Copertina
Autore Guðrún Eva Mínervudóttir
Titolo Il creatore
EdizioneScritturapura, Asti, 2010, Paprika 25 , pag. 282, cop.fle., dim. 15x21x2 cm , Isbn 978-88-89022-41-2
OriginaleSkaparinn [2008]
TraduttoreSilvia Cosimini
LettoreCristina Lupo, 2012
Classe narrativa islandese
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Pagina 5

I
Venerdì e venerdì sera



Sveinn appese anche l'ultima ad asciugare, infilò il gancio nel collo, da dietro. Per fortuna una volta sistemata la testa il foro del gancio sarebbe stato coperto dai capelli soffici come seta. Sistemò tra le caviglie una bacchetta lunga un metro; era importante farle asciugare con le gambe un po' divaricate, altrimenti sarebbe stato difficile maneggiarle, come vergini angosciate. Ed eccole lì appese, tutte del tipo corporeo numero quattro. Si drizzò, premette la mano umidiccia e dolente sui lombi e ammirò il loro colore, un miele dorato come se avessero vagabondato nude al sole per tutta l'estate, avvolte solo da un impalpabile velo di nuvole. L'amalgama delle tinture era riuscito benissimo e fra sé si rammentò di appuntarsi le proporzioni da qualche parte, prima che i numeri gli si appannassero nella memoria.

Non si considerava un artista, sebbene gli altri talvolta volessero affibbiargli quel titolo ambiguo. Era un artigiano, il più capace nel suo campo, ma non si dava delle arie – dopo tutto, che cos'era l'autocompiacimento, se non il fratello viziato della stasi? Ne faceva volentieri a meno, di tutti e due. Il suo ruolo era quello di fare un lavoro più accurato possibile, plasmare l'illusione di una coscienza umana – incorniciata da riccioli biondi, nero-blu oppure rosso rame, che si irradiasse da occhi azzurri o verdi, che indugiasse appena su labbra semichiuse e rosate – e poi liberare per il mondo le sue belle ragazze nella speranza che facessero la felicità dei loro proprietari.

Si tolse il grembiule cerato, lo appese a un chiodo accanto alla porta, si lavò le mani nel ripostiglio dell'essiccatoio, si mise l'orologio e quando vide che erano le otto passate si rese conto che la fame gli si era annidata nelle viscere, aveva le mandibole irrigidite e le tempie pulsavano in modo intollerabile. Aveva le articolazioni delle dita infiammate e il dolore gli rimbalzava fino ai polsi e ai gomiti. Era sempre la stessa storia, il corpo cominciava a protestare appena allentava la concentrazione.

Si appoggiò allo stipite della porta e cercò di ricordare cosa c'era nel frigorifero. Avrebbe fatto prima ad andare in cucina e fare un inventario, ma era troppo, per lui, in quel momento – doveva lasciar fluire via la fatica prima di fare qualsiasi altra cosa, e allo stesso tempo sapeva che non avrebbe potuto rilassarsi affatto, se prima non mangiava un boccone.

Che cosa c'era in casa? Della carne macinata che presto avrebbe raggiunto la data di scadenza, cipolle, patate, piadine, burro. Qualcos'altro? Formaggio, tonno sott'olio, sottilissime fette di carne d'agnello affumicata, nella loro confezione voluminosa. Non aveva voglia di cucinare – gli sembrava che i coltelli e i mestoli dovessero essere troppo pesanti. Più pesanti dell'acciaio che utilizzava per le articolazioni delle sue ragazze. Più pesanti del piombo. Era una fortuna che i cassetti non collassassero sotto il loro peso.

Avrebbe potuto mangiare le piadine con un caffè, ma lasciare andare a male trecento grammi di carne macinata andava contro i suoi principi. C'erano alcuni ristoranti nella zona, ma non se la sentiva di affrontare altre persone alla fine di un turno lavorativo di svariate giornate ininterrotte.

No, non c'era che una cosa da fare: spostarsi da quello stipite. Anche se la cosa che desiderava di più era portarlo con sé in cucina e appoggiarvi la fronte mentre la carne e le cipolle si doravano in pentola. Un piede di fronte all'altro, era del tutto fattibile. Un problema trascurabile, in confronto a un frigorifero vuoto che lo avrebbe costretto a uscire per comprare qualcosa. O essere al verde e dover prendere in prestito dei soldi prima di andare fare la spesa, come a volte gli era capitato quando studiava, prima che la produzione di bambole prendesse il giro giusto.

