Autore Emanuele Miola
Titolo Che cos'è un rebus
EdizioneCarocci, Roma, 2020, Bussole 610 , pag. 128, ill., cop.fle., dim. 13x20x0,8 cm , Isbn 978-88-290-0074-6
LettoreGiorgio Crepe, 2021
Classe giochi , linguistica , scrittura-lettura












 

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Indice


     Premessa  7


1.   Enigmi, cultura e scrittura  7

1.1. Scrivere: una sfida d'intelligenza  9
1.2. Scritture, lingue, giochi di e con le parole  10
1.3. La scrittura e il rebus  14
1.4. Il gioco del rebus  18


2.   Il rebus enigmistico  21

2.1. Enigmistica popolare ed enigmistica classica  21
2.2. I rebus  28
2.3. Un po' di storia  41
2.4. Gli pseudonimi degli enigmisti  49
2.5. Il rebus fuori d'Italia  51


3.   Il rebus e la linguistica  64

3.1. Cosa ci interessa del rebus dal punto di vista linguistico?  64
3.2. Il vocabolario dei rebus di denominazione  70
3.3. 11 vocabolario dei rebus dinamici  73
3.4. Cenni sulle seconde letture dei rebus  74


4.   L'italiano del rebus  76

4.1. Il corpus di riferimento  76
4.2. La grafia  77
4.3. Cenni di morfosintassi  81
4.4. L'ordine dei costituenti  95
4.5. Prime letture di più frasi  100
4.6. La punteggiatura  103


5.   Conclusioni  113

5.1. L'italiano del rebus tra le altre varietà di italiano  113
5.2. L'italiano del rebus come modalità d'uso della lingua  118


     Bibliografia  121


 

 

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Pagina 7

Premessa


[...]

Ma com'è nata l'idea di associare lettere, parole e immagini? Quanto profonde sono le radici di queste pratiche? Quali sono le prassi in uso nel rebus contemporaneo? Soprattutto, quale "tipo" di italiano si usa nel creare, e quindi per risolvere, i rebus?

Nelle pagine che seguono si proverà a rispondere, nei quattro capitoli e nella breve conclusione lungo cui si snodano, alle quattro domande appena poste, ma non affrontando i problemi dal punto di vista della tecnica autoriale o risolutiva enigmistica (per questo esistono già Bartezzaghi, 1984; Sinesio, Parodi, 1984; Peres, 1989; 2018; Nugnes, 2018); né volendo fare un'antologia di giochi (come Cabelassi, Corvi, Tucciarelli, 1996 o Cabelassi et al., 1999); né trattando il profilo storico dei giochi illustrati (anche se necessariamente si dovrà affrontarne i sommi capi, e si lascerà approfondire il lettore curioso su Bartezzaghi , 2011, e sull'insuperato Bosio, 1993) e nemmeno indagandoli dal punto di vista semiotico (come hanno fatto ottimamente Eco, 1997; 2013; Bartezzaghi, 2017). Questo libro è, principalmente, uno studio su ciò che attraverso il rebus si può dire delle lingue e, in particolare, dell'italiano che vi è usato. Se, come spero, coglierà nel segno che si è prefissato, permetterà al linguista di esplorare un campo ancora poco frequentato della sua disciplina, quello dell'uso delle lingue e del linguaggio per scopi ludici, giocosi, di divertissement. L'appassionato, o il solutore in erba, potrà imparare qualcosa di più sulla nostra lingua osservandola attraverso la lente del rebus contemporaneo e potrà, forse, alla fine del percorso proposto, raccogliere alcuni indizi linguistici per giungere alle soluzioni, o per arrivarci più agevolmente.

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Pagina 16

1.3.2. La scintilla del rebus In che modo, però, si è giunti alla glottografia? Si è passati sempre e inequivocabilmente attraverso uno stadio iconico, oppure no? E se sì - come pare ormai assodato dagli studi in merito (cfr. Valério, Ferrara, 2020) -, in che modo e quando si è smesso di disegnare e si è iniziato a scrivere una lingua?

