Autore Isabel Minhós Martins
CoautoreBernardo P. Carvalho [illustrazioni]
Titolo Atlante dei grandi esploratori
SottotitoloNove uomini e due donne alla scoperta del mondo
EdizioneDonzelli, Roma, 2019, , pag. 136, ill., cop.rig., dim. 24,4x30,5x2spe cm , Isbn 978-88-6843-937-8
OriginaleAtlas das viagens e dos exploradores. As viagens de monges, naturalistas e outros viajantes de todos os tempos e lugares
EdizionePlaneta Tangerina, Carcavelos, 2018
TraduttoreNina Babi
LettoreSara Allodi, 2019
Classe viaggi , illustrazione , ragazzi












 

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Indice


 19.   Introduzione


 31.   Pitea

 39.   Xuanzang

 47.   Giovanni da Pian del Carpine

 55.   Marco Polo

 65.   Ibn Battuta

 77.   Bartolomeu Dias

 85.   Jeanne Baret

 95.   Joseph Banks

103.   Humboldt

111.   Darwin

121.   Mary Henrietta Kingsley


132.   Avvertenze


 

 

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Pagina 19

Cos'è che spinge qualcuno a farsi strada quando la strada ancora non esiste?


Per tanti secoli, la gente è partita verso altri luoghi prima di tutto per questioni di sopravvivenza. Da soli o in gruppo, uomini e donne si sono messi in viaggio perché lì dove vivevano il cibo scarseggiava, il clima era troppo duro o una guerra sanguinosa (o un terribile tiranno) impediva loro di vivere sicuri. Se ci pensiamo bene, è quello che succede ancora oggi.

Ma se parliamo dei grandi viaggi passati alla Storia, i motivi che hanno indotto alla partenza sono stati quasi sempre molto diversi da quelli appena detti.

Il più comune era un re o un potente imperatore che voleva conquistare nuove terre o controllare il commercio dei prodotti di una determinata zona.


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Nel XVII e nel XVIII secolo, molti portoghesi e spagnoli partirono per il Brasile attirati dalle miniere e dai metalli preziosi: oro, argento e diamanti. Nel caso dei primi esploratori dell'America del Nord fu il commercio delle pelli d'animale a spingerli a percorrere regioni mai esplorate.

Il popolamento di molte regioni dev'essere come quando una famiglia, vedendosi costretta a lasciare un luogo dove non c'erano più acqua o terra a sufficienza, si spingeva in territori sconosciuti in cerca di condizioni migliori. E a quei tempi lontani, i viaggi ovviamente si facevano senza nessuna mappa in mano...

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In fin dei conti, fino a un certo punto della Storia, non devono esserci stati molti viaggi per il solo gusto dell'avventura...


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Il viaggio del cinese Zhang Qian (nel II secolo a.C.) aveva un altro scopo: radunare alleati per combattere la potente tribù Xiung-nu che minacciava le frontiere a nord.

Zhang tornò a casa dopo tredici anni con un mucchio di storie da raccontare sulle regioni ricche e progredite che aveva visitato.

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La svolta avvenne nel XVIII secolo, quando i viaggi degli esploratori cominciarono a essere motivati anche dalla curiosità e dalla voglia di conoscere di più il mondo. Un viaggio veniva magari organizzato per una ragione strategica concreta (per esempio, costruire un forte in un determinato posto), ma spesso, al seguito dei soldati e dei mercanti, partivano anche degli scienziati con altri obiettivi.

Oppure succedeva il contrario: si organizzava un viaggio a scopi scientifici, ma oltre ai geografi o ai naturalisti, s'imbarcavano anche dei diplomatici incaricati di stringere rapporti con altri paesi.


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Uno dei primi viaggi a scopo puramente scientifico fu la Missione geodetica francese (1736-1744), una spedizione col preciso obiettivo di accertare una volta per tutte se la Terra fosse una sfera perfettamente rotonda oppure schiacciata ai poli, come sosteneva lo scienziato Isaac Newton (che in effetti aveva ragione!).

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Un altro esempio: bisogna parlare di «scoperta» o di «incontro tra popoli»?


Come abbiamo appena detto, molte terre ancora sconosciute agli europei erano invece già abitate da altri popoli. È per questo che molti ritengono più corretto definire questi viaggi degli «incontri tra popoli di culture diverse» piuttosto che «scoperte». Incontri suscitati dalla curiosità, ma che allo stesso tempo comportavano diffidenza reciproca, paura o incomprensione.