Quattro patate medie in una casseruola, un po' d'acqua per coprirle appena; non poté far altro che sorridere quando fu costretto a reggere la pentola con entrambe le mani per spostarla dall'acquaio al fornello. Probabilmente certi turni lavorativi non gli facevano molto bene, dal punto di vista fisico. Quel dolore nelle articolazioni ne era un segno, e oltretutto dal gennaio scorso aveva perso la sensibilità nel mignolo della mano destra, per la compressione di un nervo nel braccio. Due cipolle rosse, una aveva cominciato a germogliare. Prese un coltello pesante dal secondo cassetto e usò la lama per scostare le tende della cucina e fare entrare il pallido sole di maggio. Che luce, per essere le nove di sera; lo accecò per qualche attimo, perciò non fu del tutto sicuro che ci fosse davvero un'auto sul suo vialetto d'accesso, o se invece fosse un abbaglio – una chiazza verde che gli ballava davanti agli occhi mentre si assuefaceva alla luce. Avrebbe condito le patate con burro e sale. Il pensiero del burro lo colpì allo stomaco come un'energica gomitata in un fianco. Sì, era un'auto, una Renault verde brillante, e ne stava uscendo una donna con dei boccoli biondi (Honey-Golden Susie, pensò inconsciamente), forse l'unica cosa che in lei si potesse definire bambolesca.

Che cosa voleva da lui?

Qualsiasi cosa fosse, poteva aspettare finché non avesse mangiato. La carne macinata in padella, la padella sul fuoco. Assaggiò la carne cruda – la fame si acuì. Era concentrato sui suoi sensi, quindi non gli rimaneva molta attenzione da dedicare alla donna che stava curva sopra il cofano aperto dell'auto. Forse aveva intenzione di vendergli qualcosa. O parlargli di Gesù. Ci avrebbe impiegato un attimo, a sbatterle la porta in faccia.

Un cric. Una chiave d'acciaio per svitare i bulloni. Notò solo in quel momento che una delle gomme era completamente a terra.

La donna estrasse con fatica la ruota di scorta dal cofano e la fece rotolare fin davanti all'auto, l'appoggiò contro la griglia e fece un comico tentativo di liberarsi dallo sporco sulle mani scuotendole e sbattendo i palmi l'uno contro l'altro. In gamba, mormorò lui con gli occhi che lacrimavano per le cipolle, vedendo quell'atteggiamento deciso. Sembrava sapere cosa stesse facendo anche se indossava un cappotto di lana bianco come la neve e un paio di scarpe ricercate sui jeans. Via la coppa della ruota in un solo movimento, ecco, su con la chiave, svitare il primo bullone.

L'ultima volta che si era trovato lui stesso in quella situazione aveva cominciato alzando subito l'auto, per poi doverla abbassare di nuovo per poter svitare i bulloni. Non se ne era nemmeno vergognato troppo, l'incidente non aveva intaccato la sua virilità né la sua capacità tecnica; era stato soltanto un attimo di distrazione.

La donna tirò un calcio alla chiave, ma il bullone non cedette. Vi fece pressione con il piede come se fosse il piolo di una scala, si appoggiò con entrambe le mani al tettuccio dell'auto e vi si dondolò su e giù con decisione, ma niente. Provò con il bullone superiore, ma il risultato fu lo stesso, così buttò la chiave sulla ghiaia, appoggiò i gomiti al tettuccio dell'auto e nascose il volto tra le mani.

Lui ebbe la sensazione che sarebbe scoppiata a piangere e riluttante spense il fuoco sotto la carne prima di avanzare a grandi passi verso la porta, appena troppo di fretta perché gli venne un capogiro. Mentre usciva decise di essere cordiale.

È tutto bloccato? chiese, e nonostante la voce fosse più sgarbata di quanto aveva pensato, la donna gli rivolse un sorriso sghembo.

Sì, sospirò e a giudicare dal sospiro e dalle spalle curve, doveva essere stanca almeno quanto lui. Aveva delle rughe a zampa di gallina agli angoli degli occhi, un piega di apprensione costante tra gli occhi e una bocca emotiva, con una fossetta da una parte. Pensavo che non mi fosse andata poi così male, visto che mi era successo davanti a un meccanico, ma vedo che l'officina non c'è più, disse, guardando il prato ben tenuto, senza un filo d'erba secca, perfino più verde che quello delle fattorie dei dintorni.

Si sono trasferiti in un fabbricato più grande sulla strada principale dieci anni fa, disse lui e si chinò a raccogliere la chiave, la inserì intorno al bullone e vi fece leva con tutto il suo peso, ma non accadde niente. Rise incredulo. Chi li avrà fissati? mormorò.

