Copertina
Autore Adolfo Mignemi
Titolo Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2005, Nuova Cultura 108 , pag. 350, ill., cop.ril.sov., dim. 210x220x25 mm , Isbn 978-88-339-1594-4
CuratoreAdolfo Mignemi
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe storia contemporanea d'Italia , fotografia , guerra-pace
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Indice


  7 Le immagini della prigionia
    di Adolfo Mignemi


 33 Storia e memoria dei militari italiani
    deportati nella Germania nazista (1943-1945)
    di Rossella Ropa


 63 Il diario fotografico di Vittorio Vialli
    di Luisa Cigognetti e Pierre Sorlin


 75 Il fondo Vialli presso l'Istituto storico
    Parri di Bologna
    di Bruno e Silvana Vialli



    Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania

105 1. La fotografia della prigionia

183 2. L'immagine dei tedeschi e dei fascisti

211 3. Il diario per immagini di Vialli


339 Ringraziamenti
341 Note alle fotografie
343 Indice dei nomi di persona
347 Indice dei nomi di luogo

 

 

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Le immagini della prigionia
di Adolfo Mignemi



Ogni guerra produce il tipo di prigionia di cui la società che quella guerra ha scatenato o semplicemente combatte ha bisogno. Essa, in altre parole, non solo è parte delle strategie del conflitto ma è specchio fedele dell'evoluzione del conflitto rispetto a quelli che lo hanno preceduto e, così come avviene nello scontro militare, è sempre la tecnologia più moderna a definire la soglia di violenza praticata in ogni ambito: dal terreno di battaglia al campo di prigionia.

Un elemento accomuna la condizione del prigioniero nei conflitti di tutti i tempi: essere considerato come colui che viola i codici collettivi e fondativi della guerra, societariamente condivisi. E ciò sia che il prigioniero appartenga alla parte vincente sia a quella sopraffatta: egli, da un lato, ha ceduto le armi al nemico - magari anche solo simbolicamente - senza combattere fino all'estremo sacrificio; dall'altro vive in balia del senso di impotenza e in lui la fantasia del disarmo suscita l'ansia di esporre alla mercé di tutti la «terra-nazione-madre». Non a caso, fin dall'antichità, la condizione del prigioniero si associava alla perdita di identità politica e sociale. Con l'avvento degli stati nazionali e delle guerre di massa diviene pertanto preoccupazione del legislatore ridefinire con sempre più specifiche norme questo status di «sospensione» dei diritti.

Nel corso della seconda guerra mondiale la condizione del prigioniero subisce profonde modificazioni rispetto a quella dei soldati catturati durante il conflitto del 1914-18.

Il dilatarsi del teatro di guerra a tutti i continenti e a tutti gli oceani; la concezione della guerra come conflitto totale che oltre ai combattenti coinvolge la società civile del paese nemico; il sistema della terra bruciata davanti alle forze avversarie avanzanti; le deportazioni di massa; i campi di sterminio; l'impiego di armi cieche, di inaudite tecnologie militari: questi e altri caratteri della seconda guerra mondiale inevitabilmente si ripercuotevano sulla sorte dei prigionieri.

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La fotografia dei prigionieri militari italiani in Germania

Quando, nel settembre 1943, venne annunciato l'armistizio con gli alleati, i tedeschi presero a ridurre in prigionia, nell'arco di qualche settimana, oltre centomila militari italiani schierati sui vari fronti o accasermati in patria.

La loro cattura avvenne con modalità assai diverse da luogo a luogo, e spesso in modo del tutto anomalo. Chi si opponeva al disarmo veniva passato per le armi, ma accadde anche che per giorni molti militari che si trovavano fuori Italia potessero illudersi di essere rimpatriati, grazie al fatto che alla maggior parte di loro fu permesso di conservare il proprio bagaglio personale. Durante i lunghi viaggi di trasferimento emerse l'amara verità: la meta finale non sarebbe stata l'Italia, ma un campo di prigionia in Germania o in qualche territorio dell'Est europeo occupato dai tedeschi. Questo comportamento da parte dei tedeschi diede tuttavia a molti, soprattutto agli ufficiali, la possibilità di nascondere numerosi materiali che diventeranno protagonisti della quotidianità dei campi di prigionia e veri e propri strumenti di sopravvivenza. Si pensi, ad esempio, ai libri o ai fornellini o alle lampade portatili alimentate da dinamo manuali. Di questo universo di cose scampate alle razzie tedesche facevano parte numerosi apparecchi fotografici.

Dopo diciannove mesi di Lager - scriverà Guareschi nel suo Diario clandestino - ecco saltar fuori macchine fotografiche a dozzine e bandieroni tricolori di tre metri per quattro. Dalla parte francese non venne a galla nemmeno una coccarda. Il fatto è che gli italiani sono bravissimi in queste faccende, e io una volta, in Polonia, durante un trasferimento da un campo all'altro, vidi un tenente siciliano uscire dalla baracca della perquisizione, in camicia perché lo avevano fatto spogliare: e ricordo che teneva sulle braccia il fagotto dei suoi vestiti e dentro il fagotto c'era una grossa radio a sei valvole.

La gran parte degli apparecchi fotografici ricordati da Guareschi aveva però esaurito rapidamente la propria funzione: terminato il rullino o i pochi rullini disponibili, l'apparecchio finiva in fondo allo zaino. Non era infatti facile procurarsi dei negativi, anche perché la pratica fotografica non era assolutamente tollerata, anzi veniva assimilata a forme di spionaggio o sabotaggio.

