Copertina
Autore Andrew Miller
Titolo Casanova innamorato
EdizioneBompiani, Milano, 2000 , pag. 265, dim. 150x210x17 mm , Isbn 978-88-452-4391-2
OriginaleCasanova in Love
EdizioneHodder and Stoughton, London, 1998
TraduttoreSergio Claudio Perroni
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa inglese , biografie
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Pagina 11 [ inizio libro ]

La porta si aprì: dal corridoio proruppe una folata di luce. La sagoma di un servitore sganciò le persiane, le apri e lì stette, sfregandosi le mani e contemplando i tetti innevati di Dux. Alle sue spalle, il vecchio sprofondato in poltrona e con il cane accucciato ai piedi cessò di bofonchiare e sospirare e, alzato il viso, fiutò la luce del giorno.

"Avete visite, mein Herr," gli disse il servitore, voltandosi e guardandolo come avrebbe guardato una delle figure nei grandi arazzi del Conte Waldstein appesi alle pareti nelle sale dabbasso: un uomo di tela, scarno e consunto al punto che non ci sarebbe stato da stupirsi se attraverso il suo busto si fosse intravisto lo schienale della poltrona.

"Visite?"

"Una 'dama', mein Herr. Sehr schöne."

Fattosi adesso più ardito - giacché il conte era in viaggio e Feldkirchner, il maggiordomo, quel vecchio si divertiva a chiamarlo cadavere e relitto e altri epiteti ben più insolenti -, il servitore strizzò l'occhio, scoccò un bacio all'aria, e filò via dalla stanza mentre l'uomo, vinte a fatica coperte e gravità, lo inseguiva fin sulla porta, coi pugni levati e frementi come antenne di una lumaca furibonda.

"Sciacquapitali! Giacobino! Lo riferirò al tuo padrone, rettile immondo che non sei altro!... Pensa piuttosto ad accendere il camino, pelandrone! Vuoi farmi morire di freddo? Che ti venga un accidenti!"

Ma la sua rabbia era vana. Stava urlando in italiano, o, più precisamente in veneziano: e quei barbari non potevano capirlo.

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Pagina 18

Eccolo adesso a trentott'anni, mento grosso, naso grosso, occhi grossi in un volto di "tinta africana", spalle e torace possenti - mentre dalla passerella sbarcava sul molo del porto di Dover, alle spalle del Duca di Bedford, col quale, dopo una nobile disputa, aveva condiviso le spese del viaggio da Calais, ossia le tre ghinee a testa pagate al capitano del brigantino. Gli staffieri, trascinati sulla banchina i bagagli dei due gentiluomini, li allinearono uno accanto all'altro.

"L'Inghilterra!"

"Già, proprio l'Inghilterra, monsieur," disse il duca, nell'impeccabile francese che era lecito aspettarsi dall'inviato inglese a Fontainebleau. "E auguriamoci che la permanenza qui vi sia propizia."

Per qualche istante stettero fermi sul molo a bilanciarsi sulle gambe per ritrovare l'equilibrio e la confidenza con la terra firma, inalando una brezzolina che sapeva di sale e pece e interiora di pesce. Un marmocchio mezzo nudo, alto poco più del bastardino che teneva per la collottola, li mirò - le loro giubbe inamidate, i guanti aderenti, l'elsa delle spade scintillanti al sole - come se fossero calati da una nube appesa a funi crepitanti, semidei in una pantomima di paese. Casanova ricambiò lo sguardo - l'insolenza del benessere e l'insolenza della miseria. Di marmocchi come quello era pieno il mondo, certo: erano una sorta di ubiqua spazzatura umana; eppure non gli riusciva mai di guardarli senza vedere se stesso, stolido figlio della danzatrice Zanetta, correre per le calli e poi fermarsi di botto, stupefatto, a contemplare senatori dalla mantella rossa, forestieri rivestiti d'oro, dame barcollanti sotto cappe di gioielli. Cavò di tasca una piccola moneta, un nulla d'argento, e la gettò al bimbo. La moneta rimbarzò sul selciato e finì in una pozzanghera di pioggia putrida. Il marmocchio, senza smettere di guardare i due gentiluomini, tastò con le dita fina a trovare la moneta. Casanova si voltò. Si era ripromesso di evitare quanto più possibile i pensieri sgradevoli.