Papà, rispose lei e la fossetta si approfondì mentre un'ombra le passava sul volto. Faceva il tassista ed era campione europeo di sollevamento pesi nella categoria senior.

Non faccio fatica a crederlo, disse lui misurando con un'occhiata la sua struttura prosperosa. Era chiaro che non mancava la polpa all'ossatura forte di questa famiglia. La guardò di nuovo in volto per osservare meglio il suo sorriso triste, ma era già sparito e l'espressione della donna si era fatta vuota. Non riusciva a staccarle gli occhi dalle mani. Senza essere in grado di capire che cosa avessero di diverso. E i polsi. Erano complessi. Flessuosi. Una mirabile fattura, si poteva dire, e gli venne in mente il musicista cieco – com'è che si chiamava? Ray Charles, vero? – che tastava i polsi delle donne per capire se erano belle. Geniale. Non sarebbe stato propriamente da gentiluomini, palpare il volto ancora prima di chiedere come si chiamavano. Che cosa avrebbe pensato Ray, se avesse potuto toccare con le mani questi polsi robusti?

Lei infilò le mani in tasca e lo guardò con il volto carico di espressioni che lui non riusciva in alcun modo a decifrare.

Che cosa c'è? gli chiese.

Niente, disse lui e si guardò i piedi che gli sembravano lontani, circondati da una nebbia. La donna con il cappotto bianco lo stancava con la sua sola presenza – non era in condizioni di affrontarla. Ho un piccolo martello pneumatico nella rimessa, disse. Posso sistemartela io, dopo che avrò mangiato qualcosa. Non mangio niente da questa mattina o da ieri sera.

Lei alzò le sopracciglia e si guardò intorno, come a cercare altre soluzioni. Intanto lui si era schiarito le idee e aggiunse con tutto il calore che aveva, ma con il timore che risultasse più che altro sarcasmo o impazienza repressa: Se nel frattempo sarai così gentile da accettare di sederti con me in cucina, ti prometto che sarai in grado di ripartire tra un'ora e mezzo.

Lo seguì esitante e lui le fu grato per avergli risparmiato affettazioni, schermaglie o scuse. Era meglio così. Non voleva che se ne andasse subito, perché anche se aveva bisogno di riposo, si rendeva tragicamente conto che erano giorni che non guardava in faccia un altro essere umano. Aveva voglia di guardare qualcuno che si muoveva, non importava se non aveva niente da dire o se diceva solo cose noiose, non avrebbe comunque avuto l'energia per ascoltare o per dare risposte sensate.

La donna appoggiò il cappotto sullo schienale di una sedia e si lasciò cadere pesantemente su quella di fianco. Si guardò intorno senza alcun interesse particolare, parlava poco e si muoveva con riserbo, presumibilmente perché aveva compreso che l'uomo era stanco e aveva fame. Lui non voleva che gli dimostrasse comprensione; rabbrividiva al solo pensiero di donne comprensive. Milioni e milioni di donne comprensive in tutto il mondo, che pensavano poco e dicevano ancora meno.

Aveva un flusso di pensieri indomabili e non poté far altro che stupirsi da quanto poco fossero in armonia con lui o con l'idea che aveva di se stesso. Sembrava quasi che avesse un apparecchio radio in testa e che qualche piantagrane si occupasse della trasmissione. Accese di nuovo il fornello sotto la padella, vi agitò sopra un paio di vasetti di spezie e apparecchiò per entrambi, senza sprecare troppe parole per invitare l'ospite a mangiare un boccone con lui. Non credeva nelle spiegazioni troppo verbose, finivano sempre in balle, e non credeva nemmeno di dover aiutare le persone a prendere decisioni. Se uno era troppo timido o cortese per mangiare, era un problema suo. La carne era pronta ma le cipolle erano mezze crude. Non importava molto. Sveinn aprì la credenza e dopo averci pensato su un attimo decise di lasciar perdere i calici e di usare invece i bicchieri più piccoli, quelli da acqua, per il vino. Altrimenti lei avrebbe potuto pensare che si fosse fatto delle idee romantiche e illusorie su quella cena. Le mostrò una bottiglia mezza piena di vino rosso e disse: Spero non ti sembri inopportuno, ma io sono abituato a bere vino quando mangio carne.

Scosse la testa e gli occhi le lucevano quasi. Adesso poteva rilassarsi; era chiaro che non era una di quelle persone che rivestivano ogni cosa di significati simbolici. Non sembrava nemmeno osservare davvero quello che le accadeva intorno.