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Mary Kingsley, una esploratrice entrata in stretto contatto con le tribù dell'Africa occidentale, ha scritto delle difficoltà di comunicazione con i popoli indigeni, non solo perché parlavano un'altra lingua, ma anche perché avevano una diversa visione del mondo. Kingsley non riusciva per esempio a capire come fosse possibile «chiamare un fiume con un certo nome quando si risale e chiamarlo con un altro nome quando si riscende» come facevano quelle tribù.

Un esempio di malinteso: il celebre viaggiatore marocchino Ibn Battuta racconta che un giorno si avvicinò a un fiume per fare i suoi bisogni e rimase molto colpito dalla «mancanza di tatto e di cortesia» mostrata dall'indigeno che lo accompagnava; infatti l'indigeno, invece di lasciargli l'intimità necessaria, era rimasto lì impalato davanti a lui, nel poco spazio che lo separava dal fiume. Solo in seguito qualcuno gli aveva spiegato che quell'uomo non pensava di essere indelicato, ma solo di proteggerlo da un coccodrillo che poteva avvicinarsi alla riva.

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Non tutto è filato liscio, bisogna dirlo

È chiaro che in questa storia dei viaggi di esplorazione degli occidentali «non fu tutto rose e fiori». Quando una nave attraccava in terre sconosciute, la cosa più comune era che morissero in tanti, per lo più gli indigeni che vivevano lì in pace e in equilibrio con la natura.

Muniti di armi da fuoco, molti esploratori obbligavano i popoli indigeni a spogliarsi di tutto ciò che avevano e, se non obbedivano, loro non esitavano a sparare per ucciderli. Oltre a scatenare questo clima di violenza, gli esploratori portavano anche malattie che in quel «nuovo mondo» non esistevano e che decimavano popoli interi. Molte migliaia di persone morivano di vaiolo o di semplice influenza, perché il loro sistema immunitario non era preparato a difendersi dai virus e dai batteri che arrivavano da altri parti.

Il contesto dell'epoca spiega alcune delle atrocità commesse. Ma oggi noi, con la nostra visione delle cose, non possiamo fare a meno di dire che ci furono situazioni davvero orribili, di cui gli europei non possono andare orgogliosi.


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Al contrario di molti uomini del suo tempo, Humboldt, cui abbiamo già accennato, rispettava i popoli indigeni ed era affascinato dalle loro conoscenze.

Per esempio, era ammirato dalla loro capacità di riconoscere le specie degli alberi leccando la corteccia del tronco!

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PITEA
Un viaggio verso la fine del mondo



Ai tempi di Pitea, lo Stretto di Gibilterra era una porta sbarrata, e le navi greche non lo attraversavano. Pitea si azzardò a superarlo e scrisse un grande resoconto del suo viaggio. Orientandosi con l'aiuto delle stelle, si spinse fino alle Isole Britanniche e anche più a nord, là dove l'oceano e l'aria si congelano... Dove sarà arrivato?


Chi era Pitea?

Non abbiamo molte certezze: sappiamo che era nato nel IV secolo a.C. nella città greca di Massalia (l'attuale Marsiglia, nel Sud della Francia}, e che gli venne affidata dal governo una missione esplorativa. Obiettivo: trovare le preziosissime miniere di stagno sotto il controllo dei Cartaginesi, per accrescere gli scambi commerciali della sua città.


Perché le navi greche non oltrepassavano lo Stretto di Gibilterra?

All'epoca, lo Stretto di Gibilterra era controllato dai Cartaginesi. Fatto sta che i Cartaginesi erano alleati dei Persiani, che a loro volta erano nemici dei Greci. Questa ragione, da sola, sarebbe bastata alle navi greche per non attraversare lo stretto. Tuttavia, c'era anche un'altra ragione che aveva un grande peso: i Cartaginesi controllavano il commercio dei metalli e non volevano perderlo per nessun motivo.


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Pitea andò in cerca dello stagno perché, se mescolato al rame, consentiva la fabbricazione del bronzo, uno dei metalli più in uso all'epoca. Col bronzo si fabbricavano armi, arnesi, monete e ornamenti.

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Come fece Pitea a passare lo stretto?

Non si sa bene. Potrebbe aver viaggiato via terra fino a un certo punto, per poi costruire una nave. Oppure potrebbe aver navigato cautamente verso Gibilterra per poi attraversare lo stretto. In un modo o nell'altro, è riuscito comunque a sfuggire al controllo dei Cartaginesi.


