Copertina
Autore Andrew Miller
Titolo Ossigeno
EdizioneBompiani, Milano, 2002, Narratori stranieri , pag. 294, dim. 150x210x20 mm , Isbn 978-88-452-5321-8
OriginaleOxygen
EdizioneHodder and Stoughton, London, 2001
TraduttoreAlberto Pezzotta
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa inglese , biografie
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Pagina 11 [ inizio libro ]

L'Acchiappasogni, un oggetto fabbricato nelle riserve dei nativi americani e venduto per pochi soldi nei negozi di souvenir, era un cerchio grande quanto il palmo di una mano, fatto di legno flessibile legato con una striscia di pelle. All'interno si intrecciava una ragnatela di fili di plastica e al centro, come un ragno, spiccava una pietra verde. Larry Valentine ne aveva comprato uno per sua figlia Ella alla Tana Indiana Carne d'Orso, mentre girava nel North Carolina quello che risultò essere uno dei suoi ultimi episodi di Sun Valley General Hospital. Adesso era appeso alla finestra della camera da letto di Ella dove, secondo il foglietto esplicativo, avrebbe catturato i brutti sogni tra le sue maglie, mentre quelli belli - a base di mattine di sole, gite sulla spiaggia di Muir, dottori gentili e padri amorevoli - avrebbero raggiunto il letto della dormiente. Larry la guardò, sentendosi smisurato in quella stanza piena di cose piccine. Era estate, ed Ella si era rigirata sotto il lenzuolo di cotone; la bocca era dischiusa, e inspirava con un sibilo. Aveva ciocche di capelli sparse sulla faccia, e stringeva gli occhi come se il sonno richiedesse la stessa concentrazione che metteva nel colorare un disegno senza uscire dai contorni, o nel fare le addizioni con una scomoda matita.

Cominciò la ricerca senza grandi speranze, anche se la sua media di ritrovamenti era sempre superiore a quella di Kirsty; cosa che a lei scocciava non poco, perché in un certo senso era come dover ammettere che lui conoscesse meglio la loro figlia, che avesse intuizioni a lei negate. Cominciò con i jeans che Ella aveva indossato il pomeriggio: ma dalla tasche rovesciate uscirono solo brandelli di fazzoletti di carta, una monetina, una caramella a forma di orsetto. La mossa successiva fu svitare la testa di una bambola paffuta, di quelle che a stringerle si lamentavano che avevano fame o se l'erano fatta addosso, o dicevano "Ti voglio bene". Una volta Ella aveva nascosto lì dentro la catenina d'argento, ricordo del vecchio continente che nonna Frieberg aveva lasciato a Kirsty; ma adesso era vuota, a parte qualche residuo di colla appiccicoso e dall'odore vagamente tossico all'interno del cranio. Al che passò in rassegna la collezione di conchiglie, scuotendole a una a una nella speranza di sentire un tintinnio rivelatore. Invano. Il carillon che le aveva comprato a Londra era già stato usato come nascondiglio, tanto più astuto in quanto non poteva essere ispezionato senza far scattare la musichetta. Sollevò il coperchio e capovolse la scatola, ma a parte una manciata di note acute come spilli (quelle di Orange And Lemons), in mano non gli cadde nulla. Aprì i cassetti del mobile e tastò le pile ordinate di mutandine e magliette, i calzini e le calzamaglie appallottolate; e per finire staccò la facciata dalla casa delle bambole, usando la lucetta del suo portachiavi per controllare sotto i letti grandi come carte di credito e il tavolo da pranzo filiforme: una volta vi aveva trovato i suoi gemelli, ma al momento c'era solo una famiglia di legno dagli abiti di feltro, mamma, papà e due bambini impalati, seduti davanti a un prosciutto di ceramica come in preda a un incantesimo.