Ma a che cosa pensava, allora? Sapeva bene che quand'era stanco dava l'impressione di essere ubriaco. Non aveva nemmeno esitato a entrare in casa di un alcolizzato?

Versò il vino dalla bottiglia in entrambi i bicchieri e si servì dalla padella. Fu l'ultima cosa che vide di lei, prima di dimenticare quasi che fosse lì, perché tagliare le patate in due e posizionare i fiocchi di burro sulla superficie piatta richiese tutta la sua snervante attenzione. Sale. Oddio! Gli vennero quasi le lacrime agli occhi quando sentì il sapore delle patate condite con sale e burro.

Quando alzò gli occhi di nuovo lei aveva finito il bicchiere e se lo stava riempiendo di nuovo. Be', accidenti! pensò, e dovette sentirsi meno teso, perché si rallegrò in maniera sincera per il fatto che una donna sconosciuta fosse seduta a tavola con lui, benché nessuno dei due avesse la lingua sciolta.

Lo sapevo che non sarei riuscita ad allentare i bulloni, disse guardandolo rapidamente negli occhi prima di rivolgere lo sguardo alla forchetta che teneva in mano. Per questo speravo che ci fosse ancora l'officina, e che i meccanici non fossero già andati tutti a casa.

Scosse la testa e aggiunse: Quando mio padre cambiava le lampadine, spesso rompeva sia l'innesto che la lampadina; a volte staccava la maniglia dalla porta. Credo lo facesse di proposito, così potevamo raccontare delle storielle su di lui, disse ridendo, e Sveinn non poté fare a meno di ridere con lei.

Ma era soprattutto perché aveva le orecchie rosse per il vino.

È morto? chiese.

C'è stato il funerale la settimana scorsa, rispose. Un infarto. Non guidava più ma continuava ad allenarsi anche se sia io che il suo medico l'avevamo pregato di lasciar perdere i pesi.

La sensazione di disagio che da giorni Sveinn cercava di tenere a bada lo pervase in tutta la sua pesantezza. Non riuscì a non pensare al tipo che si era fatto fuori qualche giorno prima. E adesso che una donna sconosciuta gli parlava della morte di suo padre si sentì come se intorno a lui gli uomini crollassero come mosche. Come se le grinfie della morte si stessero divertendo con lui, palpandogli le costole per sentire se era abbastanza grasso da poterne ricavare qualcosa a macellarlo. Idea piuttosto esagerata, perché entrambi quegli uomini erano sufficientemente anziani da poter essere suo padre.

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Pagina 37

III
Sabato



Era giorno inoltrato quando Sveinn si svegliò. Il riposo come la luce del sole tanto desiderata si era insinuato dietro la fronte, negli occhi e nei muscoli, anche se erano ancora indolenziti. La camera era satura di luce e di vapore umido, il piumino ammucchiato tra le gambe sudate.

Si sedette sul letto e passò le dita tra i capelli, irti e impastati di sporcizia. Da dove veniva quest'aspettativa inattesa? Che cosa lo attendeva, di tanto divertente? Starsene a lungo sotto la doccia. Farsi un caffè e una fetta di pane, leggere il giornale. Dedicarsi ai pochi ritocchi che restavano affinché le ragazze potessero dirsi pronte. Incollare le unghie, fissare la testa al corpo. Infilare loro i vestiti, sistemare le scatole.

Poi avrebbe dovuto portare la mora a Kjartan. Era pronta da tanto, ma ancora non aveva trovato il tempo per consegnargliela. O forse soprattutto aveva voluto rimandare la prova di pazienza che richiedeva doverlo incontrare.

Kjartan aveva già comperato una bambola e adesso voleva acquistarne un'altra. Lavorava come operatore ecologico con un salario appena decente e gli erano occorsi molti mesi per mettere da parte il denaro per la seconda. La prima l'aveva comprata con tutti i suoi risparmi poco dopo che Sveinn si era trasferito ad Akranes. Sveinn aveva avuto la sensazione che lo scopo fosse stato quello di comperarsi una compagnia, vale a dire la compagnia di Sveinn non meno di quella della bambola, e non era da escludere che vi fosse riuscito. Non che la situazione economica di Kjartan fosse il motivo dei loro rapporti, ma la disperazione di quell'uomo aveva fatto a Sveinn un certo effetto, e a volte anche lui era felice di avere qualcuno con cui parlare. E poi Kjartan aveva cominciato a navigare in internet come un pazzo e racimolare qualsiasi informazione riguardasse le bambole. A volte era un sollievo per Sveinn poter parlare apertamente del suo lavoro, a cui pensava quasi tutti i giorni della settimana, e Kjartan era sicuramente l'unico che aveva voglia di ascoltarlo.

