Copertina
Autore Radu Mihaileanu
CoautoreAlain Dugrand
Titolo Vai e vivrai
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2005, Super UE , pag. 182, cop.fle., dim. 13,5x20,5x1,2 cm , Isbn 978-88-07-84055-5
OriginaleVa, vis et deviens [2005]
TraduttoreCristina Volpi
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe narrativa francese , narrativa romena , paesi: Israele
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Indice

  7 Ringraziamenti
 .cor 2
 13 Prologo
    L'Operazione Mosè

 19 VA'

 21  1. L'ultimo respiro di Salomon
 25  2. La madre promessa
 30  3. Su ali di aquile
 35  4. La terra degli antenati
 44  5. Il bambino selvaggio
 54  6. L'adozione
 66  7. La nuova vita
 74  8. La conversione
 84  9. C'era una volta
 89 10. Il primo "sì"

 97 VIVI

 99  1. La tribù
109  2. Il colpo di fulmine
113  3. La controversia
128  4. Al kibbutz
136  5. Un trimestre di fuoco
142  6. Pace adesso
147  7. Confessioni
154  8. Il prezzo della verità

157 DIVENTA

159  1. Il secondo esilio
166  2. La voce del sangue

176 Epilogo
    Il grido




 

 

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Pagina 21

1.
L'ultimo respiro di Salomon



Um Raquba, un puntino sulla carta del Sudan meridionale, ottantamila "abitanti" in questo campo di profughi, vestiti di stracci, mezzi nudi, sfiancati, luogo di morte fra molti altri sulla Terra in questo XX secolo. Qui sono a migliaia ad aspettare non si sa cosa, anche la speranza appare vana. Oggi il medico avrà nuovi medicinali? Domani ci sarà l'acqua, qualcosa da mangiare, si vedrà comparire il camion col telone con sopra un logo colorato, scritto con i segni di una lingua lontana che qui nessuno di quelli che hanno fame sa leggere? Arriverà finalmente la clemenza della natura? Queste le domande che ossessionano i rifugiati ammassati nell'accampamento dal colore ocra spento del deserto.

Um Raquba, a ottanta chilometri a sud di Gedaref. Un oceano di brandelli di plastica, di tele e tessuti un tempo multicolori, ormai sbiaditi dal sole assassino. Tende una volta bianche, oppure kaki, provenienti dalle forniture degli eserciti del mondo, fasci di rami stesi come dita rattrappite, resti di stuoie, brande polverose inviate da tempo immemore dagli aiuti internazionali per le emergenze.

Infermiere, medici americani, canadesi, francesi, belgi si danno da fare in quella vastità che è l'ospedale di base, una stazione sanitaria costituita da quattro tende immense, un'isola di ragione, in cui i testimoni umanitari dell'apocalisse curano e salvano. I bambini muoiono perché non hanno molte difese alle malattie endemiche, all'epidemia di morbillo che, per esempio, è esplosa due mesi fa. La fame rode. Secondo i criteri dell'Alto commissariato per i rifugiati, la razione alimentare quotidiana necessaria per la sopravvivenza di un essere umano è di almeno mezzo chilo di farina e di un cucchiaio di latte in polvere. Al campo di Um Raquba, l'esistenza è disumana... Gli ufficiali sudanesi che gestiscono questo campo profughi per conto della Comunità internazionale amministrano persone, risorse e beni secondo le loro usanze: burocrazia, confisca degli approvvigionamenti di cereali degli aiuti mondiali e, naturalmente, corruzione. Più la miseria è grande, più l'essenziale raggiunge il prezzo dell'oro. L'acqua non manca, ma vista la siccità delle ultime stagioni, il livello della falda è allo stadio più basso, i cammelli si abbeverano negli stagni fangosi, e gli esseri umani anche, nonostante le carcasse di animali morti in decomposizione. In cambio di soldi, e aiutandosi con i cartoni del latte vuoti, alcuni giovani travasano il liquido infetto in barili che diffondono i germi della dissenteria. Ma è davvero la morte il peggiore dei mali sotto i cieli del Sudan miserabile, in cui a migliaia aspettano, speranzosi, che la canicola cessi con la stagione delle piogge?

Il crepuscolo si avvicina. Il bianco plumbeo del cielo è già velato da un'ombra violacea, una luna maestosa si alza sul vasto e muto brulicare. A est, rocce color ruggine virano al viola, in meno di due ore la notte africana cadrà di colpo. Il freddo allora strazierà i corpi, farà ghiacciare la sabbia sotto i piedi.

Man mano che l'oscurità avanza il silenzio si annulla. Le gole secche si infiammano, attacchi di tosse, versi raschiati sembrano richiamarsi l'un l'altro nell'inferno lugubre di Um Raquba, dove la notte è peggio del giorno.