Ma senza mappe, come ha fatto Pitea a non perdersi?

Pitea godeva di una grande reputazione da geografo, matematico e astronomo. Pensa che riusciva a calcolare la latitudine di qualsiasi posto della Terra, in base alla posizione della stella polare. La cosa più probabile è che, lungo il viaggio, abbia chiesto informazioni agli altri viaggiatori che lo aiutarono anche a orientarsi.

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PERCORSO DI PITEA


(1) Partenza: Massalia (Marsiglia)

(2) Cornwall (Cornovaglia)

Pitea e il suo equipaggio si fermano più volte lungo il tragitto: approfittano per fare rifornimenti, ma anche per prendere appunti sulla geografia e le usanze delle popolazioni indigene.

(3) Scozia

Durante il viaggio, Pitea si accorge del variare della durata della luce del sole. Nel Nord della Scozia, un abitante del posto gli racconta che ancora più a nord ci sono terre dove, in certi periodi dell'anno, la notte dura solo due ore!

(4) Isole Orkney (Orcadi)

Pitea avvista un pesce gigante che sputa acqua dietro di sé... Che può essere?

(5) Thule (che terra sarà?)

Pitea descrive questo luogo come la fine del mondo, ma non si sa bene che terra sia. Forse le Isole Shetland oppure l'Islanda...

(6) Da qualche parte più a nord...

Ops... Pitea si trova davanti un oceano di lastre di ghiaccio, con una nebbia fitta che non ha mai visto in vita sua... Constata che in quelle condizioni è impossibile navigare e decide di tornare indietro.

(7) Visita lungo la Via dell'Ambra (Mar Baltico)

Prima di tornare a casa, Pitea va in cerca di un luogo molto noto per l'abbondanza di ambra (una resina degli alberi fossilizzata, usata per fabbricare ornamenti).

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BARTOLOMEU DIAS
Un viaggio contro la paura



I navigatori del XV secolo non dovevano solo combattere con le tempeste e le forti correnti: dovevano anche battersi contro i mostri e le storie spaventose alimentate daIl'immaginazione! Nel doppiare il Capo delle Tempeste, Bartolomeu Dias superò il gigante di roccia chiamato Adamastor e dimostrò che il mondo non finiva all'estremità sud del continente africano. Il suo viaggio mise per la prima volta in connessione due oceani.


Tanto mare, tanto mare!

In Europa, fino all'inizio del XV secolo, le conoscenze geografiche relative al pianeta furono limitate o poco esatte. Si sapeva dell'esistenza di tre continenti (Europa, Asia e Africa), ma si ignoravano i limiti del continente africano e anche molte regioni asiatiche erano del tutto sconosciute. Dell'America non si sapeva nulla...

È chiaro che alcuni viaggiatori, come Marco Polo o Ibn Battuta, avevano già attraversato i continenti e i vari paesi avevano già commerci tra loro. Tuttavia, viaggiare continuava a essere per quasi tutti una cosa rara e pericolosa e quel che si sapeva su alcuni luoghi non circolava in modo chiaro e con esattezza.

Spesso la geografia dei luoghi si mescolava alle storie e alle leggende su quelli ancora sconosciuti. Per esempio, si riteneva che le regioni lungo la linea dell'Equatore fossero disabitate per via delle temperature troppo calde, e si credeva che in alcune zone del pianeta vivessero esseri fantastici o creature mostruose, come quelle raffigurate nei Libri delle meraviglie che venivano pubblicati all'epoca.


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I Libri delle meraviglie descrivevano creature e paesi immaginari. Gli autori mescolavano dati reali con la fantasia sicché le pagine erano popolate da draghi, alberi della lana, esseri umani con gli occhi sul petto, formiche che trasportavano oro e uomini con un unico piede gigantesco.

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IL VIAGGIO DI BARTOLOMEU DIAS

(1) Partenza: agosto 1487, Lisbona

La flotta è composta da due caravelle e una nave con i viveri.

(2) Jorge da Mina

È probabile che in questa regione si siano riforniti di acqua e provviste fresche.

(3) Serra Parda

Da questo punto in poi, i luoghi da cui passano non hanno ancora un nome per i navigatori: a volte a battezzare un luogo è il santo del giorno; altre è un monte o un dettaglio geografico a fare da ispirazione.