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Pagina 98

Quello era il punto cui era giunto il gioco conturbante, quando, congedandosi una sera dalla casa in Denmark Street, e temendo che anche un solo altro giorno di venditori ambulanti e bottegai xenofobi lo avrebbe indotto a brandire il suo piccolo squarciabudella veneziano, il Cavaliere aveva chiesto a Madame Augspurgher, in presenza della figlia, quando potesse sperare - a quando, madame, la notte beata... E, dopo molte esitazioni, dopo qualche affettazione di imbarazzo e qualche risolino, era stato invitato a cena per la sera successiva, cena dopo la quale - se avesse gradito - sarebbe stato ospite delle Augspurgher per la notte.

Il giorno prestabilito, Casanova si svegliò da un sonnellino nel soggiorno di Pall Mall. Non sapeva cosa l'avesse destato: forse una folata di foglie contro la finestra; fatto sta che appena sveglio udì rintoccare le cinque sulla pendola nell'atrio e sull'orologio all'ingresso della Smyrna Coffee House. Si alzò, si sfregò gli occhi e andò alla finestra. Da oriente si vedeva avanzare rapidamente una notte di fumo e nubi torve, mentre a occidente l'ultima porzione di sole sbirciava tra le case che costeggiavano il parco e proiettava sulla strada un reticolo di polverosi raggi dorati. Non v'era traccia di Jarba, e in casa nessun segno di vita, sicché Casanova accese da sé le lampade e ne portò una su per le scale e in camera. Tutti i suoi pensieri erano ormai concentrati su come trarre il massimo piacere dalla Charpillon, su come suscitarsi nelle carni quell'estasi che con gli anni sembrava essersi fatta sempre più inafferrabile. Da un cassetto del comodino cavò la fida copia delle Posizioni dell'Aretino, sgualcita per gli anni e i viaggi, con le illustrazioni di Giulio Romano e le copiose note a margine vergate dal pugno stesso di Casanova. Poi, sistematosi accanto alla finestra, con la lampada in una mano e il libro nell'altra, selezionò e ripassò mentalmente le sue predilette d'un tempo. "L'assedio di Troia", "La scimmia sul dorso del leone", "Le miniere di Re Salomone", "Tutto esaurito", "Il diamante nel pozzo". Come entrée optò per "La danza dei cigni", magari in combinazione, per amor di virtuosismo, con "Le mura di Gerico" o "Due entrano, uno esce", o persino - in fondo la fanciulla era giovane e in perfetta forma fisica - "Ulisse gabba i Ciclopi".

Ripose il libro nel cassetto e si mise in cerca dei "Pastrani di Londra", ovverosia guaine in budello d'agnello di prima qualità, essiccate e lubrificate, le ultime che gli restavano di una partita che aveva acquistato a Marsiglia per tre franchi l'una. Non v'era dubbio che temperassero di molto il piacere dell'uomo e che, nel calore dell'atto, liberassero un fastidioso lezzo di agnello arrosto; ma dopo la Renaud - cos'era stata, la sua sesta infezione? O la settima? - aveva giurato che in futuro avrebbe fatto più attenzione. Un altro attacco come l'ultimo, e rischiava di lasciarci la pelle. Né aveva voglia di una seconda Sophie, per quanto affetto nutrisse nei confronti della prima. Pensando alla figlia provò un'oscura vergogna, come se fosse li in un angolo della stanza a guardarlo, coi suoi grandi occhi ancora colmi di innocenza eppure già adusi al mondo, alla vanamente dissimulata corruzione degli adulti; cos'avrebbe pensato di lui, del suo papà agghindato come una bambola e intento a frugare nel cassetto in cerca di... Ah, eccoli. Infilò due degli involucri nella tasca del giustacuore, spense con un soffio la lampada e usci dalla stanza. Era troppo presto per andare dalle Augspurgher. Avrebbe passeggiato per un'oretta nel parco. No: non si poteva pretendere che una bambina capisse.

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Pagina 120

Una risata muta e sfinita gli intiepidì il petto. Porco Zio, che giorni favolosi! Poi, da Serravalle, aveva spinto la propria giovane ombra fino a Roma, fino alla pantofola del Papa e alle scarpette seriche di Lucrezia e della sorella Angelica; fino al Cardinal Colonna, che lo aveva ingaggiato per scrivere lettere d'amore; e fino ai pergolati di Tivoli e di Frascati, dove sicuramente qualche sua versione parallela stava ancora passeggiando con una ragazza e mangiando cocomero fino a rendersi la bocca rossa e dolce come quella di un bimbo.

Avrebbe dovuto restarsene a Roma? Era stato quello il suo sbaglio? Che belli, i giorni passati a Roma! Che bella quella luce, e che bello l'odore del potere - identico a quello di una sgualdrina assai costosa. Ma augurarsi che quei momenti tornassero era vano come augurarsi che il tempo tornasse su se stesso, era come l'abbaiare d'un cane alla porta del passato.

