Autore Luca Molinari
Titolo Le case che siamo
Edizionenottetempo, Roma, 2016 , pag. 96, ill., cop.fle., dim. 14x20x0,7 cm , Isbn 978-88-7452-602-4
LettoreGiorgio Crepe, 2017
Classe architettura , design , storia sociale












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                            9


La casa solida                         17

La casa dominante                      25

La casa sacra                          33

La casa trasparente                    42

La casa democratica                    49

La casa senza radici                   59

La casa invisibile                     68

La casa che sono                       77


Bibliografia ragionata                 84

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Introduzione


Una lunga teoria di mani fotografate una dopo l'altra. In ognuna un cellulare su cui leggere un'immagine, il ricordo di una famiglia, di amori lontani, del proprio paese. Sono le centinaia di migliaia di telefonini che accompagnano i migranti che premono a est e a sud dei confini europei, tutti con pochi averi addosso e una connessione attiva in tasca. Nella scatolina di plastica e sulle schede made in China ci sono tutta la vita e il capitale di quelle persone, la memoria smaterializzata di una casa che le accompagna nel viaggio ed è pronta a diventare nei desideri un nuovo luogo accogliente in cui tornare a vivere.


Nella pagina a fianco una pubblicità di Ikea che con la sua visionarietà addomesticata e semplice ha cambiato gli interni di milioni di abitazioni di studenti, giovani coppie, famiglie da prima casa e primo salario. Gusta la vita. Riscopri il sapore delle piccole cose, Giocare è contagioso. Non smettere mai, Piú cotone alla tua casa, Riciclare conviene.

Le immagini sono calde, una luce diffusa accarezza i legni neocountry, le tovaglie ben disegnate, le stoviglie coordinate con i sorrisi e i corpi della famiglia ideale o dalla sessualità politicamente corretta.


Pochi giorni prima quello stesso quotidiano ospitava tra le sue pagine un lungo servizio sulle nuove forme di sharing nei condomini italiani. Tutto diventa smart e friendly grazie alla tecnologia che apre porte da sempre chiuse, permettendo a una folla di famiglie tra loro separate di diventare una nuova, temporanea comunità che si appropria degli spazi inutilizzati delle palazzine, ripensando un modo diverso di stare insieme e di fare fronte alle difficoltà comuni. Si fa la spesa in gruppi di acquisto, le portinerie dismesse accolgono biblioteche aperte, sui mezzanini scorrazzano i ragazzi di passaggio da un appartamento all'altro.


In un quartiere emergente di Londra, in uno stabile abbandonato degli anni settanta, una coppia di giovani imprenditori ripensa il concetto di temporary office con un successo clamoroso. Affida la progettazione degli interni a uno studio spagnolo molto cool, acquista mille piante e altrettante sedie usate, offre in gestione il bar-ristorante a una nota star della cucina. Le pareti che dividono gli spazi sono curve e in plexiglas, a terra moquette, tra le pareti e i soffitti corrono gli impianti e i tubi d'aerazione, nella sala centrale – dedicata ai lavoratori singoli – il tavolo a forma di ferro di cavallo la sera viene sollevato dal suolo per lasciare spazio a classi di yoga o a incontri pubblici. L'ingresso non è libero perché lo spazio è organizzato come un club a cui si accede su invito o versando una retta significativa. La selezione è fatta a partire dal potenziale creativo ed economico degli utenti. La compagnia incita a non fermarsi più di un paio d'anni, il tempo massimo ipotizzato per il successo del tuo business, e l'uscita dei vecchi soci è sempre festeggiata con un party. L'atmosfera è informale, quasi domestica. Piuttosto che in un ufficio sembra di stare in una grande casa per studenti o in una comune ben organizzata. L'impresa non poteva che chiamarsi Second Home.


La casa – il luogo piú amato e stabile nella nostra vita, lo spazio in cui pensiamo di poterci rifugiare e in cui costruire frammenti sicuri della nostra esistenza, la memoria più resistente in una quotidianità fatta di continui cambiamenti – è probabilmente il fenomeno su cui si sta meno riflettendo in questo primo quarto di nuovo secolo. Eppure, non c'è notizia che attraversiamo e viviamo che manchi di confrontarsi con questa parola cosí semplice e naturale.

La casa mancata e miraggio per milioni di richiedenti asilo e migranti; la casa come bene rifugio, desiderio di borghesi e non, in tutto il mondo; la casa come scena del delitto, del male celato, delle nevrosi domestiche accolte nell'infinita serie di villette sparse per le periferie metropolitane; la casa come luogo politico in cui il privato si fa collettivo trasformandosi in un progetto nuovo.

La casa è oggi uno dei luoghi universali da cui ripensare noi stessi e il mondo che abitiamo: è diventata, di fatto, un reale laboratorio di comprensione e trasformazione del mondo.

