleuthera, Milano, 2004, , pag. 118, cop.fle., dim. 125x190x6 mm , Isbn 978-88-85060-96-8
OriginaleImpasse Adam Smith. Brèves remarques sur l'impossibilité de dépasser le capitalism sur la gauche
EdizioneClimats, Paris, 2002
TraduttoreGuido Lagomarsino
LettorePiergiorgio Siena, 2004
Classe economia , filosofia
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Indice

Avvertenza                           9
Prefazione                          11

PRIMA PARTE                         19
CAPITALISMO E MODERNITÀ
Proposizioni                        21
Scolli                              39

SECONDA PARTE                       59
COMMON DECENCY E SOCIALISMO
Proposizioni                        61
Scolli                              73

TERZA PARTE                         83
UTOPIA LIBERALE E CAPITALISMO REALE
Proposizioni                        85
Scolli                              89

APPENDICE                           91
PROMEMORIA

 

 

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Pagina 12

[...] Il fatto è che la sapienza infallibile degli economisti - diamolo al momento per accertato - è in grado di dimostrare in modo indiscutibile che l'umanità ha esaurito le sue scorte di pane bianco, che gli anni gloriosi sono ormai alle nostre spalle e che è tempo di ficcarci in testa che abbiamo finora vissuto al di sopra dei nostri mezzi. In quest'ora che prelude a tempeste ineluttabili (considerando - ci viene detto per esempio - quei tassi di natalità sempre nefasti, perché troppo elevati o troppo bassi), le più modeste rivendicazioni assumono l'aspetto di lussi ormai inaccessibili. La semplice esigenza di conservare un lavoro relativamente stabile e degno all'interno di una situazione minimamente umana, di disporre di un reddito quasi dignitoso, di una vecchiaia tutelata, di qualche cura gratuita, addirittura di qualche spazio di meritato riposo - tutto questo, ci viene detto oggi, rappresenta una sfilza di capricci inaccettabili, perché contrari alle leggi dell'economia. Come sintetizza l'ex padrone dell'AXA (uno dei più grandi gruppi assicurativi del mondo), Claude Bébéar, con la brutale franchezza di chi è nato per comandare i suoi simili, la straordinaria accumulazione di progressi materiali e tecnologici può avere soltanto, per la maggioranza, un unico effetto: «È evidente che si dovrà lavorare di più e più a lungo». Insomma, se capiamo bene, la propaganda ufficiale ha il compito di farci credere questo: quanto più, grazie alla sua tecnologia prometeica e a un illimitato spirito d'inventiva, l'umanità espande le possibilità di alleviare le pene degli esseri umani e di modificare il corso delle cose, tanto più deve rassegnarsi ad ammettere di non avere più il controllo sul proprio destino storico; è dunque la portata stessa dei mezzi di cui dispone attualmente a spiegare l'esiguità dei risultati concreti che può sperare di raggiungere.

Suppongo che non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e che proprio per questo imponga una critica radicale, cioè, rispettando l'etimologia del termine, una critica che ne analizzi il male alla radice e che intenda trattarlo per quello che è.

In queste condizioni, il problema nel suo complesso consiste nel capire per quale misterioso meccanismo un sistema così evidentemente privo di razionalità sia riuscito, nel corso dei decenni, a stendere la sua ombra sull'intero pianeta, senza incontrare una seria opposizione da parte di coloro ai quali destabilizza l'esistenza e mutila la potenzialità di vita, senza suscitare, cioè, una resistenza collettiva commisurata ai guasti che produce e ai suoi effetti reali. Il problema può essere formulato in altro modo. Da oltre un secolo tutti, avversari e partigiani, concordano nel classificare con il nome di sinistra il vasto movimento politico e intellettuale che si oppone ufficialmente al sistema capitalista e a tutte le sue malefatte. Come può essere, allora, che un movimento storico di tale portata (e le cui idee sono diventate dominanti nella cultura contemporanea) non sia mai riuscito a rompere nella pratica l'organizzazione capitalista dell'esistenza, sostituendola con una società autenticamente umana, libera, ugualitaria e dignitosa?