Goudar aveva detto bene, sicuro (e che un mostro marino gli succhiasse via il cervello dal naso!): con la loro astuzia e con le loro buone gambe, e soprattutto con la loro voglia di entrare in stanze da cui altri rifuggivano, essi erano - erano stati - creature molto simili. Casanova aveva sempre sospettato che Goudar non avesse genitori, che fosse stato generato spontaneamente dall'aria rancida di qualche camera di locanda a ore. Ed egli stesso aveva origini dubbie: una specie di madre, e, quanto al padre, avrebbe potuto essere tanto il Diavolo quanto il Doge, o magari un semplice mangiamarroni che avesse bazzicato i teatri dove Zanetta ballava. E così, sprovvisti di quelle genealogie che dicono a un uomo cosa egli sia e cosa debba essere, erano stati costretti a inventare se stessi. Nel caso di Goudar l'esperimento era stato, a voler essere generosi, un successo assai parziale - corpo d'uomo e testa di ratto -, ma nel suo caso, ah!, aveva funzionato fin troppo bene. Egli era stato esattamente ciò che occorreva al mondo degli abiti in seta: un uomo estremamente compiacente e dotato di una brillante intelligenza, il quale, come i canali di Venezia, era tanto più affascinante quanto più intenso era il barbaglio della sua corruzione e della sua perversione. Benissimo. Per anni era stato distratto dai suoi successi, dall'applauso del mondo, ma ora...

Qualcosa gli stava frugando nella pelle di una coscia. Non ci badò; era una sensazione remota, e comunque i parassiti, come gli uomini, di tanto in tanto si possono pure tollerare. Domattina, pensò, lui e Jarba avrebbero potuto ripulire la camera, e cercare nuova paglia per i materassi. Magari anche qualche quadretto alle pareti? Una nuova vita. Jack Newhouse. Uomo del popolo.

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Pagina 124

L'idea dello sciopero gli era venuta il sesto giorno, alla terza ora di maglio.

"ISSA!"

Idem le prime perplessità riguardo ai compagni di fatica (Quei figli di puttana stanno facendo la loro parte di sforzo? Sì? E allora come mai si sentiva come se stesse impegnandosi per due? Per mezza dozzina?).

Casanova era inquieto. Gli seccava che Jarba continuasse a guardarlo in quel modo. Non era atteggiamento degno di un valletto.

Domenica riposarono, vissero. I manovali, che ricevevano la paga al sabato sera in taverna - poiché il caposquadra era in combutta con l'oste - si alzarono a fatica dai giacigli, rintontiti dalle bevute della notte, e si avviarono al banco dei pegni per riscattare gli abiti della festa. Poi, i maschi in camicie ereditate da padri defunti o da defuntissimi nonni, d'un lino lavato, e amorevolmente rammendato fino a raggiungere la fragile luminosità di una sacra reliquia, e le donne in cuffie di paglia che era stata erba nei prati di Wicklow o Connemara ai tempi della Regina Anna, sciamarono a decine lungo le arterie settentrionali della città - Goswell Street, Bishopgate, Brick Lane - chi per amoreggiare tra le pile di mattoni, chi per assistere a combattimenti di cani, chi per ubriacarsi e poi scambiarsi qualche allegra randellata in testa.

Casanova si recò con Jarba e Kasper alla Dolly's Famous Steak House di Paternoster Row. Lì - facce lustre per la gelida acqua rugginosa della pompa dove s'erano lavati - ordinarono già sulla soglia tre grosse bistecche fumanti con salsa di cipolla e patate imburrate, e tre bottiglie del più sanguigno vino della casa; ma Dolly, pettoruta e imponente come nuvola di burrasca, non li lasciò entrare - non con quella loro polvere di ponte, con quei loro pidocchi di locanda. Se ne andarono, con la massima altezzosità consentitagli dalle loro misere tenute, e fecero provviste in una pasticceria di Fleet Street, dove evitarono per un soffio il grande lessicografo, il quale, giusto in quel momento, prorompeva dalla Mitre Tavern assorto in un'animata conversazione col suo amico scozzese. Per un istante, Johnson guardò dritto negli occhi Casanova e, senza smettere di parlare, parve soccombere a un momento di confusione, ma poi ruzzolò via nella strada, sottobraccio al suo protégé, tra un drappello della milizia e la carretta di un garzone di beccaio.

A Moorfields, l'aria aveva il profumo della legna che ardeva in decine di falò. Seduto sotto un albero in prossimità del manicomio di Bethlem, Casanova finì di spiegare il proprio piano. L'austriaco annuì tutto eccitato, con la bocca piena di dolce alla cannella. Sapeva perfettamente cosa occorresse: nomi in codice, opuscoli, parole d'ordine, inchiostro invisibile..