Indietreggiò verso la finestra, si massaggiò il collo indolenzito, e attraverso l'intreccio dell'Acchiappasogni guardò le luci della baia. Non c'era dubbio, da questo punto di vista sua figlia stava migliorando. All'inizio non aveva afferrato la logica di false piste propria di una caccia al tesoro. Ma poi i suoi nascondigli erano diventati sempre più sofisticati, ostentando al tempo stesso quell'elemento di sfida che, secondo il professor Hoffmann, dimostrava l'intenzione che l'oggetto "preso in prestito" venisse sempre trovato. Non si trattava di semplici furtarelli o di cleptomania infantile. Hoffmann non aveva deciso la diagnosi. Stava ancora raccogliendo i dati.

La sentì girarsi sotto il lenzuolo, e sussurrò: "Sei sveglia, El?"

Si avvicinò quatto quatto al letto e la esaminò, come se il suo involucro fisico fosse un indizio: un geroglifico caldo e immerso nell'ombra. Adesso Ella era sul fianco sinistro, col braccio destro che sporgeva dal bordo del letto, dove Rosa, la più che paziente donna di servizio di Chihuahua, aveva allineato buffamente le scarpette, a seconda dell'uso stagionale. Larry si fermò, considerò la fila e si accovacciò, con le ginocchia che scricchiolavano per i vecchi problemi di cartilagini, eredità di anni di salti e corse sulla terra rossa. Ignorò i sandali estivi e cominciò con le scarpe da ginnastica, per proseguire con quelle per andare a scuola e gli stivali di gomma rosso fiammanti che Kirsty si ostinava a chiamare "galosce". Per ultimi venivano gli stivali foderati di agnello che Alice, con la testa ancora agli inverni inglesi, aveva spedito a Ella per il suo sesto compleanno, ma che già ai primi freddi le erano diventati stretti. Li rovesciò, li scosse, infilò un dito all'interno. Sulla punta dello stivale sinistro toccò qualcosa di liscio, grosso come una capsula di Deroxat; usando le dita a mo' di pinza, lo districò dalla lana e lo resse contro la finestra, anche se aveva già capito: era uno dei due orecchini che Kirsty aveva lasciato incustoditi per un'ora sul ripiano del lavandino.

Già si immaginava il discorsetto di cauto rimprovero che avrebbe dovuto farle, come era successo tante volte, da quando il primo anello era scomparso un anno e mezzo prima; Ella appollaiata sulla sedia, a dondolare i piedi sopra il tappeto, con una vaghissima traccia di insolenza negli occhi, come se i suoi genitori, incapaci di comprendere lo scopo segreto del gioco, meritassero il suo disprezzo infantile. Hoffmann, centocinquanta dollari l'ora, aveva raccomandato a Larry e a Kirsty di evitare ogni elemento traumatico in queste discussioni. "Bisogna essere delicati," li aveva ammoniti, sorridendo dietro un'ampia scrivania di legno lucido. "È come potare un bonsai." E aveva fatto un cenno alla sua collezione di minuscoli salici mutanti, che doveva prosperare nel microclima ovattato del suo studio.

Sull'orologio accanto al letto, la mano guantata di Topolino scattò sull'ora. Le due del mattino. In Inghilterra erano già le dieci. Ma malgrado l'avesse promesso, era troppo stanco per telefonare ad Alec, troppo indifeso per sentire i suoi discorsi. Avrebbe chiamato il giorno dopo, magari da Los Angeles. Non sarebbe stato troppo tardi. Prese l'inalatore di Ella e lo agitò per controllare il livello di salbutamolo nel flaconcino. A quanto pare sul mercato c'era un modello nuovo e migliore, con un microchip che misurava l'assunzione del farmaco e un altro aggeggio per controllare la respirazione. Era consigliato dai ricercatori della University of California, e alcuni compagni di Ella l'avevano già.

Larry la guardò per l'ultima volta, prima di passare il resto della notte nella stanza degli ospiti. Pareva essersi raddolcita. Se prima sembrava in qualche modo avere percepito la sua presenza, adesso era persa nel labirinto del sonno, la mente libera, la faccia così immobile e perfetta che per un attimo di terrore Larry ebbe l'impulso di svegliarla, di riportarla nel mondo delle realtà concrete. Si chinò, quasi sfiorandola. E come un orco gentile, uscito da una di quelle fiabe che i bambini non leggevano più, aspirò delicatamente il suo respiro.