Conosciamo oggi un limitato numero di civiltà che hanno inventato la scrittura, cioè che hanno iniziato a scrivere senza usare un sistema alfabetico, sillabico o logografico preso in prestito da un'altra popolazione: troviamo prove dell'invenzione della scrittura in Cina, in Mesopotamia, in Egitto, in Centroamerica e, forse, su base imitativa, nell'Egeo, nella Valle dell'Indo e sull'Isola di Pasqua. In alcuni di questi posti, le popolazioni che usavano quei sistemi di scrittura sono passate a impiegare i simboli non più come semplici semasiogrammi o pittogrammi, ma come logogrammi. Un simbolo costituito da un cerchio con un altro cerchio concentrico o da cui si dipartono dei raggi può valere 'sole', oppure 'calore', 'giorno' o anche 'vita' o 'splendere' se inteso come pittogramma; se letto come logogramma, invece, quel simbolo deve corrispondere a una determinata realizzazione fonetica di una determinata lingua: per esempio il logogramma [...], nei suoi significati di 'sole' e 'giorno', corrisponde, in cinese, alla pronuncia [ri]. In tutti i sistemi di scrittura di cui abbiamo documenti, poi, alcuni logogrammi sono passati a rappresentare parole omofone o quasi omofone rispetto al loro referente originale, specialmente se gli omofoni fossero difficili da disegnare perché indicanti concetti astratti, parole vuote o nomi propri. Per esempio, il simbolo sumero contenuto nella figura 1 è il logogramma per 'acqua', ma vale anche per la preposizione 'in' in quanto in quella lingua entrambe le parole suonavano allo stesso modo: [a] ( Coe , 2012, p. 61).

Altre civiltà, come quella egizia, sfruttarono questo principio di fonetizzazione arrivando a scrivere una parola attraverso i segni grafici corrispondenti ad altre parole che, pronunciate una dopo l'altra, suonassero nello stesso modo di quella che si voleva indicare, un po' come se noi oggi usassimo le emoji [...] per scrivere la parola sciocchi [...]. Se ne hanno in prima battuta esempi riguardanti nomi propri di persone o di città. Nella cosiddetta tavoletta di Narmer, uno dei reperti contenenti alcune delle più antiche iscrizioni geroglifiche, databili al XXXI secolo a.C., il nome del re è indicato più volte con il simbolo rappresentato nella figura 2, formato da un 'pesce siluro' ( n'r in egiziano antico) e da uno 'scalpello' (mr) (cfr. anche Bosio, 1993; Mussano, 2015b). Più tardi, lo stesso principio venne applicato anche ad altre parole: rm [...] 'pesce' veniva scritto giustapponendo il simbolo per 'bocca' (la cui parte consonantica corrispondeva a r) e quello per 'gufo' (m) (cfr. Rossini, 1998, p. 20). Per completezza, occorre tuttavia notare che nelle attestazioni geroglifiche risalenti a tempi più vicini a noi gli antichi Egizi usavano far seguire le parole costruite tramite il principio appena illustrato da un geroglifico, muto, detto determinante, che fungeva da indizio sulla sfera semantica del referente della parola.

Questo principio di rappresentazione ha avuto un ruolo cruciale nello sviluppo delle potenzialità espressive dei sistemi logografici, in quanto risulta essere la scintilla che apre la strada ai sistemi di scrittura fonografici sillabici e alfabetici (Ferrara, 2018). Esso riposa, fondamentalmente, sulla percezione di omofonie, cioè su liste di parole che pur portando significati differenti, avevano significanti uguali (o simili), un meccanismo sfruttato non di rado nei giochi di parole. Non a caso, quindi, questo principio è stato in epoca moderna chiamato principio del rebus, con un nome che ha a che fare con il gioco enigmistico su cui questo libro concentrerà la propria attenzione.