Ogni volta che si incontravano però era come se una parte dell'infelicità di Kjartan filtrasse nei nervi di Sveinn e l'idea di dover sprecare un'altra serata sul divano di pelle color giallo piscio e bere birra dalla bottiglia smorzò ogni energia che si era accumulata in lui mentre dormiva.

Si tolse le mutande mentre usciva dal letto e le utilizzò per asciugarsi il sudore sulla schiena, prima di lanciarle nel cesto della biancheria sporca. Poi si fermò all'istante in mezzo al corridoio ricordando la donna che la sera precedente aveva lasciato addormentata in poltrona. Non era sicuro che se ne fosse andata. Magari dormiva ancora. Oppure era in cucina a trafficare con la caffettiera e con il pane appena sfornato. Non c'era modo di sapere cosa poteva inventarsi la gente, e lui non aveva voglia di incontrarla lì nel corridoio con tutto l'apparato ciondolante.

Tornò in camera, pescò un paio di pantaloni sgualciti dal cesto dei panni sporchi e li indossò, sospirò, scelse delle mutande, dei pantaloni e una camicia puliti dall'armadio e andò in bagno.

L'acqua riattivò in lui qualcosa che la luce del sole era riuscita a risvegliare solo per metà e quando uscì dal bagno, a piedi nudi, rasato di fresco e con degli indumenti puliti addosso, si sorprese a sperare che quella Ólöf fosse ancora in casa sua. Soprattutto perché gli avrebbe riversato addosso mille attenzioni e bisogni, come fanno a volte le donne nei film. Alla fine sarebbe riuscita a toccargli il cuore polveroso e indurito, lui sarebbe diventato un uomo migliore e lei sarebbe stata beata e felice per tutta la vita per aver materializzato i suoi desideri. The End. Rise, una risata bassa e nasale, ed entrò in soggiorno. Non c'era nessuno. Il plaid era per terra e quando lo raccolse per ripiegarlo emerse il cappotto, sotto; un cappotto di lana bianco con una fodera verde chiaro.

Ciao! disse, e con il cappotto andò in cucina, dove lo appoggiò distrattamente sullo schienale di una sedia. Guardò fuori dalla finestra e vide che la macchina non c'era. Se n'era andata e aveva dimenticato il cappotto.

Allora probabilmente sarebbe tornata. Forse sarebbe riuscito a farla bere di nuovo e non era detto che quella volta si sarebbe addormentata. Aveva la sensazione che ci fosse ben altro, in lei, rispetto a quanto aveva lasciato intendere la sera prima. Tutti e due erano esausti per la stanchezza.

Quanto tempo era passato dall'ultima volta che era stato con una donna? Molti mesi. Più di un anno. Be', anche se non avessero avuto voglia di togliersi i vestiti, magari avrebbero potuto parlare. Non aveva molti amici e non aveva niente in comune con loro. Lei era certamente una persona a posto. Intanto non si era messa a chiacchierare per riempire i silenzi, come tendevano a fare le donne, convinte di rendersi utili e alleggerire l'atmosfera. Mise su il caffe e prese le piadine, il formaggio e le fette di carne d'agnello affumicata; tagliò una spessa fetta di formaggio con il coltello da pane seghettato e dispose una serie di fette di carne tra le due metà di una piadina.

Dopo avrebbe dovuto andare a fare la spesa. Passare davanti agli sguardi dei vicini che lo fissavano e cercare di comportarsi come se non notasse affatto la loro attenzione.

Se prima lui era stato argomento di conversazione, quell'articolo sul giornale scandalistico aveva sicuramente gettato benzina sul fuoco. Le persone nelle piccole comunità urbane magari non si tenevano al corrente sui problemi mondiali e sui motivi estremi dell'esistenza, ma si interessavano eccome a tutto quello che accadeva entro i confini dalla cittadina, e non si lasciavano certo scappare il pettegolezzo, se qualcuno di loro conoscenza finiva sui giornali.

Non aveva latte, così mise nel caffè quattro zollette di zucchero e quando ebbe dato qualche morso alla piadina gli cadde l'occhio sul cappotto che penzolava in maniera sciatta dallo schienale della sedia, tanto che una delle maniche sfiorava il pavimento. Si allungò a prenderlo con l'intenzione di sistemarlo appena, e una delle tasche foderate di verde gli si apri davanti agli occhi. Non c'era altro da fare, se non infilarvi la mano dentro.