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Pagina 106

Karol se ne andò a mezzanotte, dopo avere abbracciato tutti. Franklin e Laurence lo seguirono poco dopo; tutti erano in preda a una dolce malinconia, al pensiero delle gioie che appartenevano a un passato tanto remoto. Kurt e László portarono i piatti in cucina. E mentre Kurt si ritirò in camera da letto, dove prima di dormire praticava degli esercizi di yoga, László tornò in sala da pranzo, dove spense la luce e smorzò due delle candele con i polpastrelli bagnati. Non si sentiva stanco, e si sedette alla luce della candela rimanente. Il Calvados gli aveva dato un po' di bruciore di stomaco, e la discussione sulla felicità aveva innescato una catena di pensieri che doveva portare a una conclusione. Certo, i racconti in sé erano abbastanza banali - un pesce, un barattolo di minestra, la fuga da un ristorante, una partita di calcio -, ma la felicità era un argomento elusivo come l'amore, e che richiedeva pari sottigliezza nel lessico e nell'analisi. Per cominciare, si poteva dividere in due grandi tipi: la felicità di cui si è consapevoli in diretta, e quella che emerge solo a posteriori, come quella dei soldati sulla spiaggia di cui aveva parlato Franklin. Poi c'era la felicità pubblica, come il giorno della vittoria dell'Ungheria, con la gioia che si rifletteva nelle facce di tutti. E la felicità segreta, come quando era innamorato di Péter: quasi un fardello, come se avesse vinto alla lotteria e non potesse dividere la notizia con nessuno. La felicità pura era rara, e nella maggior parte dei casi era prerogativa solo dei bambini, dei tossicodipendenti e dei mistici. Più comune, ma non per questo meno inquietante, era la condizione cui aveva accennato Karol, la felicità intrecciata al suo opposto: il paradosso di guerre e rivoluzioni, quando il cuore produce emozioni sconosciute. Terrore-beatitudine. Dolore-desiderio. Odi teneri e sentimentali. In Ungheria, l'anno in cui erano tornati i russi, tremila persone avevano perso la vita, e molte di più la libertà. Eppure la maggior parte erano orgogliosi degli sforzi e dei sacrifici. Avevano fatto la loro parte: la storia non li aveva colti impreparati. E anche se nulla poteva compensarli della perdita del loro paese e dei loro amici, il ricordo di quei giorni di ottobre e di novembre era come il fondamento di una fede.

Anche se il caso di László era diverso. Come poteva volgersi al passato, se conteneva solo vergogna? Che orgoglio ci poteva essere nel fallimento? No, non voleva ricordare. Voleva dimenticare. Dimenticare per sempre. Eppure ogni anno ci riusciva sempre di meno, e il passato lo travolgeva, anche se mai come era successo l'inverno precedente, quando, con grande riluttanza, aveva preso parte alle celebrazioni del quarantennale a Parigi. Era sempre riuscito a evitare queste rimpatriate, avendo cura di essere sempre fuori città, e spiegando, a chiunque glielo chiedesse, che era allergico alla nostalgia. Ma questa volta gli inviti erano stati così insistenti che la sua assenza avrebbe rischiato di essere presa per un affronto; e Kurt l'aveva accompagnato con la Citroen al Père-Lachaise, dove aveva presenziato alla cerimonia al cenotafio di Imre Nagy, e poi all'hotel della Gare de l'Est dove, in mezzo ai ricevimenti di matrimonio, i veterani affittavano il salone dei banchetti.