"Un momento, amico. Dobbiamo comportarci come persone ragionevoli," lo interruppe il Cavaliere.

"Certamente," disse Kasper, spartendo l'ultima torta alla crema in tre porzioni diseguali, e ficcandosene due in bocca. "Ci comporteremo educatamente. Con gli inglesi funziona sempre."

Tra le ombre ingrandite dal sole declinante, nell'ora in cui per trovare un po' di calore occorreva soffiarsi sui polpastrelli, vagliarono le richieste da fare, e a mano a mano le annotarono con un tizzone sul verso della carta della pasticceria. Al crepuscolo, i punti sul pezzo di carta erano nove.

l. Non più di quattro ore al giorno di lavoro alle funi.

2. Risarcimento per gli infortuni sul lavoro.

3 . Nove scellini alla settimana per tutti i manovali adulti.

4. Decorosa sepoltura di morti.

5. Medicinali per chi si ammalasse sul lavoro.

6. Un bicchiere di birra o (su insistenza di Casanova) di vino durante l'intervallo del mattino.

7. Niente percosse ai manovali.

8. Mansioni idonee per i bambini sotto i sette anni.

9. Nessun operaio cacciato senza valide ragioni.

Non riuscivano a trovasse un decimo.

"Ma perché debbono per forza essere dieci?" chiese Casanova. "Le istanze più urgenti le abbiamo previste, che altro ci serve?"

"Dieci," rispose l'austriaco, "è preferibfle. Altrimenti sembrerà che non siamo riusciti a pensare a un decimo punto. Ci renderemo ridicoli. Tu che ne pensi, Jarba? Chiedo a te perché tu, più di noi, vedi con gli occhi dell'oppresso."

"Signore," disse Jarba, sedutosi in disparte a contemplare il manicomio acceso dagli ultimi raggi di sole, "nel vostro piano non c'è abbastanza sangue. Se prevedeste di tagliare la gola al caposquadra, o di impiccare l'architetto al suo amato ponte... Comunque, visto che volete il mio parere, lasciate che vi dica che l'unico risultato di queste richieste sarà quello di farci frustare a sangue e gettare nel fiume."

Gli altri due lo guardarono sbalorditi. "Non riesco a immaginare da dove ti vengano certe idee," disse il Cavaliere. "Comunque ci hai fornito la decima richiesta."

Staccò dalla carta una scaglia di torta alla crema, e scrisse:

10. Nessun operaio dovrà patire conseguenze per aver portato all'attenzione della Compagnia questi problemi.

"Senza dubbio," disse Jarba, "bisognerà fare qualche comizio."

"Giusto," disse Casanova, "bisognerà fare dei comizi."

"E parecchi," disse Kasper, stringendo le ginocchia e sorridendo ai camerati cospiratori. "Il popolo li pretende."

Quella sera, Casanova diede a Rosie un dolce con l'uvetta di Corinto. Erano fermi all'angolo tra White Chapel e Angel Alley, scrutati da un garbatamente incalzante uditorio di cani e mendicanti. Rosie, il cui alito aveva un leggero sentore di gin, prese in mano il dolce e lo esaminò alla luce dell'unico fanale della zona. Lo annusò, poi guardò con occhi lustri il Cavaliere. Questi le prese il dolce dalle mani, delicatamente, ne staccò un pezzetto e glielo mise in bocca, sfiorandole coi polpastrelli le labbra, poi i denti. Era la cosa più tenera, la cosa più autenticamente lasciva che facesse da anni.

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Pagina 154

Lì, tra le curve e le serpentine delle siepi di carpine, l'immobilità del pomeriggio era ancor più intensa. La Charpillon lo prese per mano e lo guidò: a sinistra, poi a destra, quindi a sinistra, ancora a sinistra, a destra... Il Cavaliere non riusciva a decidere come distribuire le parti. A lui toccava quella di Teseo o quella del Minotauro? A mano a mano che si addentravano nel labirinto cominciò a rendersi conto di non essere nessuno dei due, bensì e semplicemente un uomo condotto da una donna verso il verde cuore di un giardino.