Entrambe le tasche erano vuote.

Si alzò lasciando il caffè a metà e andò nell'ingresso con il cappotto. La porta era aperta. La chiuse e appese il cappotto a un appendiabiti. Emanava un vago profumo che ricordava l'incenso, più che un bouquet fiorito. Non ricordava quando aveva deciso tra sé che tutti i profumi erano schifosi, però questo non lo era del tutto. Era esotico e rilasciava una tensione, profonda e viscerale, che gli dava la sensazione che Ólöf fosse più bella di quanto ricordasse – che magari si fosse perso qualcosa che era accaduto proprio davanti al suo naso.

Quando le donne passavano la trentina, la stanchezza e l'infelicità potevano trasformare i tratti del viso tanto da renderle quasi irriconoscibili. Questo però non l'aveva pensato, la sera precedente. Aveva avuto troppo bisogno di compagnia per poter notare qualcosa d'altro, se non la soddisfazione limitata che lui stesso aveva deciso che una donna sconosciuta potesse offrirgli in quel momento. Si era aspettato che fosse piuttosto vacua, o per lo meno sufficientemente insicura per apparire vacua – il che coincideva, alla fine – e dal momento che non aveva soddisfatto tali aspettative, lui aveva completamente dimenticato che ci fosse. Due bicchieri di vino più tardi aveva desiderato che appagasse una sua esigenza repressa e volgare perdendo il controllo, ma la donna l'aveva perso soltanto per un istante, e anche in quell'occasione in maniera piuttosto moderata – dopo che lui l'aveva stressata facendole domande sulle figlie. Un mento tremolante non si poteva certo considerare una gran perdita di controllo né un atteggiamento melodrammatico.

Lasciò il cappotto e sentì il suo profumo che gli avvolgeva le mani, se le osservò come se credesse che a un tratto avessero cambiato forma e notò di sfuggita che per terra accanto alla porta c'era il quotidiano, stropicciato come se un intero esercito l'avesse utilizzato per pulirsi gli stivali. Di fianco c'era una busta liscia e pulita, come a mettere in ridicolo il giornale malconcio. La busta non aveva finestre e la grafia del mittente era precisa e femminile.

Spolverò via il grosso dello sporco dal giornale e lo sfogliò mentre finiva il caffè e il pane.

La busta era ancora intatta accanto alla caffettiera, un rettangolo bianco che qualcuno si era preso la briga di sigillare e di vergare. Ovvio che era curioso, come no, ma anche un po' allarmato. Non era sicuro di essere dell'umore giusto per tollerare gli imprevisti, e oltretutto aveva la sensazione che la pace che aveva regnato sulla sua vita nei sei mesi precedenti si fosse esaurita in modo misterioso e ineluttabile. Come una fortezza violata, abrasa dal tempo e dall'incuria.

Alla fine infilò la lama di un coltello sotto la linguetta, strappò la busta e ne estrasse un foglietto con un ritaglio di giornale incollato sopra. Era un necrologio. La foto di un uomo tra i sessanta e i settanta e sopra di lui una piccola croce nera. Sotto la foto stava scritto: Il nostro amato padre e fratello, Hans Sigurjónsson di Hlíð nella Svarfaðardalur, è mancato all'affetto dei suoi cari, nel conforto della propria casa, lo scorso primo maggio. Il servizio funebre si terrà in forma privata secondo i desideri del defunto. Chi desideri rendergli omaggio può rivolgersi alla Croce Rossa.

Depose il biglietto, senza nutrire alcun dubbio che si trattasse del tipo che si era fatto fuori con una vecchia pistola da bestiame. Un fattore, sicuramente, o qualcuno che era stato un fattore. Non era emerso, dall'articolo sul giornale, e nemmeno era stato rivelato il nome o pubblicata una sua foto. Sicuramente in accordo con le norme deontologiche fatte in casa del giornale, per cui si risparmiavano i morti ma ci si poteva accanire sui vivi.

Aspetta un momento. Non si firmavano, di solito, questi necrologi? Guardò di nuovo il biglietto. Il nome dei parenti era stato tagliato via, perciò era palese che il mittente fosse uno di loro. Una sorella? La figlia?

In un angolo della cucina c'era una pila di vecchi giornali e sebbene avesse già concluso tra sé che era meglio lasciar perdere – non poteva permettersi di occuparsi anche di questo – non riuscì a trattenersi dallo sfogliare velocemente qualche giornale in cerca di quello stesso necrologio.