(4) Angra Pequena

Bartolomeu Dias ordina alla spedizione di fermarsi a causa dei forti venti. Teme che la piccola imbarcazione con le provviste non riesca ad affrontarli e la lascia qui, sorvegliata da un gruppo di uomini ai quali raccomanda di tentare un contatto con la popolazione locale.

(5) Angra das Voltas

Le difficoltà aumentano: il vento li spinge di continuo verso nord e per 5 giorni navigano senza riuscire ad allontanarsi dallo stesso punto.

(6) Un poco in alto mare...

Bartolomeu Dias prende una decisione coraggiosa: bisogna allontanarsi un poco dalla costa e prendere il largo, in direzione ovest. I marinai tremano: di freddo e di paura! Dopo il caldo dell'Africa, ora soffia un vento gelido e vorticoso in tutte le direzioni.

(7) ...e ora di nuovo avanti tutta a est e a nord!

Dopo 13 giorni in alto mare, senza avvistare nulla, cambiano rotta. Prima virano a est, ma poiché non avvistano terra, tentano verso nord.

(8) S. Brás

Ai primi di febbraio, finalmente avvistano terra. Bartolomeu Dias non si è ancora reso conto del grande risultato raggiunto, ma la punta meridionale dell'Africa è stata doppiata! Le caravelle ora navigano nell'Oceano Indiano.

(9) Angra dos Vaqueiros

Sbarcano in questa piccola baia e, nello stupore generale, non avvistano mostri ma... mucche.

(10) Discussioni a bordo!

Bartolomeu Dias vuole proseguire, ma gli altri capitani e marinai vogliono tornare indietro a causa della scarsità di cibo e delle difficoltà della navigazione. Iniziano il ritorno.

(11) Capo delle Tempeste (poi Capo di Buona Speranza)

Sulla via del ritorno, incontrano una terribile tempesta. La scampano per poco! (L'ironia della sorte è che, 13 anni dopo, Bartolomeu Dias morirà proprio da quelle parti durante una tempesta).

(12) Angra Pequena (di nuovo)

La spedizione torna a prendere i marinai lasciati a terra, ma cinque erano ormai morti. Tale è la disperazione che uno dei sopravvissuti, vedendo tornare i compagni, muore per l'emozione!

(13) Lisbona, dicembre 1488

Compiuto il viaggio di ritorno con «il giro a largo», sbarcano a Lisbona, dove vengono ricevuti con grande entusiasmo. Sono trascorsi 16 mesi e 17 giorni dalla partenza.

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Cosa possiamo imparare dal viaggio di Bartolomeu Dias

(e dagli altri viaggi dell'epoca delle Grandi scoperte)


I navigatori portoghesi del XV secolo cominciarono a navigare lungo la costa africana innanzitutto per i profitti che potevano venirne al loro regno: grasso dei leoni marini, pepe, oro, avorio, schiavi. Lo stesso fu per i viaggi successivi (la rotta verso l'india, lo sbarco in Brasile ecc.), che ebbero sempre come scopo principale quello di rendere il Portogallo più ricco e più potente.

Tuttavia, quanto tutto cominciò, non si sapeva con certezza che cosa questi viaggi avrebbero comportato e ci fu bisogno di rischiare e di molto spirito d'adattamento per potersi fare largo in quei «mari mai prima d'allora navigati», come disse il poeta Luis de Camões.

Certo oggi, molte cose accadute all'epoca ci appaiono inquietanti e persino ignobili: la tratta degli schiavi, l'ambizione senza limiti, la mancanza di rispetto con cui spesso si trattavano le popolazioni indigene lungo il tragitto. Ma senza negare tutto ciò, bisogna riconoscere che questi viaggi hanno messo in connessione per la prima volta parti diverse del mondo, con tutte le conseguenze positive e negative che hanno comportato.


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Come molti altri viaggi, anche quelli compiuti in quell'epoca hanno contribuito alI'avanzamento delle scienze e della tecnologia. Tutto ciò che poteva aiutare i navigatori a orientarsi e a navigare meglio, fece grandi progressi nell'epoca delle Grandi scoperte: la conoscenza degli astri, la cartografia, gli strumenti nautici e le costruzioni navali.

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Il mare, che fino ad allora aveva separato le persone, cominciò a legarle e da quel legame è derivata la conoscenza che abbiamo oggi gli uni degli altri, così come gli scambi commerciali e culturali che hanno cambiato il mondo per sempre.