La casa è tra i termini che non metteremo mai in discussione, eppure in realtà la sua natura sta cambiando radicalmente, e molti sono i pilastri della nostra storia recente che vengono intaccati da questo processo. Tornare a riflettere sul senso profondo che tale parola assume per ognuno di noi, credo sia importante per ridare valore a uno dei fondamenti della nostra vita privata e pubblica.

In un mondo in cui troppo spesso le parole non riescono più a esprimere i fenomeni che viviamo, ricostruire il nostro vocabolario elementare significa ridare senso alle nostre azioni e alla consapevolezza che dovrebbe accompagnarle.

Ripartire dalla casa, dalla casa che noi siamo e che abitiamo distrattamente, comporta oggi ritornare ai gesti primari, ai simboli che si rinnovano, alle visioni che per millenni hanno dato valore ai nostri luoghi e che adesso spingono ancora sulla nostra realtà per essere ripensate e rivitalizzate. Insieme, vuol dire recuperare quello che desideriamo ed esprimiamo ogni volta che abitiamo un luogo, che lo trasformiamo e condividiamo con altri. Acquisire consapevolezza e costruire un pensiero critico, autentico ed equilibrato sui luoghi, sulle tante case che siamo e che consumiamo, significa formare lentamente le basi per una trasformazione delle realtà che attraversiamo sempre piú nomadi e distratti, significa risemantizzare un mondo da cui arriva la richiesta di un rinnovamento radicale e urgente.


L' habitus – l'abitare ma anche l'abito che portiamo – ci protegge e rappresenta come persone e, insieme, come cittadini. Viviamo un mondo elastico che patisce forse la mancanza di una visione mediana sulle cose, sempre troppo particolare o eccessivamente ampio il nostro sguardo sul mondo, spesso vittima della malinconia per un passato idealizzato, oppure ipnotizzato da un'immagine di futuro rassicurante o apocalittico (a seconda dell'umore): tutto, piuttosto che guardare con amore e visionarietà al presente. Lo specchio di questo nuovo tempo è il nostro modo di abitare e consumare il mondo intorno, che si incarna alla perfezione nei numerosi universi domestici realizzati nell'arco della nostra vita.

Quando pensiamo alla parola "casa", si materializzano sorrisi, rimpianti, dolori, odori, gesti elementari e segreti che si sono depositati nella nostra mente grazie alla consuetudine che solo la quotidianità può generare.


La casa è il luogo in cui la nostra dimensione pubblica è stata spesso rielaborata e filtrata attraverso un tempo personale e di piccole azioni che definiscono una distanza utile. Oggi questa misura pare assottigliarsi sempre di piú sotto la pressione del tempo digitale che preme riducendo i momenti di distacco e di silenzio. A causa del progressivo contrarsi e indebolirsi di questa dimensione, lo spazio della casa sembra essersi ripiegato su se stesso mettendo in discussione quella barriera artificiale, ma molto efficace, che era presente tra privato e pubblico nella civiltà borghese e urbana degli ultimi due secoli.

Tutti questi elementi ci raccontano di un mondo che pensiamo di conoscere ma che tra le sue pieghe nasconde le tracce ogni giorno piú visibili di una metamorfosi da indagare per non correre il rischio di esserne travolti.


Da sempre mi occupo e vivo di architettura, è il filtro con cui leggo il mondo. Riflettere oggi sulla casa è come guardare negli occhi e nel cuore del mondo che abitiamo e che sta cambiando. Non ho mai pensato all'architettura come a uno stile che fosse espressione del suo tempo, quanto a uno spazio denso e complesso in cui tecnica, talento creativo, desideri, spirito del tempo e umanità s'impastano dando forma a qualcosa che costantemente condiziona la nostra vita, nel bene e nel male. M'impressiona come ormai le ricerche e la maggior parte degli studi si concentrino sullo spazio pubblico e sulla città come fenomeno globale, mentre la questione dell'abitare rimane schiacciata tra i due poli opposti del social housing e dell' interior design. Poche pubblicazioni, tra cui di recente la rivista Apartamento, guardano allo spazio della casa come a un luogo universale da interrogare con affetto e libertà, ma è ben poco rispetto ai grandi filoni di studio contemporanei. Piuttosto, oggi l'arte e il cinema ci aiutano a cancellare quel filtro ipocrita rappresentato dalla privacy domestica, nata a tutela di mondi fisici, mentali e simbolici che andrebbero invece scandagliati per produrre visioni utili per i prossimi decenni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 57