La vicenda del tenente Vialli e della sua accanita ricerca di materiali fotografici, oltre che testimoniare la sua tenace attività di fotografo clandestino, appare dunque in tutti i suoi caratteri di eroica eccezionalità.

Vialli fotografa quando e come può, ogni volta che ha del materiale sensibile a disposizione e le condizioni di ripresa sono rese possibili dalla generale solidarietà dei compagni di prigionia. Quando non conosce né le persone né la realtà del campo, i giorni e le settimane trascorrono senza che egli scatti una sola fotografia o le riprese sono incerte, realizzate a distanza dal soggetto principale per non esporsi troppo. Poi, con il passare del tempo, egli collauda le strategie di ripresa più sicure, individua gli «angoli morti» del campo dove poter fotografare liberamente e mettersi in posa; così a ogni nuovo campo, a ogni nuova destinazione, sfuggendo fortunosamente a innumerevoli perquisizioni.

Gli italiani sanno «arrangiarsi» - scriverà ancora Guareschi - meravigliosamente bene, e questa è la qualità negativa che più ci danneggia: ma allora risultava un fattore positivo perché, per esempio, gli apparecchi radio nascevano dal niente. Bastava una valvolina: il resto lo si faceva tutto in casa, compresa la cuffia e le pile, e il complesso stava comodamente dentro una gavetta e funzionava in tal modo che, quando ad esempio il signor Churchill ancora parlava, per le baracche giravano già i fogliettini con la prima parte del discorso tradotta in italiano.

Quando si tratta di «far fesso» qualcuno, per noi italiani la questione diventa di prestigio nazionale e si vedono cose impensabili. Si vede, per esempio, l'ingegner M., un personaggio massiccio, dignitoso e arcigno come una equazione di settimo grado, avvicinarsi tranquillo alla bicicletta che un sergente della Gestapo appoggia ogni giorno alla baracca dell'ufficio pacchi. Sotto gli occhi della sentinella, annidata sulla torretta lì vicino, il grosso uomo svita con indifferenza la dinamo dal biciclo, se la porta in luogo appartato, la smonta, toglie il filo di rame dell'avvolgimento, rimonta il meccanismo, ritorna al biciclo, riavvita la dinamo. Ed ecco procurata la bobina di cui abbisogna la radio.

La storia della «radio Caterina» è in realtà la stessa storia dell'apparecchio Voigtländer e dei rullini fotografici impressionati, che aumentano mese dopo mese, campo dopo campo, nascosti da Vialli fino alla fine. Gli oltre 450 scatti realizzati verranno sviluppati e l'autore prenderà a stamparli solo a guerra finita una volta rientrato in Italia.

Soltanto allora Vialli potrà verificare il proprio lavoro e potrà rileggere per la prima volta quel «diario» cui probabilmente aveva affidato i suoi sentimenti più intimi: dalle sensazioni più banali ai dolori, dai sentimenti di amicizia agli impulsi d'ira e di disprezzo, dalle ansie alla speranza. In quel cieco, ma determinato esercizio di scrittura con le immagini, Vialli aveva certamente investito ogni energia poiché la sopravvivenza di quella macchina e di quelle pellicole era la prova tangibile della sua sopravvivenza attraverso l'assurda e devastante esperienza del Lager, la prova materiale che la drammatica scommessa quotidiana di uscire vivo, a testa alta, con la propria dignità intatta, era stata vinta.

Nel campo di Sandbostel Vialli aveva incontrato Guareschi e lo aveva più volte fotografato.


Le immagini realizzate dai fotografi tedeschi

Le fotografie fatte ai militari italiani dai tedeschi riflettono con grande immediatezza il rapporto che si era venuto a creare con l'armistizio, ma soprattuto quanto accadrà nei mesi successivi.

Numerose sono le fotografie relative alla cattura. Scattate dagli operatori militari, esse mostrano il numero sorprendentemente alto di prigionieri ripresi un po' ovunque; ma l'aspetto di maggior interesse è un altro. Moltissime si soffermano sui dettagli con la determinazione di chi vuole scrivere qualche cosa di significativo con quelle fotografie, con la serena lucidità di chi sa osservare avvenimenti la cui reale portata sfugge ampiamente agli attori: il fazzoletto sporco e stropicciato con cui viene bendato l'ufficiale che a Roma va a parlamentare con i paracadutisti tedeschi; l'assai poco militare valigia che il soldato di Barletta solleva sopra il capo; la bicicletta civile caricata sul treno e il carrettino con cui si trasportano gli zaini alla stazione; l'accumularsi di casse con i bagagli degli ufficiali; e poi quegli sguardi un poco sbigottiti per quanto sta avvenendo e un poco imbarazzati nel guardare in volto l'ex alleato piantato in asso da un giorno all'altro (senza che nessuno dei comandi locali sapesse nulla di quanto stava per accadere) e al quale, si direbbe, tocca anche organizzare il ritorno a casa degli italiani per i quali la guerra è finita.

I fotografi militari tedeschi colgono anche qualche sorriso, poi il gruppo dei soldati italiani fotografato diventa folla anonima di prigionieri adunati sul piazzale di una stazione, sul molo di un porto, ammassati nei vagoni ferroviari, sui ponti e nelle stive delle navi.

Le immagini della prigionia vera e propria, quella dietro il filo spinato di campo, sono poche e, seguendo una sorta di schema fisso, sono quasi sempre legate a visite di commissioni assistenziali che si muovono, accompagnate da compunti ufficiali tedeschi, in ambienti confortevoli con letti dalle lenzuola pulite e fumiganti marmitte piene di cibo di buona qualità.

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