Perché, prima del XV secolo, tanta gente al mondo non aveva la minima idea dell'esistenza degli altri? Riesci a immaginarlo?

Ca' da Mosto, un navigatore veneziano che fece diversi viaggi al servizio del principe Enrico lungo le coste dell'Africa, ha descritto il modo in cui i popoli indigeni reagivano alla vista delle navi e dei marinai che giungevano dall'Europa. Naturalmente, il testo che riportiamo qui sotto contiene le parole di Ca' da Mosto e non di quei popoli africani; ma possiamo comunque farci un'idea dello straniamento provato dagli indigeni in occasione di quei primi contatti:

«Quando videro comparire dal mare le vele e le navi, che mai avevano visto prima né loro né gli antenati, li credettero degli uccelli dalle ali bianche, giunti da qualche luogo sconosciuto. Poi salirono a bordo e videro le vele legate: allora credettero che fossero pesci. Le navi e i marinai li impaurivano, perché si spostavano di notte a gran velocità; ed essi non pensavano che fossimo creature umane, ma fantasmi».

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MARY HENRIETTA KINGSLEY
Un'avventuriera senza paura nell'Africa occidentale



All'epoca in cui le donne viaggiavano solo in compagnia dei mariti, Mary Kingsley si spinse tutta sola fino in Africa occidentale. I libri da lei scritti hanno contribuito a cambiare lo sguardo degli europei sulle popolazioni africane e sulle donne. Pur essendo una signora piuttosto conformista, la sua storia di indipendenza e di coraggio dimostra che le donne possono diventare viaggiatrici, scienziate, e tutto ciò che vogliono.


Dal focolare domestico alla selva africana

Mary Kingley era nata a Londra, nel 1862, poco dopo che Darwin aveva pubblicato L'origine delle specie.

La famiglia seguiva la tradizione del tempo, secondo cui le ragazze dovevano restare in casa, perciò Mary non andò a scuola, né frequentò alcun corso universitario, ma imparò a leggere con sua madre. In seguito, essendo desiderosa di sapere di più del mondo, si immerse nella biblioteca del padre, un viaggiatore instancabile che collezionava libri di scienza e di viaggi. E come tante donne dell'epoca, Mary divenne un'autodidatta. Da sola, imparò l'arabo e studiò antropologia e scienze naturali.

All'età di 30 anni, a eccezione di una sola settimana trascorsa fuori Londra, Mary Kingsley non si era mai allontanata da casa: si prendeva cura delle faccende domestiche, del fratello e della madre malata, giacché il padre passava molto tempo nei suoi viaggi. Poi tutto cambiò quando i suoi genitori morirono e lei si ritrovò improvvisamente da sola, senza responsabilità e in possesso di denaro.

Invece di starsene a braccia incrociate, pensò immediatamente alla possibilità di completare il libro che il padre aveva lasciato incompiuto, sulle tradizioni religiose delle tribù africane. Ma per farlo era necessario viaggiare e compiere un lavoro sul campo. Dove? In Africa, manco a dirlo.

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Pagina 124

PERCORSO DI MARY KINGSLEY


Mary Kingsley parte da Liverpool (1), il 23 dicembre del 1894, sulla nave Batanga sotto il comando di un suo vecchio amico, il capitano Murray.

Fa scalo nell'arcipelago delle Canarie (2) e resta ammirata dalla cima del vulcano dell'isola di Tenerife che definì «una delle cose più belle che l'occhio umano possa vedere».

A Freetown (3), la capitale della Sierra Leone, osserva come gli indigeni riescano a camminare scalzi, assai svelti, con degli enormi fagotti sulla testa.

Nel maggio 1895, arriva a Calabar (4), in Nigeria. Nel suo libro, racconta le notti trascorse nelle foreste di mangrovie, che lei descrive come più rumorose che di giorno:

«L'oscurità è piena di rumori, grugniti di chissà chi, guizzi di pesci che saltano, rumori tipici di granchi frettolosi, [...] gemiti degli alberi e - il rumore più surreale di tutti - la tosse e i sospiri dei coccodrilli».

Quando arriva sull' Isola di Fernando Pó (5) (attuale Bioko, nella Guinea Equatoriale) osserva le abitudini e le tradizioni dei Bubi, una tribù di grandi cacciatori, ai quali dedica una parte del suo libro.