Il Novecento ci ha insegnato a vivere in ambienti sempre piú densi e verticali. Un tempo le altezze erano esclusiva degli dei e dei regnanti, ma il secolo appena trascorso ha reso democratico anche l'accesso al cielo: il balcone vista golfo per migliaia di persone è diventato un diritto ratificato dalla speculazione edilizia. E la massima modernista del salire in altezza per non consumare territorio è forse una delle lezioni da non dimenticare nel nuovo secolo. Le nostre metropoli stanno crescendo per sommatorie verticali in cui si collocano giardini pensili e spazi pubblici a decine di metri d'altezza nel cuore di architetture immaginate per ospitare sempre piú persone e funzioni. Madrid, Singapore, Amsterdam, Hong Kong sono state tra le città pioniere nell'accogliere questi esperimenti sociali che, malgrado il disegno ammiccante e aggiornato delle architetture, puzzano ancora terribilmente di Novecento. Sogno per i progettisti e le riviste di settore, incubo per chi vi abita che non si rassegna a corridoi lunghi decine di metri, a porte e finestre tutte uguali, a tagli di alloggi figli della prefabbricazione piú spinta.

Il bilancio è difficile da fare perché forse il problema da risolvere è impossibile. Come dare case adeguate, dignitose e accoglienti a una popolazione mondiale di quasi otto miliardi di abitanti? Come scampare alla logica della sostenibilità finanziaria di operazioni che metterebbero in ginocchio l'amministrazione piú solida?

C'è da diffidare di chi prospetta un futuro felice di autocostruzione 2.0, perché non sono persone interessate a guardare a una massa crescente di fasce povere che dalle campagne del Sud del pianeta si muovono per popolare metropoli soggette a una crescita vertiginosa. Come sarebbe bello pensare a un mondo in cui poter vivere per piccole comunità, case basse, legate tra loro da una crescita lenta. Villaggi in cui l'unità di vicinato, una relazione equilibrata tra vuoti e pieni, costruiscano ancora ambienti da abitare con umanità. Perché allora la maggior parte di questi luoghi è stata abbandonata dagli abitanti per essere ricolonizzata nella veste di casa di vacanze da benestanti cittadini del Nord del mondo?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 80

Queste sono le case che sono io. E voi, che case siete?

Niente è piú importante dei luoghi che abitiamo, anche se crediamo di non accorgercene. E la casa, quel luogo che ci abita e che si veste intorno a noi fino a diventare parte della nostra anima, è probabilmente l'ambiente universale che ci è piú necessario.

Casa è una parola che ci accompagna in ogni momento. È necessità primaria, è desiderio, è forza, è famiglia, è costruzione, è guscio, è tormento e labirinto, sono i sensi, tutti, gli odori che dal naso e dal cuore diventano la memoria e la radice del nostro essere.

Noi abbiamo un naturale istinto spaziale che ci viene dalla maternità e che ci accompagna lungo tutta la vita. Nove mesi nel ventre formano la prima esperienza di un luogo abitato nella maniera piú assoluta. Dipendiamo da esso, lo misuriamo progressivamente allungando mani e piedi. Viviamo in uno spazio pieno di rumori, ritmi, colori, luci e ombre, movimento, scosse e voci che ci arrivano filtrate da lontano. Spesso mi chiedo cosa realmente viva un bambino nel ventre materno, soprattutto nelle ultime settimane prima di vedere la luce. Ma sono certo che la memoria profonda di questa esperienza costruisce da subito il nostro modo di sentire, misurare e abitare lo spazio all'esterno. E forse è anche per questo che pensiamo alla casa in maniera cosí profonda e naturale, perché è l'immagine più vicina al primo luogo che ci ha accolto. La casa è femmina come il ventre che ci ha protetto, e da questo luogo del corpo, dell'anima e dello spirito deriva quasi tutto.

La casa definisce un confine pulito e colorato in contrasto con la nuda terra e la Natura, perché è un artefatto e, come tale, si contrappone al mondo esterno, ai suoi agenti naturali che in fondo terrorizzano l'uomo.

La casa è l'inizio di un universo di tecniche e sperimentazioni che abbiamo chiamato nel tempo architettura. È a questo luogo, a questa idea primaria che l'architettura è sempre tornata, ogni volta che sentiva il bisogno di riformulare i propri caratteri e sperimentare. L'Abate Laugier, teorico francese del XVIII secolo, identifica in una capanna di legno l'inizio dell'architettura e degli ordini classici intuendo con i disegni quello che Voltaire racconterà nel Candide.

L'idea di una casa naturale diventa lungo due secoli la magnifica ossessione per gli architetti moderni. Le Corbusier concepirà il suo Cabanon a Cap Martin sulla Costa Azzurra come il luogo della sperimentazione radicale dove tutto è ridotto all'essenziale in una combinazione armonica tra proporzioni, colori, dettagli e materiali che diventa manifesto del vivere lo spazio contemporaneo. Lí, Corbu viveva allo stato naturale. Nudo, liberato da ogni vincolo, creatore che da una piccola finestra guardava al Mediterraneo e ai suoi miti eterni.

| << |  <  |