Worknesh l'etiope ha solo venticinque anni, ma i tratti sono quelli di una vecchia. Dal villaggio di Weleka, vicino a Gondar, le piste dell'esodo fra montagne e deserti le hanno preso il marito, la figlioletta, un figlio e la giovinezza, consumata da cinque settimane di cammino estenuante, doloroso. Un calvario. Gerusalemme, il prezzo di un sogno folle. Poco importano le rughe, Worknesh sopravvive al campo da due anni, e i suoi occhi non avranno mai più il piacere di sfiorare la superficie di uno specchio. Worknesh tossisce. Da morire. Seduta a gambe incrociate in una conca dì sabbia, riparata solo da un lembo di tela giallognola, ciò che resta di una tenda della Croce Rossa, copre il viso di suo figlio, l'ultimo sopravvissuto, con una piega dello shamma, la veste dei contadini di Gondar. Salomon, otto anni, sta morendo. La sua fronte è così bollente che Worknesh si metterebbe a urlare se potesse farlo. Ma si trattiene, resiste. Non riesce a dominare il fuoco che ha in gola e la tosse insanguinata.

Il medico bianco si avvicina, lei non dice una parola, non azzarda un solo gesto: ha paura del verdetto. Avrà capito che Salomon è tutto quello che le resta al mondo? Sbircia lo sguardo del bianco, vorrebbe implorarlo, ma non osa.

Il dottore con gli occhiali di metallo si inginocchia vicino alla donna falascia. Le parla, sa la sua lingua, l'amarico. Ma a che scopo, la tragedia di Worknesh non ha bisogno di parole, lei non ha più una lingua. Il medico francese bisbiglia, Worknesh capisce che suo figlio se ne sta andando. Si chiude in se stessa, deve nascondere la disperazione.

Il medico abbassa le palpebre del piccolo, prende le dita sottili di Worknesh e le tiene a lungo fra le mani.

Worknesh vorrebbe urlare. La sua ultima ragione di vita l'ha abbandonata, ma non piange, il viso è impassibile, non emette alcun suono. Non si crolla di fronte a un estraneo. Incatena il suo dolore. I suoi occhi la portano lontano, verso quel niente che inghiottirà le spoglie di suo figlio.

Qualche passo più in là, sotto una tenda, un'etiope, debole come lei, ha assistito alla tragedia. Ha il viso coperto da un leggero velo di cotone che la protegge dalla sabbia sollevata dai venti. Lascia intravedere uno sguardo intenso, disperato, segnato da altrettante prove. Ma, proprio come Worknesh, il portamento, il busto dritto, la testa alta, il viso fermo non tradiscono il suo dolore. Ugualmente dignitosa, non si lamenta. Nel suo sguardo, la determinazione, e nient'altro.

L'etiope si chiama Kidane, è cristiana, ha ventotto anni, non di più, ma anche lei ne dimostra cinquanta. I suoi occhi continuano a fissare Worknesh, l'ebrea, e il figlio, morto tra le sue braccia. Una voce la distoglie dai suoi pensieri:

"Mangia, mamma, mangia...".

Kidane si volta verso il figlio, seduto vicino a lei. Ha nove anni, e pilucca il riso in una scodella di metallo. Non smette di osservare di sottecchi sua madre, mentre con la mano libera scaccia, previdente, gli insetti che ronzano attorno alla razione di Kidane. Lei dice di non avere appetito. Gli porge la scodella, con un gesto deciso, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo: la sua attenzione è interamente rivolta a Worknesh.

È così. Gli ebrei neri si conoscono, formano un gruppo persino in quella confusione. Solo loro sanno chi è chi, a quale villaggio appartiene il tale o il tal altro. Delle generazioni di cui sono gli eredi conoscono la prudenza, loro unico scudo contro l'intolleranza.

A Um Raquba si sono raggruppati con discrezione sul limitare delle ultime tende, a ovest. Le regole sono tassative: devono inumare i loro cari lontano dal campo, di notte, e soprattutto cancellare ogni traccia, qualsiasi segno indicatore che in quella terra sabbiosa riposa un figlio o una figlia di Israele.

Nella notte serena, Kidane ha seguito, furtiva, il corteo funebre. Si è nascosta dietro le rocce, blocchi di pietra che le feriscono i piedi nudi. Non perde di vista le figure desolate che avanzano sul pendio, verso la cima della collina. Il bagliore della luna è così vivo che assorbe lo scintillio delle stelle. Kidane osserva il movimento del gruppo. Distingue gli aiutanti del Qes che scavano la fossa nella sabbia a mani nude. Uno di loro riceve il sudario del bambino. Kidane si è nascosta. Intravede Worknesh che si divincola, tenta di raggiungere il corpo del figlio che giace nella fossa, ma il Qes e il medico francese glielo impediscono. Worknesh urla. Si lascia andare senza ritegno, non ha più la forza di essere dignitosa, barcolla.

Gli uomini oscillano avanti e indietro, salmodiando il kaddish, la preghiera dei morti. Il medico prega in ebraico, gli etiopi in gheez, la lingua degli avi della regina di Saba.

Il silenzio pervade Worknesh come la morte. Il viso è asciutto, le lacrime non le inumidiranno più gli occhi per tutto il tempo che le resterà da vivere. La siccità che si è abbattuta sull'Africa da tanti anni non solo ha bruciato gli uomini, ma ha anche consumato i cuori.

Dal suo nascondiglio, Kidane la cristiana fa il segno della croce. China la testa, sfiora la croce che porta al collo, e prega. Poi torna al campo, furtiva.

Le preghiere si concludono. Il Qes con il tradizionale turbante e avvolto nella veste rituale, e il medico sostengono la giovane disperata, mentre il gruppo scende, impacciato, la collina scoscesa.

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