1.4. Il gioco del rebus

Se si accetta che, ovunque sia stata inventata la scrittura fonografica, questa è passata attraverso il rebus, cionondimeno il rebus enigmistico italiano moderno non condivide tutte le caratteristiche del metodo scrittorio proprio, tra gli altri, dei Sumeri, dei Maya e degli antichi Egizi, al cui funzionamento abbiamo accennato. Nel rebus odierno, infatti, le pittografie, o meglio le figure, vengono di solito intercalate, nella vignetta, da lettere o altri segni tipografici che concorrono con le immagini a formare la soluzione attesa. La "lettura" del rebus di oggi è dunque costituita della frammistione di elementi pittorici ed elementi tipografici.

Soprattutto, l'elemento grafico delle antiche scritture a rebus rappresentava il suono della parola omofona, appunto, a quella disegnata; la pittografia/figura nell'enigmistica italiana viene adoperata invece come sostituto della stringa ortografica che rappresenta l'oggetto disegnato. In altre parole, in egiziano antico il simbolo per pesce siluro e quello per scalpello servivano per scrivere 'Narmer' perché 'Narmer' si pronunciava come i suoni di 'pesce siluro + scalpello'; nel rebus di oggi la figura 3 può essere usata per sostituire le lettere che compongono chef o cuoco (o cuochi), ovvero la loro forma grafica in ortografia italiana e non il modo in cui quelle parole si pronunciano, rispettivamente [...] o [...].




1.4.1. A che cosa serve l'enigmistica? Prima di avventurarci nella discussione di alcuni tratti peculiari dell'italiano del rebus e a mo' di chiusura di questo capitolo introduttivo, potrebbe essere utile spendere qualche parola per provare a spiegare il fascino che ha un gioco come il rebus, e il gioco enigmistico in generale. Questo fascino probabilmente risiede nell'intimo piacere di velare e svelare il linguaggio, di saggiare le proprie competenze culturali e (meta)linguistiche, di scoprire il significato celato di ciò che sta sotto i nostri occhi e di sciogliere - come detective - il mistero seguendo gli indizi seminati nell'illustrazione sotto forma di figure e lettere.

Stando alla terminologia introdotta da Caillois (2000) l'enigmistica sarebbe dunque un ludus, cioè un gioco organizzato secondo procedure e norme precise e arbitrariamente stabilite, caratterizzato da contraintes, ovvero da costrizioni cui deve attenersi il creatore del gioco e che devono essere conosciute e usate dal fruitore per arrivare alla soluzione, che una volta superate possono dare soddisfazione e diletto sia all'enigmista autore sia all'enigmista solutore. È anche un àgon, perché ciò che spinge l'enigmista a mettersi a creare o a risolvere un gioco è, in fondo, la competizione e la sfida, tanto con sé stesso quanto con gli altri enigmisti. La creazione e la soluzione di un gioco enigmistico sono due momenti di una «provocazione intellettuale» ( Rossi , 2001, p. 4) fatta di conoscenze culturali e, nello specifico per giochi come quelli di cui parliamo qui, linguistiche: l'autore del gioco, come la Sfinge, mette in questione le conoscenze del solutore che, se è capace di capire l'arcano, se sa dare il giusto nome alle cose dell'immagine, se sa individuare la giusta sequenza di lettere e di parole della soluzione, dà prova di adeguata intelligenza e cultura. Così, tramite lo svelamento dell'enigma, oggi come un tempo il solutore può ottenere l'inclusione nella comunità: nella società tout court, se vogliamo pensare alla frase di Giorgio R. Cardona già citata (cfr. p. 12) e riferibile specialmente - ma non esclusivamente - a società lontane da noi nel tempo o nello spazio geografico; oppure nella ristretta comunità, che si sentiva e forse ancora si sente un'élite, degli enigmisti, di coloro, cioè, che conoscono tanto bene le parole della lingua da saperle piegare alla loro volontà, racchiudendole elegantemente in uno schema di cruciverba o nascondendovi dentro, tramite qualche "trucco magico", qualcos'altro oltre a quello che appare (per approfondire queste considerazioni, cfr. Rossi, 2000, specie i capp. 2-5).