Al centro del labirinto si sedettero su uno scampolo di suolo tiepido, su un triangolo illuminato dal sole. Non parlavano da parecchi minuti, e tra loro il silenzio era diventato una specie di patto, che li avvinceva. Casanova si inginocchiò accanto a lei e pose le labbra sul rossore della sua guancia. La Charpillon non si ritrasse, né lo fece quando, con somma delicatezza, Casanova la distese sulla schiena e le baciò le labbra, dapprima leggermente come se ella dormisse ed egli temesse di destarla, poi con sempre maggior trasporto, fino a fugare ogni scrupolo sociale e ogni pretesa stilistica e a ritrovarsi a baciarla come talvolta capita di bere, con la bottiglia stretta tra le mani quasi a spremerne non un gusto o un sapore bensì e soltanto la salvezza dall'arsura della sete.

Sotto di lui la Charpillon fremeva, sospirava, esalava quei gemiti di splendido dolore, quelle note d'estasi consensuale che fanno turbinare la mente dell'amante. Le sue gonne e sottane si erano raccolte fin sopra le cosce, crepitante tripudio di sete e lino fragrante, finché - O consolazione! - l'occhio paradossale che tanto più piange quanto più gode non fu celato da nulla di più spesso della foschia del crepuscolo.

Casanova si portò una mano alle brache. Avrebbe voluto strapparle via come se fossero di carta velina, ma quando cominciò ad armeggiare con i bottoni qualcosa andò storto, un attimo di negligenza nei confronti della sottostante temperie carnale, e, con un breve rantolo di sgomento, il Cavaliere fu preda di quell'accidente che si giustifica soltanto nei principianti. Un tipo di svista che non l'aveva mai turbato quando non avesse da perdere che il prezzo di una buona cena o un po' d'orgoglio. Adesso, invece, assurgeva ad autentico disastro.

Sperando che la Charpillon non se ne fosse accorta, egli seguitò sempre più disperatamente coprendola di baci e mordicchiandola qua e là, ma non passò molto prima che la fanciulla si avvedesse dell'infortunio e, tacendo, si mettesse a sedere. Non rise, come egli aveva temuto facesse. Si sistemò le volute dell'acconciatura, si rassettò gonne e sottane, e, delicatamente, lo ignorò. Casanova la pregò di perdonarlo. Di solito... in genere... novantanove volte su cento... Non era, in fondo, interpretabile come un tributo alla sua bellezza? Se avesse avuto la compiacenza di accordargli pochi istanti di pazienza, tutto si sarebbe sistemato per il meglio. E in effetti, per un supremo atto di volontà, egli stava già recuperando la propria gagliardia, e anzi gliela volle manifestare subito, spogliandosi bruscamente e a costo d'un paio di bottoni dorati e di svariate cuciture.

"Credo," disse la Charpillon dopo una fugacissima occhiata, "che sia meglio raggiungere gli altri."

Casanova la guardò con tanto d'occhi e a bocca aperta. Se fosse stata più lesta sarebbe riuscita a sfuggirgli, ma per sua disgrazia indugiò, e, mentre si alzava in piedi, il Cavaliere la afferrò per un braccio e la gettò daccapo a terra.

"Non mi piace il vostro modo di guardarmi, monsieur," disse la Charpillon. "Non ritenete che per un solo giorno abbiamo già fatto abbastanza?"

Continuando a tenerla con una mano, Casanova infilò l'altra nella tasca della giubba e la cavò stretta intorno al suo piccolo gggiusta-tutto veneziano; estratta coi denti la lama, la avvicinò al collo della Charpillon. Le lambì la pelle, e con la punta le cavò dalla gola una stilla di sangue. Poi, spinto da qualche oscura ispirazione scaturita dai sotterranei di sé, allontanò la lama dalla sua gola e la premette contro la propria.

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Pagina 166

Pattison sorrise. Il suo viso era giovane, oltraggiato da stenti e malattie ma ancora dotato di tratti d'una sensibilità estrema, come pronto a trasalire per il battito d'ali di una farfalla. Era un viso che non avrebbe mai visto i quarant'anni. "Come ben sapete, Mr. Johnson," disse Pattison con parole serrate tra rantoli asmatici, "il mio è un caso quasi disperato. Ci sono giorni in cui mi vergogno di guardare negli occhi mia moglie. Vi chiederete come faccia la poverina a sopportare me e la miseria in cui la costringo, ma posso garantirvi che ella comprende la mia necessità di seguire la musa, così come sa che per me la poesia è la vita e sarà la morte."

"Quando Pattison giunse in città," intervenne Johnson, "aveva con sé due o tre poemi d'una bellezza tale che gli consenti di promuovere immediatamente una sottoscrizione per un volume antologico..."

"Volume che," interruppe il poeta, dopo aver svuotato il boccale e guardandosi attorno in cerca del garzone, "non ho mai completato. Io scrivo lentamente. Al massimo riesco a comporre uno o due versi al mese."

"Ben poca poesia, per camparci una famiglia," disse Casanova.