Non c'era, sicuramente l'aveva già buttato al macero. Di solito stendeva qualche foglio di giornale intorno alla vasca, prima di mescolare la miscela di silicone, ma poi li buttava quando metteva a posto.

Si rigirò il biglietto tra le mani, un normale biglietto di carta dove il ritaglio di giornale era stato incollato meticolosamente con una precisione da profani, lo girò per metà e vide che sul retro era stato incollato un foglio stampato con il computer. Era il suo necrologio personale, con la stessa foto che era stata pubblicata sull'articolo del giornale, e invece della croce una stella di satana.

Il nostro creatore e padre nel peccato, Sveinn Guðmundsson, è deceduto improvvisamente nel conforto della propria casa venerdì tredici giugno.

Utili innocenti.

Si alzò lentamente in piedi e si allungò, riempì i polmoni e cercò di espirare il terrore e la spossatezza. Gettò il biglietto nella spazzatura, ma se ne pentì, lo ripescò di nuovo e lo mise in un cassetto dove teneva cacciaviti, pinze e le chiavi per i bulloni. Si convinse a non pensare ulteriormente a quella minaccia di morte indiretta fatta da una persona malata, svuotò la mente e si incamminò lungo il corridoio. Le gambe sembravano dirigersi da sole verso il laboratorio.

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Quando non lavorava era sempre tra i piedi a se stesso. Come se fosse un accessorio indesiderato nella sua stessa esistenza vuota.

Non era sempre stato così. Quando era ancora uno studente, per esempio, apprezzava i periodi di vacanza. Incontrare i conoscenti e gli altri colleghi del corso davanti a un caffè, che spesso con il progredire della serata lasciava il posto a qualche bicchiere di birra. Leggere libri d'arte e di ingegneria, perfino testi filosofici e romanzi.

Che idea strana. Non riusciva in alcun modo a mettersi nei panni del ragazzo che era stato un tempo. Davvero gli piacevano quelle letture? Era una persona più raffinata, a quel tempo? Le pareti della mente più elastiche e spaziose? Oppure era solo un tipo pieno di ambizioni e pose? Forse le premesse implicite erano state queste: non voglio fare la figura dello stupido davanti alle ragazze, di quello che non capisce niente quando citano Nietzsche o Susan Sontag. E non voglio nemmeno essere uno di questi perditempo che non sanno un cazzo e non pensano ad altro che a guadagnare soldi.

Se fosse stato così, in un certo senso non aveva disatteso i suoi propositi. Era stato un abile conversatore da giovane, e ancora adesso non pensava quasi mai ai soldi. Ma intanto aveva già dimenticato tutto quello che aveva letto, e si sentiva a disagio tra persone eminentemente intellettuali, soprattutto se erano donne. Aveva la sensazione di non risultare un gran bel pezzo d'uomo ai loro occhi, quanto piuttosto qualcosa che avrebbero definito originale e di cui si sarebbero divertite a parlare durante le loro chiacchierate, come se fosse appena uscito da un film di Woody Allen. Dopo averne disquisito per tre quarti d'ora avrebbero ritenuto di comprendere la sua vita interiore molto meglio di lui e il loro rispetto nei suoi confronti sarebbe stato paragonabile a quello che riservavano agli aborigeni australiani o alle loro consorelle che si affrancavano dalla povertà con la prostituzione e la lapdance. Gli avrebbero trovato motivazioni di ogni genere per aver scelto proprio quel mestiere per tutta la vita, motivazioni inconsce che si originavano nella sua infanzia e nello spirito del tempo e da cui era manovrato, in una certa misura, perché non aveva le premesse, vale a dire la cultura e le capacità, per vedere oltre lo stato patologico della norma.

Il telefono si intromise a forza nei suoi pensieri – il display illuminato non concesse altra informazione che numero privato. Pronto, rispose lui. Pronto? Non sentì niente, nemmeno un respiro.

Chi è? Chiese nel vuoto, e il vuoto non gli rispose in altro modo che insinuandosi alle sue spalle, insinuandosi nel cuore e nella mente finché non cominciò a sentirsi come se non fosse realmente vivo, come se non fosse altro che una capsula all'esterno del suo disagio e dei suoi dolori meschini. Cercò di immaginare il suo interlocutore all'altro capo del telefono e si vide davanti Lóa, a casa, distesa su un divano Chesterfield, in sottoveste e con i capelli spettinati. Che tamburellava con le dita sullo schienale del divano e lo ascoltava ripetere ("pronto... pronto") come una scimmia ben ammaestrata al luna park.