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Pagina 28

2.2. I rebus


A differenza degli altri giochi di enigmistica classica che abbiamo trattato sin qui, i giochi illustrati, che d'ora in avanti chiameremo sempre rebus, non possiedono esposti solo testuali, fatti cioè di caratteri tipografici raccolti in un rigo o in una o più strofe, ma si valgono di un esposto grafico, generalmente una vignetta o una sequenza di più vignette, nel quale il solutore, insieme alle figure (ovvero insieme al cosiddetto esposto iconico del gioco), può trovare dei caratteri tipografici (l'esposto tipografico) atti a contrassegnarle (cfr. Chiari, 1997). Pertanto, un rebus si presenta di solito come nella figura 4.

[...]

Riassumendo per comodità i termini tecnici rebussistici che abbiamo incontrato sin ora, nella vignetta si incontrano elementi iconici (nella figura 5, i disegni degli squali e delle capesante) ed elementi tipografici (nella figura 5, F e I). Nella soluzione, o frase risolutiva, sono presenti sia i grafemi, sia le chiavi, ovvero le parole e . La corretta giustapposizione di grafemi e chiavi dà luogo alla prima lettura che, attraverso una risegmentazione, offre la seconda lettura del rebus. Prima e seconda lettura insieme compongono la soluzione, o frase risolutiva, o frase finale (o anche doppia lettura).

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Pagina 41

2.3. Un po' di storia


Dopo avere spiegato almeno sommariamente le modalità di compo- sizione e di risoluzione dei rebus e prima di concentrarci sull'italiano adoperato dai rebussisti nelle prime letture, è bene trattare, almeno sommariamente, l'etimologia della parola rebus e tratteggiare, altret- tanto sommariamente, il suo sviluppo storico e l'evoluzione del gu- sto rebussistico e dei suoi canoni di bellezza e gradimento.


2.3.1. L'etimologia di rebus La parola rebus è di uso comune in italiano tanto nel senso di 'gioco enigmistico illustrato', quanto nel senso di 'fatto poco chiaro e misterioso; problema di difficile risoluzione' (...), ma la sua etimologia è tuttora dubbia. Nella nostra lingua entra, almeno stando alla sua prima attestazione scritta (...), nella prima metà del XVIII secolo, quando viene rubricato nel Dizionario universale delle arti e delle scienze di Chambers (1748-49), con il significato di «una rappresentazione enimmatica di qualche nome, ecc., con adoprare una figura o pittura in vece di una parola o parte d'una parola». Comunemente se ne indica come origine l'ablativo plurale rebus del sostantivo latino res, 'cosa', a significare che l'enigma è posto "con le cose" disegnate, e non con le parole. È tuttavia probabile (...) che rebus sia giunto in italiano non per trafila diretta dal latino, quanto piuttosto attraverso il francese, lingua nella quale rébus occorre per la prima volta nel Contreblason des faulses amours di Guillaume Alexis, datato al 1512. Il significato che rébus ha in quest'opera poetica è quello di 'parola equivoca' o 'doppio senso', ma, più o meno una ventina di anni dopo, lo si trova anche con il significato di 'gioco d'ingegno che consiste in una serie di lettere e figure che nascondono, tramite omonimie, una frase da indovinare', specialmente nella locuzione rébus de Picardie. L'etimo latino rebus spiegherebbe bene quest'ultima accezione, ma non la prima, che è precedente in ordine di tempo. È dunque probabile che rébus esistesse già e che la specificazione 'di Piccardia' fosse dovuta semplicemente alla particolare fortuna che quel tipo di bisenso basato su un gioco letterale e figurato aveva avuto tra i piccardi. Una proposta etimologica che tiene conto del significato della prima attestazione è stata allora avanzata da Guiraud (...). Per lo studioso francese, rébus verrebbe da rebous, forma alternativa trecentesca del francese rebours, con il significato, sostantivato, di 'controsenso, contrario di ciò che ci si attende' e, a far data dal XVII secolo, di 'indovinello'. Anche quest'ipotesi, per quanto suggestiva, è tuttavia indebolita da considerazioni rimiche: rébus, fin dalla prima attestazione, fa rima con abus e imbutz e questo mostrerebbe che l'ultima vocale, quella metricamente accentata, suonasse [y] e non [u] come sarebbe se rébus derivasse da un precedente rebous (...). Sembra, insomma, che sull'etimologia di rebus non sia stata ancora detta l'ultima parola.