"Quando il mio amico parla di scrivere lentamente," disse Johnson, "si riferisce solo ai versi riusciti."

"Mr. Johnson ha ragione. Se si trattasse, chessò, di satire su una dama ingravidata dallo staffiere, o di ballate su qualche povero diavolo impiccato a Tyburn, allora saprei comporre a una velocità sbalorditiva. Un tempo riuscivo a mantenermi dignitosamente tenendo dietro alla salute di dame sposate a gentiluomini ricchi e generosi. Se la dama si ammalava attendevo di vedere che china prendesse il suo fato. Se guariva, scrivevo un'ode di ringraziamento, che talvolta mi fruttava anche una ghinea. Se invece la poverina soccombeva, scrivevo un'elegia. Ricordo che una volta guadagnai addirittura cinque sterline, per una dama morta di parto: ma li l'elegia era doppia, perché comprendeva anche il figlio. Oggigiorno c'è un sacco di rivalità, e, come se non bastasse, è invalsa la credenza che avere un poeta davanti alla porta sia segno di malaugurio, come se fossimo cornacchie..."

"Per parte mia," disse Johnson, a metà del terzo giro di birra, "il solo pensiero di sedermi alla scrivania e avvicinare la penna al foglio mi fa sentire come se avessi mangiato ostriche guaste. Sicché passo metà mattinata a guardare i piccioni sul tetto del vicino, o a parlare con Miss Williams, e, quando finalmente mi decido a sedermi e scarabocchio qualcosa sulla pagina, è come inzuppare le dita nell'acqua bollente. Smetto, faccio la punta alla penna, mi metto a leggere qualche libro che la notte prima ho lasciato aperto sulla scrivania. Mi dico che mi basterebbe scrivere un paio di righe, anche soltanto una parola, ma poi, quando comincio, scopro che l'inchiostro è troppo diluito o troppo denso, sicché devo daccapo interrompermi e farne dell'altro oppure mandare Francis a comprarne una boccetta da Darley's. Alla fine, tuttavia, riesco a spremere dalla penna quella parola famosa, e, per non lasciarla sola, ne aggiungo un'altra. Due parole che, quando trovo il coraggio di spiarle, mi paiono due dromedari in viaggio in una desolata distesa di sabbia bianca. Il che andrebbe anche bene, se non fosse che uno dei due ha l'andatura talmente zoppa che sono costretto a tirarci su un bel frego d'inchiostro."

"Oddio," disse Pattison, sfregandosi le mani con gran diletto, "e adesso vi ritrovate con nient'altro che una parola, e una parola sola soletta è ben misera cosa."

"Lo è davvero, signore, e quindi tuffo la punta della mia penna nell'inchiostro come se fosse il nero cuore del demone che mi costringe a quel tormento. Sento l'improvviso desiderio di bere un sorso l'inchiostro e spruzzarlo sulla pagina. La mano che impugna la penna trema con una violenza tale che la terza parola vien fuori con una foggia che potrebbe farla somigliare a qualunque cosa, specialmente a un ragno schiacciato. Guardo quello sgorbio e mi passo una mano sul collo - e così facendo macchio il colletto che ho fatto lavare appena un mese prima. Spero che qualcuno bussi alla porta di casa, o che i mocciosi in cortile armino un baccano tale da giustificare il mio precipitarmi dabbasso per cacciarli via - e se i messi del tribunale venissero ad arrestarmi per qualche vecchio debito proverei più sollievo che sgomento. Ma purtroppo non succede niente di tutto ciò."

"Sbaglio se dico che il passaggio successivo vi vede cader vittima di Morfeo?" domandò il poeta.

"Altroché, dite benissimo. Un sonno tanto repentino quanto profondo, con il foglio bianco a far da cuscino alla fronte. Poi, quando rintocca l'ora e io apro gli occhi, vedo il mio lavoro di un'intera mattinata, ossia una parola quasi leggibile e una che potrebbe esser scritta in uzbeco o in cherokee. A quel punto mi prende l'estro di scrivere altre parole nella stessa lingua immaginaria, e ne scampo soltanto preparandomi un po' di tè e prendendo dalla dispensa qualcosa di dolce da mangiare. Fatto lo spuntino, ricomincia la penosa trafila, finché arriva il garzone dell'editore con l'ordine di non tornare indietro se prima non gli ho consegnato il manoscritto promesso..."

"E dunque?" chiese Casanova, sconcertato da un ritratto tanto meschino e prosaico.

"E dunque," riprese Johnson, "offro al garzone un pezzo di dolce, prendo un nuovo foglio di carta e scrivo di buona lena per circa un'ora, fino a ultimare il lavoro. Ecco, monsieur, in cosa consiste la nostra professione."