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Pagina 15

Il problema è che nella storia delle idee una realtà ne maschera quasi sempre un'altra e gli esseri umani si trovano regolarmente davanti a conseguenze che non avevano nemmeno immaginato possibili, mentre ne sostenevano con il massimo ardore i presupposti. Questa griglia interpretativa, applicata alla filosofia illuminista, cioè al punto di avvio intellettuale della modernità, mi ha gradualmente portato a elaborare l'ipotesi seguente: non esiste, secondo me, che un'unica possibilità di sviluppare integralmente l'ambigua assiomatica dell'Illuminismo, ed è quella dell'individualismo liberale. La traduzione politica più radicale e più conseguentemente logica di quest'ultimo si trova nel discorso sull'economia politica che ha la sua prima versione compiuta nella Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Questo equivale a dire che quella che ancor oggi viene chiamata la sinistra si alimenta esattamente alla stessa fonte filosofica del liberalismo moderno (dopotutto non è affatto assurdo, in linea di principio, affermare che Turgot e Adam Smith fossero, ai loro tempi, uomini di sinistra). L'esistenza di questa matrice originale, comune al pensiero della sinistra e al liberalismo illuminista, spiega secondo me le ragioni che hanno sempre indotto la prima ad avallare lo spirito del secondo sull'essenziale, quantunque le sia capitato spesso (e le capiterà ancora) di volerlo correggere (o regolare) su questo o quel dettaglio specifico. Queste ragioni non riguardano dunque in prima istanza la particolare psicologia della maggior parte dei capi di quel movimento (l'amore per il potere e il senso di tradimento che questo implica), ma sono fondamentalmente ontologiche, cioè attengono alla natura stessa della sinistra. Vista in questa prospettiva, l'idea di un «anticapitalismo» di sinistra (o di estrema sinistra) parrebbe improbabile come quella di un cattolicesimo rinnovato o «rifondato» che prescinda dalla natura divina del Cristo e dall'immortalità dell'anima. Sono pertanto le esigenze stesse di una lotta coerente all'utopia liberale e al rafforzamento della società classista che essa genera inevitabilmente (e con questo intendo semplicemente un tipo di società in cui la ricchezza e il potere indecenti degli uni come condizione principale lo sfruttamento e il disprezzo degli altri) a rendere oggi politicamente necessaria una rottura radicale con l'immaginario intellettuale della sinistra.

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Pagina 98

Grazie alla sua formazione intellettuale iniziale (il «marxismo occidentale» e, più nello specifico, quello della Scuola di Francoforte), Lasch si è trovato ben presto vaccinato contro il culto del «progresso» (o, come si usa dire adesso, della «modernizzazione»), che oggi rappresenta il catechismo residuale degli elettori di sinistra e quindi anche una delle principali risorse psicologiche che li tiene ancora attaccati a questa strana chiesa nonostante il suo evidente fallimento storico. Qualche anno più tardi, illustrando il suo percorso filosofico, Lasch arriverà a scrivere che il punto di partenza della sua riflessione è sempre stato «questo interrogativo abbastanza semplice: come mai tanta gente seria continua a credere nel progresso, mentre la mole di prove avrebbe dovuto indurli ad abbandonare una volta per tutte questa idea?». Ora, il semplice fatto di ammettere una domanda così sacrilega non solo permette di ricollegarsi a tanti aspetti dimenticati del socialismo delle origini, ma contribuisce anche a rimuovere una serie di interdetti teorici che, cristallizzatisi nel tempo, avevano finito per rendere praticamente inconcepibile qualsiasi possibilità di mettere in discussione in modo un po' deciso l'utopia capitalista. E così, per esempio, che la domanda posta da Lasch rende nuovamente possibile l'esame critico dell'identificazione ormai tradizionale (attraverso una forma qualunque della teoria sulle «astuzie della ragione») tra il movimento, considerato ineluttabile e in grado di assoggettare tutte le società al regno dell'economia, e l'effettivo processo di emancipazione degli individui e dei popoli. In altri termini, se si consente di tradurre i concetti a priori dell'intelletto progressista davanti al tribunale della ragione; se, quindi, si smette di ritenere come auto-dimostrata l'idea che qualsiasi modernizzazione di qualsiasi aspetto della vita umana rappresenti, in sé, un fatto positivo per il genere umano, allora non c'è più niente che possa garantire teleologicamente che il sistema capitalista - per il solo magico effetto dello «sviluppo delle forze produttive» - sia storicamente destinato a costruire, «con la fatalità che presiede alle metamorfosi naturali» (Marx), la tanto decantata «base materiale del socialismo», ovvero l'insieme delle condizioni tecniche e morali preposte al suo stesso «superamento dialettico». Per spiegarci con termini chiari, restando nell'ambito dei guasti che ben conosciamo, lo sviluppo di un'agricoltura geneticamente modificata, la distruzione metodica delle città e delle corrispondenti forme di urbanità, o ancora l'abbrutimento mediatico generalizzato e le sue cyberprotesi, non possono essere seriamente presentati, comunque la si voglia mettere, come presupposti storicamente necessari o semplicemente favorevoli all'edificazione di una società «libera, giusta e dignitosa». Troviamo qui, invece, altrettanti ostacoli evidenti all'emancipazione degli esseri umani, e quanto più questi ostacoli si svilupperanno e si accumuleranno (si pensi per esempio a certi guasti ambientali probabilmente irreversibili), tanto più difficile diventerà ripristinare le condizioni ecologiche e culturali indispensabili all'esistenza di una società davvero umana. Il che equivale a dire, essendo il capitalismo quello che è, che il tempo lavora ormai contro gli individui e i popoli, e che se questi si accontenteranno di aspettare l'avvento di un mondo nuovo e migliore, quello che avranno effettivamente in eredità non sarà un mondo atto a realizzare le loro speranze, nemmeno le più modeste. Orbene, questa idea rappresenta la negazione stessa del dogma progressista, il quale per definizione afferma che la ragione finisce sempre per prevalere e che quindi è fin d'ora stabilito che il XXI sarà un grande secolo e l'avvenire sicuramente radioso. Per questo la critica dell'alienazione progressista deve diventare il primo presupposto di qualunque critica sociale. E purtroppo è una critica che fino a oggi non ha quasi superato la fase embrionale.

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