Copertina
Autore Guido Moltedo
CoautoreMarilisa Palumbo
Titolo Barack Obama
SottotitoloLa rockstar della politica americana
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 , pag. 144, cop.fle., dim. 15x23x1,3 cm , Isbn 978-88-02-07777-2
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe paesi: USA , biografie , destra-sinistra
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Indice


  3 Introduzione

  7 Capitolo primo   Quel ragazzo nero dal nome buffo

 19 Capitolo secondo Da Alego a Honolulu

 35 Capitolo terzo   Un dottorato per i poveri

 53 Capitolo quarto  Le ambizioni di un junior senator

 75 Capitolo quinto  Gesù, perché regalarlo alla destra?

 91 Capitolo sesto   Americano e africano

111 Capitolo settimo Il prisma della città ventosa

123 Capitolo ottavo  I soldi e l'asino nella «rete»


 

 

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INTRODUZIONE



La storia del primo nero alla Casa Bianca comincia alla fine di un luglio afoso, a Boston. Θ il 2004, mancano tre mesi alle elezioni presidenziali e Barack Obama è solo un politico locale candidato al senato degli Stati Uniti. Il suo appassionato e lucido discorso a sostegno della candidatura di John Kerry è più che una rinfrescante sorpresa per la platea. Le sue parole elettrizzano la convention democratica.

Nel settore stampa, proprio sotto uno degli skybox per i vip dove siedono Jimmy e Rosalynn Carter con il regista Michael Moore, gli inviati di tutto il mondo sono conquistati da questo oratore dal nome strano e pericolosamente simile a quello di Osama. Tra i giornalisti gira qualche binocolo per vederlo meglio, nel catino bollente del FleetCenter è un mare di cartelli azzurri col suo nome agitati dai delegati con un tifo da stadio, tra i bagliori dei flash delle digitali. Alla fine del suo keynote address, tutti parleranno di lui come di un naturale aspirante alla presidenza americana. Il giorno dopo, sulla stampa statunitense, sarà un coro di hurrah per la rivelazione del Partito Democratico. E incontrandolo nei lunghi e affollati corridoi del palazzo dello sport bostoniano, apparirà più eretto e alto del suo metro e ottantatre, lui di solito un po' ricurvo, senza neppure sfigurare al fianco del torreggiante Jesse Jackson, fino a quel giorno la grande star dell'universo africano-americano.

Da allora, è stata una marcia trionfale. Non si concluderà necessariamente con la presa della Casa Bianca. Θ un percorso accidentato, con più d'una insidia al giorno. Potrebbe raggiungere «metà» della mèta: la conquista della vice-presidenza. In ogni caso, Barack Obama non è destinato a finire negli archivi della storia politica americana come la meteora di una breve stagione.

Θ uno dei cento membri del senato degli Stati Uniti, un mandato della durata di sei anni, nella maggioranza dei casi rinnovabile più volte. Lo vedremo a lungo protagonista del più potente «club» politico del mondo. E nel Partito Democratico è ormai un leader carismatico.

Ma senza ipotecare il suo futuro, la strada percorsa finora, la carriera, i tratti peculiari del suo personaggio, ci parlano già di un protagonista capace d'incarnare e simboleggiare il tanto atteso cambiamento della politica statunitense. Il suo voler andare oltre gli steccati razziali — per quello che sono e rappresentano, dal punto di vista dei bianchi ma anche dei neri — non in virtù di uno slancio ideologico velleitario, ma della presa d'atto e dell'elaborazione della nuova «chimica» etnica e culturale degli Usa e del mondo globalizzato. Il suo voler superare le contrapposizioni figlie dei conflitti degli anni Sessanta. Il suo esibito rapporto, anche «politico», con la fede. Θ il profilo di una persona in cui, in modo naturale e autentico, inclinazioni e pratica politica si sposano perfettamente.

Non rappresenta, per questo, l'ennesima proposizione della «terza via». Negli Stati Uniti il termine che definisce quella prospettiva politica è triangulation, «triangolazione», ed è una parola che la sinistra della base democratica semplicemente detesta. Fu coniata da Dick Morris, lo stratega di Bill Clinton, regista della sua rielezione nel 1996 all'insegna dell'appropriazione di temi cari ai repubblicani (riforma del welfare, tagli fiscali per il ceto medio, bilancio pubblico in pareggio), rimodellati in chiave democratica. E su quella scia, a parti rovesciate, si mosse poi il successore di Clinton, George W. Bush, con il suo compassionate conservatism. Oggi è Hillary Clinton a essere vista come l'erede e l'alfiere della triangulation, che, nella vulgata corrente dei progressisti, è diventata sinonimo di mediazione a oltranza, di un centrismo più compromissorio che moderato.

La scommessa di Barack Obama — per ora soprattutto generazionale — è di tradurre la sua ambizione in una visione. In un chiaro e persuasivo disegno politico. Necessario per vincere elettoralmente, ma soprattutto per governare la più grande potenza del mondo, dopo la troppo lunga stagione neoconservatrice.

Ma il lato che rende ancor più interessante la sua ascesa è che essa riflette e riassume gli aspetti salienti dell'attuale lotta politica americana: il futuro del Partito Democratico, il rinnovamento generazionale, e non solo, della scena washingtoniana, il finanziamento delle campagne elettorali, il ruolo dei nuovi media. Uno scenario influenzato dalle novità nel paesaggio sociale e politico statunitense: la nuova composizione etnico-razziale, l'economia nella globalizzazione, il ruolo della religione.

Il nostro lavoro intende collegare costantemente il percorso biografico di Barack Obama con i diversi aspetti di un panorama sociale, culturale e politico in evoluzione. Il suo tragitto aiuterà a capire come è cambiata e come potrà ancora cambiare l'America; e, a sua volta, lo scenario intorno a lui aiuterà a spiegare perché il suo successo, benché repentino, non è poi così sorprendente.