László si era trovato circondato da vitali rappresentanti della terza età, uomini e donne, molti con l'aria di affermati professionisti, tutti estremamente rispettabili. Ingrigiti, un po' sovrappeso, vestiti con abiti comprati nei grandi magazzini francesi, erano i combattenti per la libertà che avevano lanciato bottiglie molotov contro i radiatori dei T-34; che avevano sostenuto scontri campali nel passaggio Corvin, in piazza Szena, a Csepel, e che avevano visto amici, colleghi e vicini uccisi dalle schegge di una granata o falciati da un'autoblindo mentre facevano la coda per prendere il pane.

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Pagina 260

Nel gabbiotto della biglietteria, una donna di mezza età stava leggendo una rivista. Si era tolta le scarpe e aveva i piedi appoggiati a uno sgabello. Quando vide László, chiuse il giornale, appoggiò i piedi per terra con un gemito di fatica, e schiacciò l'interruttore di un lettore CD. Un coro maschile eruppe a volume tale da far sobbalzare László. Mentre la donna staccava un biglietto, vide che i CD erano in vendita. Inni sovietici vol. 1. Inni sovietici vol. 2. C'erano numerosi altri gadget dell'era comunista, compresi passaporti come quello che aveva bruciato a Parigi poco dopo il suo arrivo. Chi comprava quella roba? E con quale spirito? Era una forma di ironia? László prese il biglietto e la guida, e passò nel tornello. La musica si interruppe di colpo. Come temeva, era l'unico visitatore.

Il "parco" in realtà era una specie di giardino grande quanto in campo da calcio, ma privo di alberi e fiori. Una rete di sentieri bianchi serpeggiava tra una serie di aiuole, dentro le quali le statue scampate all'allegra furia iconoclasta se ne stavano al sole, come cannoni ormai inoffensivi. Soldati, leader politici, immagini del cittadino ideale, fuse nel bronzo o scolpite nella pietra, con le mani alzate e i corpi protesi verso il futuro. Alcune le riconosceva. Altre erano più recenti. Ma sotto il sole pomeridiano facevano ancora la loro impressione, conservavano un che della loro antica autorità, riflettendo la luce sulle spalle massicce, le baionette, i menti metallici. La cosa strana era vederle tutte assieme, chiuse in un recinto, come se potessero scappare e imporsi nuovamente nelle piazze cittadine. Era stata una buona idea quella di conservarle. Era una forma di umiliazione, come se anche i monumenti potessero essere svergognati, e il loro fallimento andasse mostrato in pubblico. Ma per quanto fossero relitti di un passato remoto e sonoramente sconfitto, camminando tra di essi, László cominciò a sentire un vago disagio, come il superstite di una battaglia navale gettato a riva tra i cadaveri dei nemici, timoroso che qualcuno possa tornare in vita e vendicarsi.

Come da copione, l'incantesimo fu spazzato via dalle risate. Era arrivato un pullman, e il parco venne gioiosamente invaso da un gruppo di studenti di qualche scuola estiva. Francesi, italiani e inglesi, si fotografavano davanti alle statue. Che cosa gliene poteva importare di quei rottami? Il comunismo era una cosa che avevano conosciuto, e forse temuto, i loro padri e i loro nonni. Adesso era solo la pelle di un vecchio lupo, un vecchio orso spelacchiato che chiedeva l'elemosina. Chissà se si stupivano che tanta gente, in passato, ci fosse cascata così facilmente. Che qualcuno potesse essere stato così ingenuo da credere nella collettivizzazione dei mezzi di produzione, nell'abolizione delle classi, nell'equa distribuzione della ricchezza. La loro generazione era più smaliziata, più istruita, eppure, pensò László, anche più infantile. Apprezzava la loro irriverenza - non avevano minacciosi padri baffuti a metterli in riga -, ma che cosa avrebbero fatto con questa libertà? Lo preoccupavano, questi enfants du Paradis. Un paio di loro, che pomiciavano dietro il monumento agli Eroi del Potere del Popolo ("Eterna memoria è dovuta a coloro che sono stati fedeli al Popolo e al Partito..."), lo guardarono scocciati, come se fosse stato uno spazzino o un pervertito. László si affrettò ad allontanarsi.

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