A giugno del 1895, prepara la spedizione sul Fiume Ogooué (6) (nel Congo francese, l'attuale Gabon). Entra nel territorio dei Fang, una tribù con la fama di cannibalismo, che si rivelerà la sua preferita... A proposito dei Fang, scrive:

«Hanno volti molto luminosi ed espressivi e una volta che sei stato in mezzo a loro, non confondi più un Fang con uno di un'altra tribù».

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Pagina 128

Osservare per comprendere

È importante dire che all'epoca gli europei si consideravano di gran lunga superiori ai popoli africani, che venivano descritti come primitivi, selvaggi e poco evoluti in tutti i campi. Gran parte del territorio dell'Africa era colonizzato da portoghesi, francesi, inglesi e tedeschi e, malgrado la schiavitù fosse già stata abolita per legge, la tratta degli schiavi esisteva ancora.

Per quanto i libri di Mary Kingsley abbiano contribuito a cambiare la mentalità degli europei riguardo all'Africa, non si può dire che la loro autrice sia stata una rivoluzionaria: Kingsley nutriva comunque un certo entusiasmo per l'impero britannico. Tuttavia, criticava il modo in cui il potere veniva esercitato, e sosteneva che bisognasse rispettare le istituzioni indigene preesistenti all'arrivo degli europei.

Benché non si possa dire che considerasse alla pari i popoli africani, Kingsley fece senza dubbio dei passi importanti per mettere fine ai pregiudizi. Studiando accuratamente i popoli che incontrava, mostrò quanto fossero ricche e complesse la loro cultura, le loro leggi e le loro religioni, e ne difese la conservazione. Non esitò, per esempio, a criticare i missionari che, nel loro tentativo di evangelizzare gli indigeni, volevano sostituire la cultura europea a quella africana.

In poche parole, Mary Kingsley considerava gli africani dei popoli come gli altri, sebbene con culture e costumi diversi. Un'idea che a noi oggi sembra molto scontata, ma che alla fine del XIX secolo rappresentava una grande svolta.


Come ha fatto Mary Kingsley ad acquisire questa mentalità?

Facendo un lavoro sul campo e vivendo per qualche tempo insieme alle diverse tribù. Le ha osservate, le ha comprese, si è messa nei loro panni e, per molti aspetti, le ha ammirate. E ha fatto tutto ciò non con sguardo diffidente, ma limpido. Con la tribù dei Fang - una delle sue preferite - raggiunse anche una grande intesa. Di loro scrive:

«Tra me e i Fang è sorta subito una specie di amicizia. Riconosciamo entrambi di appartenere alla stessa famiglia della razza umana con cui è meglio bere insieme che combattere».

E non esita neppure ad ammettere di aver appreso tanto da quegli uomini e quelle donne:

«I Fang hanno fatto del loro meglio per istruirmi su tutto: mi hanno insegnato i nomi che davano alle cose, e io gli dicevo i miei».

Mary Kingsley non era nemmeno una femminista. Né simpatizzava con il movimento delle suffragette che rivendicavano il voto per le donne. Era dunque una persona abbastanza contraddittoria, visto che la sua vita era un esempio di indipendenza e determinazione e una dimostrazione delle pari capacità di uomini e donne.

Pur essendo diventata una grande specialista dell'Africa, Kingsley non venne mai presa molto sul serio da gran parte del mondo accademico inglese. Tanto per dare un'idea, in certe conferenze era un uomo a leggere i suoi testi (mentre lei se ne stava seduta in un cantuccio...).

Fortunatamente, poco a poco le cose cominciarono a cambiare e malgrado il suo atteggiamento discreto, Kingsley riuscì a farsi largo. Difatti non si può fare a meno di chiedersi se quel suo modo di fare - riservato e tradizionale - e quel suo modo di scrivere - con grande umorismo e divertito - non sia stato una strategia per farsi accettare dalla comunità scientifica.

Ciascuno ha i suoi metodi e Mary Kinglsey aveva il suo: non dare mai nell'occhio ma fare tutto ciò che andava fatto, che si trattasse di affrontare coccodrilli e leopardi, discendere fiumi, scalare montagne o stringere amicizia con i popoli cannibali.


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Dal punto di vista scientifico, i contributi di Kingsley sono stati enormi. Oltre alla ricerca antropologica, ha riportato dati importanti per la geografia e ha scoperto nuove specie di pesci africani ancora sconosciuti agli europei - tra cui uno battezzato col suo nome: il Ctenopoma kingsleyae.

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