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Pagina 93

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Pagina 113

5. Conclusioni


5.1. L'italiano del rebus tra le altre varietà di italiano


Dopo aver descritto, nel capitolo 4, le caratteristiche dell'italiano delle prime letture dei rebus, è ora giunto il momento di confrontarlo con le altre varietà di italiano, al fine di assegnargli un posto nella complessa architettura della nostra lingua. Generalmente, le varietà di una lingua possono essere posizionate in relazione a tre dimensioni di variazione: quella diatopica, che riguarda le differenze che correlano con la provenienza dei parlanti di una lingua; quella diastratica, che riguarda le differenze di usi linguistici che correlano con le classi sociali a cui appartengono i parlanti; quella diafasica, che riguarda i rapporti, formali o informali, che legano i partecipanti alle diverse situazioni comunicative.

Almeno per quanto riguarda l'italiano, ogni volta che un parlante produce un enunciato vi usa tratti che ne rivelano la provenienza geografica, perciò i linguisti tendono a non ritenere che una determinata varietà diatopica sia da valutare migliore dell'altra. La variazione diastratica e quella diafasica possono essere rappresentate da assi: più ci si allontana dalla metà di ciascun asse, più l'enunciato si distacca dalla norma comune dell'italiano. Gli estremi alti (e valutati positivamente) sono etichettabili come varietà colta, per la diastratia, e varietà formale, per la diafasia. Gli estremi bassi (e valutati negativamente) sono la varietà incolta e la varietà informale. Uno speciale tipo di variazione diafasica va sotto il nome di variazione diamesica. Quest'ultima riguarda principalmente il canale attraverso cui è trasmesso il messaggio e, se rappresentata su un asse, ha come poli lo scritto, che generalmente correla con situazioni diafasicamente più formali, e il parlato, che correla con situazioni con un maggiore grado di informalità.

Disponendo i tre assi in modo che ciascuno incroci l'altro a metà, troveremo all'incirca la posizione della varietà usata dalla maggior parte dei parlanti nella maggior parte delle situazioni comunicative che abbiano un medio grado di formalità/informalità: questa varietà oggi prende di solito il nome di italiano neostandard ( Berruto , 1987). L' italiano standard, di cui si è già data una succinta definizione nel paragrafo 3.1, è invece posizionabile un po' più in alto del neostandard sia sull'asse della diafasia sia sull'asse della diastratia, dal momento che lo si incontra specialmente sui libri e sui manuali: è quindi generalmente scritto, più formale del neostandard e tipicamente adoperato per usi scientifici, colti e letterari. I concetti appena esposti sono riassunti e illustrati nella figura 41.

Tre ragioni spingerebbero a pensare che la lingua del rebus dovrebbe rispecchiare abbastanza fedelmente lo standard. In primis, perché l'equivalenza tra prime e seconde letture riposa sulla grafia, non sulla pronuncia, e dunque sono espressioni di lingua scritta, e non parlata. Secondariamente, perché la SE, rivista per la quale tutti i rebus discussi sin qui sono stati pensati, rivede con attenzione tutti i suoi testi per renderli il più possibile vicini alla norma scolastica, e questo dovrebbe valere a maggior ragione per le soluzioni dei giochi. Infine, perché gli studi ricordati nel capitolo 3 sembrano effettivamente indicare uno scarto, rispetto alla lingua usata tutti i giorni, orientato verso il polo colto e formale, almeno per il limitato comparto lessicale.