Quando tornarono alla vetreria erano le prime ore del giorno di Natale. Sottobraccio a Johnson e Casanova, il poeta, che a contrastare gli effetti di tanta birra aveva solo i piselli, barcollava ancheggiando come una meretrice ebbra, ruttando e cantando in greco antico, con le scarpe rotte che sbadigliavano a mo' di ippopotami. Johnson mostrò a Casanova come scavare per trovare ceneri più calde, e, prendendone a manciate, manciate che parevano di piume e di petali grigi, il lessicografo e il Cavaliere ricoprirono il corpo fremente del poeta fino a lasciarne affiorare solo il viso, appena visibile, pallido e accidentato come un piatto sbreccato.

"Addio, Pattison."

"Buon Natale, signori. Badate a dove mettete i piedi, ora che ve ne andate. Queste ceneri sono abitate da decine di giovani di genio."

"Faremo attenzione. Buonanotte."

"Che Dio vi benedica, Mr. Johnson. E adesso tacerò, altrimenti rischio di riempirmi di cenere la bocca."

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Pagina 172

[...] Bofonchiato l'ultimo amen, Johnson soffiò sulla candela. C'era ancora un po' di luce, che proveniva dalle braci del camino; e i due uomini, infilati sotto le coperte, cominciarono a parlare: dapprima, e brevemente, di politica, poi, ben più a lungo, di donne. Johnson parlò della moglie, che, confessò, non era mai stata una gran bellezza, e che negli ultimi anni, dopo aver sopportato con lui gli oltraggi della sua misera esistenza di scrittore - "Ne avete avuto prova stasera, monsieur" - si era rinchiusa in se stessa, aprendosi solo all'alcool e alle letture romantiche.

"La amavo male, monsieur. Non riuscii mai a trasformarmi nel tipo d'uomo che una moglie è lieta di accogliere sulla soglia di casa. Oggi provo vergogna pensando a che atroce marito io sia stato per quella povera donna. Ero goffo e distratto, incapace di quelle premure che le donne sembrano amare tanto. La verità è che alle donne non ho mai saputo dire altro da ciò che avrei detto a un uomo. Voi, invece, monsieur, sembrate aver approfondito lo studio di questo argomento. Ditemi, dunque, qual è il modo più efficace per guadagnarsi l'interesse di una donna?"

Casanova fece un lungo sospiro. Ormai vedeva il proprio successo con le donne come qualcosa di misterioso, lo vedeva frutto non tanto di studio quanto di una strana sorta di ingenuità. Non gli era mai capitato - sicuramente non in gioventù - di riflettere su cosa fosse meglio fare: si era limitato a farlo, senza riflettere, come quando si prende una mela da un paniere. Ovviamente c'erano stati innumerevoli espedienti: la cantaride, i narcotici, le foglie di cacao, e poi l'allegria, quasi sempre foriera di successo, e quella certa impertinenza senza la quale in amore non si ottiene nulla. Ripercorse la propria storia galante: sulla piazza d'armi del passato le sue conquiste sfilavano in ranghi policromi, ma la loro dovizia lo irrideva, testimoniando non tanto la sua virilità, la sua avvenenza, la sua tecnica infallibile, quanto una specie di parziale cecità. Meglio sarebbe stato ricordare solo due o tre donne, ma amate sinceramente. Il suo successo era anche il suo fallimento. Il filologo, invece, col suo ricordo di una moglie insignificante e di una passione maldestra, aveva una miglior storia da raccontare.

"Monsieur," disse Casanova, avendo riflettuto sull'argomento e tentato di distillare dalla propria esperienza un bicchiere di tersa saggezza, "è un po' come dice il vecchio adagio: 'Quello che va bene per Fatima andrà male per sua sorella.'"

"Dunque," disse Johnson, "l'arte starebbe nel capire con quale delle due si stia parlando?"

"Esatto," disse Casanova, sorridendo intimamente per l'insensatezza della conclusione; e poi continuarono, parlando quasi tra sé e sé, presi in una sognante e fluida conversazione fatta di parole pressoché impossibili da distinguere dalle arrotondate vocali della pioggia - finché l'influsso dello sciropposo toccasana delle Augspurgher la interruppe. Qualcosa di spesso atterrò sul letto, si mosse, e infine si accoccolò sui piedi di Casanova.

"È Hodge," disse l'uomo d'ombra. "Avete mai visto un gatto ridere? Una volta vidi un cane... "

Ma Casanova si era fatto più vicino al paterno tepore dell'uomo che gli stava accanto, e, con la mente sciolta dal medicinale, dalla stanchezza, dalla musica della pioggia, stava già sentendo se stesso che, come in lontananza, cominciava a russare.