Che vuoi da me? disse, ed era sul punto di pronunciare il suo nome. Dirle che era tutto a posto. Dimmi dove abiti, avrebbe voluto dirle. Dammi il tuo indirizzo, che vengo io a prendere la bambola e chiudiamo l'argomento. Ma aveva la sensazione che non ci fosse nessuno ad ascoltarlo, scostò il telefono dall'orecchio, guardò il display e vide che lei aveva interrotto la comunicazione.

No, non aveva propriamente paura, ma fu costretto ad ammettere che adesso anche lui aveva il suo molestatore, come le persone famose. Un molestatore di sesso femminile che gli spediva minacce anonime e gli telefonava per sentire la sua voce, o per fargli montare i nervi. Ora sì che era salito di rango. I molestatori erano uno status symbol, giusto? E i molestatori di sesso femminile erano molto più rari e quindi più importanti dei loro colleghi di sesso maschile.

Tornò alla sequenza immaginata di Lóa sul divano Chesterfield e rise per la sottoveste che le aveva destinato. Le donne non mettono le sottovesti, se non forse nei vecchi film. La prossima volta ci aggiungo anche una sigaretta con il bocchino e il trucco fino alle tempie, pensò.

Gli prudeva la cute per la polvere caduta dalla lampadina, per cui pensò di farsi un'altra doccia. Non poteva fare qualche altro lavoraccio, visto che ormai si era già insudiciato? Sì, doveva pulire il bagno, soprattutto il lavandino e il water. Ma prima era meglio cambiare la lampadina nella camera da letto, anche se ricordava a malapena di aver acceso la luce dal giorno in cui si era trasferito in quella casa.

In camera da letto non c'erano sedie su cui poter salire, solo la cesta di vimini dei panni sporchi, alta fino a metà coscia. Il materiale flessibile non la rendeva molto stabile, ma se faceva attenzione doveva essere in grado di mantenersi in equilibrio.

Spinse più volte l'interruttore, senza avere idea se lo stesse accendendo o spegnendo. Ambarabà ciccì coccò tre civette sul comò, canticchiò e accese e spense a ogni parola. Il dottore si ammalò ambarabà ciccì coccò.

Poi sistemò la cesta in mezzo alla stanza, vi salì sopra e le gambe gli tremarono come a un puledro appena nato quando si preparò a ripetere il giochino già fatto in precedenza; sorreggersi ben bene mentre svitava attentamente la lampadina.

Aveva svitato la filettatura per metà quando un lampo blu gli scoppiò sotto le dita e una sferzata sfibrante gli corse lungo il braccio. Non si rese conto se stava buttandosi di fianco o se stava cadendo di faccia, sapeva solo che il pavimento gli si precipitava contro, un pavimento perfettamente irreale, un rivestimento di linoleum di bassa qualità. Chiunque avesse scelto quel rivestimento non aveva affatto a cuore quella casa, era ovvio, e sicuramente non aveva alcun interesse per un cretino sconosciuto che probabilmente si sarebbe spaccato il naso sbattendo con forza la testa sul pavimento.

Non ebbe nemmeno la forza di proteggersi con le mani perché niente di tutto questo stava accadendo davvero, almeno finché non sentì il ginocchio e tutta la parte superiore del corpo schiantarsi a terra. La fronte rimbalzò una volta sulla superficie laccata e poi fu tutto silenzio. Solo i gabbiani continuavano a stridere fuori dalla finestra e i suoi indumenti frusciarono appena quando provò a muoversi.

A poco a poco lo shock lasciò spazio al dolore; la spalla e il ginocchio si chiamavano a vicenda come due telegrafi nella grande guerra, e la testa sembrava schiacciata tra una pressa potente. La mano destra era a posto, e con quella tastò nel vuoto sopra la testa, per assicurarsi che l'armadio non vi fosse crollato sopra, e nemmeno il muro, il soffitto, il cielo.

La spalla sinistra era grande il doppio, oppure stava appoggiata a qualcosa? Con qualche difficoltà riuscì a girare la testa tanto che il naso, intatto, andò a toccare la spessa costola di un libro e gli occhi faticarono a mettere a fuoco due lettere doppie e sfocate: r... man, lesse. Sherman.

Era un tomo voluminoso che conteneva gli scatti scelti della fotografa Cindy Sherman. Il libro che aveva comperato durante un viaggio molti anni prima, che aveva trascinato a fatica fino a casa per poi non guardarlo quasi più. Che cosa ci faceva per terra?

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