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Pagina 118

5.2. L'italiano del rebus come modalità d'uso della lingua


Se quindi, nel suo impianto generale, la lingua del rebus è contraddistinta da una patina di letteraria arcaicità rispetto alla lingua che adoperiamo tutti i giorni, è pure vero che, nelle loro creazioni, i rebussisti possono attingere, talvolta mescolandoli anche nella stessa frase, a tratti di varietà più vicine al neostandard, oppure a tratti propri dei testi come i titoli di giornale, che con le prime letture condividono esigenze di stringatezza, brevità e riduzione della frase, oppure ancora ricorrono a costruzioni peculiari e non attestate altrove. Pare dunque di poter dire che l'italiano del rebus non è una varietà autonoma di lingua, ma una modalità d'uso della lingua. Le modalità d'uso, come, per fare un altro esempio, la lingua dei mass media (...), non si situano in maniera chiara su uno o più degli assi di variazione sociolinguistica, ma sono costituite da una commistione di tratti non unitari appartenenti a registri presenti nella comunità dei parlanti, ma tanto eterogenei che «non [è] possibile determinarne proprietà costanti e comuni» (...) cosicché sono caratterizzabili «non per tratti peculiari, quanto piuttosto per certi tipi di testo o generi che sono loro propri» (...): nel nostro caso si tratterà, si capisce, dei testi enigmistici che abbiamo imparato a chiamare prime letture.

In fondo, l'ampio ventaglio di registri messo all'opera per comporre le prime letture e il conseguente sfruttamento totale delle possibilità offerte dalla lingua sono dovuti al fatto che il rebus è esso stesso enigmistica, che alcuni definiscono proprio come l' arte del potenziale. Questo sfruttamento, inoltre e per altro verso, non fa altro che mettere in luce «la straordinaria "forza" di ogni sistema linguistico quando ne venga sospesa momentaneamente la norma» con finalità ludiche, ingegnose o scherzose (...).

Le considerazioni linguistiche radunate in questo libro hanno avuto anche l'ambizione di aiutare il solutore di rebus, come ribadito più volte, offrendogli un compendio di ciò che di insolito e inatteso può trovare nelle prime letture. Se chi scrive può, però, dare un consiglio ai lettori che vogliano cimentarsi nella soluzione dei rebus, questo sarà di essere costanti nel provare a risolvere e di non scoraggiarsi anche quando si sia costretti a leggere le soluzioni. La mente enigmistica è come un muscolo e come tale migliora, in velocità e robustezza, con la pratica. Inoltre con l'esercizio e l'esperienza il solutore entrerà in possesso di un repertorio di lessemi e tecnicismi propri del rebus, e, pian piano, di corrispondenze pressoché fisse tra immagini della vignetta e parole della prima lettura. Per chi si esercita con il rebus assiduamente, «una parte delle chiavi sono [...] talmente frequenti [...] e cristallizzate (basti pensare a reo, epa, aro, moro) da essere legate secondo un codice fisso alla sequenza di suoni della soluzione di prima lettura» (...), tanto che si potrebbe dire che per alcuni autori di rebus e per i solutori più esperti alcune accoppiate immagine-parola stiano diventando quasi logogrammi, dal momento che al comparire di una data figura nel gioco si può assistere a un'automatica conversione in una e una sola realizzazione fonetico-grafica. Si percorre, così, ma al contrario, il percorso che si è descritto nei paragrafi 1.3.1-1.3.2.: nel caso della nascita della scrittura, una determinata fonetizzazione è venuta a corrispondere a un determinato logogramma; nel caso degli appassionati di rebus esperti, a un'immagine viene a corrispondere immancabilmente una determinata fonetizzazione (o grafizzazione alfabetica). I rebussisti rinnovano così, in un certo senso, l'eterno rapporto che ci pare legare l'immagine e la parola nelle lingue degli esseri umani.

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