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"Respirate, signore!"

Casanova respirò. Fu come uno schianto nell'aria, come la mezzanotte di mezz'inverno. Finette si destò e levò gli occhi su di lui, il suo dio misterioso. Quando Casanova ebbe finito di tossire allungò una mano verso la bestiola, la grattò dietro le orecchie, la rincuorò. "Non ancora," ansimò. Tranquillizzata, Finette sprofondò nell'estasi comoda degli animali, tra mondo della veglia e mondo del sonno.

"È così la morte?" chiese Casanova alla visitatrice, che sembrava avesse avvicinato la sedia alla sua. "Un giorno ci si dimentica di respirare, di dire al cuore di battere, al sangue di scorrere?"

"Lo è solo per metà, signore, giacché se la morte è un dimenticare è anche un ricordare."

Il Cavaliere fece un cenno col capo, come per inchinarsi a quanto la donna aveva detto, e riprese il racconto. Cos'altro c'era?

"Fu la grande inondazione del 1764, signora. Non ve ne fu mai alcuna più grande, né prima né dopo. Fu frutto di venti e di maree, e di umore di luna. Penserete che io esageri, ma sulla memoria di mio padre posso giurarvi che la piena sommerse del tutto le zone basse della città. Dal pelo dell'acqua emergevano soltanto i tetti e le guglie delle chiese. Non so quanti vi abbiano perduto la vita. Centinaia... forse migliaia. Per lo più povera gente, giacché, com'è risaputo, i ricchi galleggiano meglio dei poveri. A Pall Mall il fiume scorreva a un palmo dalla finestra di camera mia. Per giorni e giorni, dal mio letto - dove Jarba, strappatomi ai gorghi con un'ultima scintilla di vita ancora in me, mi aveva confinato per farmi riprendere le forze - vidi i morti andare alla deriva come ripugnanti ninfee, i maschi a faccia in su e le femmine a faccia in giù, proprio come scrive Plinio. E a patire non fu soltanto la popolazione umana. A quella lugubre processione partecipavano anche cavalli e cani e mucche, gonfie carogne cariche di stuoli di corvi necrofagi. Terribile spettacolo, e ancor più terribile puzzo! Ma quello inglese è un popolo pieno di risorse, e, come il mio, ha confidenza con l'acqua. Con le reti la gente di Londra pescava i morti e poi li trasportava all'asciutto sulle poche alture rimaste fuori dall'acqua e divenute isole cimiteriali, come da noi San Michele. Cessò la pioggia. Tornò il sole. Sulla chiatta reale, il re e la regina attraversarono la città per rincuorare la gente. E, sebbene molti morissero di fame, il popolo dei tetti si affacciò al loro passaggio e li salutò. Già, proprio così, signora: la catastrofe stava diventando una festa. I barcaioli portavano in giro la gente lì dove un tempo c'erano stati carrozze e selciato. I bambini si tuffavano in acqua dai comignoli. Pensate, signora, che un giorno vidi ormeggiata accanto all'opera una fregata della marina di Sua Maestà..."

"E nonostante aveste ucciso la vostra torturatrice riusciste a godervi questa inattesa epifania della vostra città natale?"

"Non l'avevo uccisa. Forse l'avevo addirittura salvata. In quei giorni la vidi in barca sul parco, con le vecchie e il Cavalier Goudar, viva e vegeta benché assai pallida e smorta."

"Quella fanciulla aveva più vite di un gatto."

"Quel che è certo è che ogni volta riusciva a beffare la morte."

"Ogni volta tranne l'ultima, signore. Ma ditemi, quando la vedeste provaste sollievo? Vi eravate finalmente liberato della vostra infatuazione, immagino."

"Signora, mi sarebbe difficile descrivervi ciò che provai quando la vidi. Certo, sotto l'acqua della rotonda avevo rinunciato a lei. Non bramavo più di diventarne l'amante, né ero ancora geloso del suo parrucchiere. Tutti i miei tentativi erano falliti: come quelli di far mia la Charpillon così quelli di - di cosa? - di rinnovarmi, di ribellarmi alla parte che la vita mi aveva assegnato, di ribellarmi a Dio. Nell'inondazione avevo altresì perduto la maggior parte delle mie ricchezze, come tanti altri avevano perduto le proprie. No. Quando tornai in me cominciai a cucinare. Un piatto molto particolare, che gli uomini saggi amano servire freddo. Sono certo che ne avrete sentito parlare, signora..."

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