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Il successo di Barack Obama è enorme ed è trasversale.

Innanzitutto fa scattare potentemente un meccanismo di identificazione. In quel suo essere un caleidoscopio etnico-culturale, che a certi vecchi intellettuali liberal lo fa apparire un po' troppo eclettico politicamente, si rispecchiano i figli di un'America notevolmente trasformata negli ultimi decenni, nella sua composizione antropologica e sociologica. «Obama rappresenta questo cambiamento », sentenzia il blogger ventenne PsiFighter37.

La verità è che, nei giovani più impegnati, c'è una vera e propria rivolta verso il modo dominante di far politica, fortemente contrappositiva e «negativa» nella fase della campagna elettorale, con duri confronti che ancora rispecchiano le priorità ideologiche care ai babyboomers; e poi, nella fase del governo, tendente inesorabilmente al compromesso e all' inciucio.

Θ un'agenda politica di contrapposizioni cristallizzate e di valori ormai datati, priva d'interesse per una popolazione giovanile che — secondo indagini condotte nei campus — ha già digerito gran parte dei temi che dividono il mondo dei genitori. Sostiene, all'ottanta per cento, l'intervento pubblico per alloggi e occupazione a favore dei bisognosi, al 63 per cento le unioni civili, al 56 per cento il matrimonio gay, al settanta per cento s'oppone alle discriminazioni anti-gay sul lavoro. E al 76 per cento ritiene che gli immigrati debbano godere degli stessi diritti di tutti gli altri.

Θ la generazione Mtv, post-ideologica, cosmopolita che dà per scontate certe conquiste sociali raggiunte a caro prezzo nei precedenti decenni, ma tuttora «divisive» per le vecchie generazioni. E che considera Obama il superamento di un certo professionismo della politica: in lui «quel che vedi è quel che hai», dice ancora PsiFighter37. Insomma, il suo oltrepassare vecchi schemi e antichi steccati e il suo richiamo costante a guardare al futuro più che al passato, trovano facilmente una sponda in questa gioventù. Ma trovano anche facile ascolto un po' in tutte le fasce di età dell'elettorato meno politicizzato, in un paese evidentemente stanco di risse imposte dall' establishment e desideroso di superare la guerra civile culturale che fa soprattutto la gioia dei media.

Nel suo discorso alla convention di Boston, il passaggio che riscosse più applausi è diventato il manifesto di questo modo di pensare. Θ l'«Obama-pensiero» ridotto in pillole.

«A fianco del nostro famoso individualismo, c'è un altro ingrediente nella saga dell'America, la credenza secondo la quale siamo tutti connessi come un solo popolo [...]. Θ questa credenza fondamentale — io sono il custode di mio fratello, io sono il custode di mia sorella — che fa funzionare questo paese. Θ ciò che ci consente di coltivare ciascuno il proprio sogno, pur costituendo un'unica famiglia americana. E pluribus unum, da tanti una sola cosa».

Sono parole che riflettono un senso di gratitudine verso quella cultura civica americana, che, nelle sue espressioni migliori, è in grado, appunto, di «produrre» un personaggio con il curriculum di Obama. Ma soprattutto stigmatizzano l'urgenza di chiudere un'epoca della politica americana. Un'operazione che egli si candida a portare a conclusione.

Scrive Obama in The Audacity of Hope:

«Le vittorie che ha conseguito la generazione degli anni Sessanta – l'ammissione alla piena cittadinanza delle minoranze e delle donne, il consolidamento delle libertà individuali e la salutare disposizione a mettere in discussione l'autorità – hanno fatto dell'America un posto migliore per tutti i suoi cittadini. Ma quel che si è perso nel processo, e deve ancora essere colmato, è la condivisione di certi fondamentali – quel senso di fiducia e comune sentire – che ci fa andare avanti tutti insieme come americani».

Θ l'ideologia di un «civic republican» più che di un liberal, di «uno che crede nella virtù civica, e nella possibilità di buoni risultati negoziati in buona fede», scrive Michael Tomasky. Il suo non è il credo di un «guerriero politico». D'altra parte, lui, non lo è innanzitutto per temperamento. Il suo rischio, anzi, è quello di scivolare facilmente verso il cerchiobottismo. Che riuscirà ad allontanare solo riempiendo di contenuti forti e ben percepibili il suo credo nell' «oltre la destra e la sinistra».

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Capitolo sesto
AMERICANO E AFRICANO



Succede a Chicago. Gli automobilisti di pelle scura sono fermati e perquisiti dalla polizia municipale con una frequenza sproporzionata rispetto alla percentuale della popolazione di colore della metropoli. 27 per cento in più, per la precisione. Uno studio specifico, reso pubblico nel 2005 e promosso nel 2003 dall'allora senatore dello stato dell'Illinois, Barack Obama, fece un certo scalpore sulla stampa locale, e non solo, sollevando ancora una volta il tema della discriminazione nei confronti delle minoranze, specie di quella africano-americana.

Che si discuta, nelle sedi politiche e sui giornali, di un fenomeno come il comportamento scorretto dei vigili urbani, significa che la sorveglianza verso ogni forma di discriminazione è diventata stretta nell'America degli anni 2000. Buon segno. E tuttavia resta la sostanza del problema: anche negli aspetti, solo apparentemente secondari, della vita di tutti i giorni, le minoranze, soprattutto i neri, sono ancora lontane da un'effettiva parità di diritti e di condizioni socio-economiche rispetto alla maggioranza bianca.

Essere neri significa «essere pedinati dai vigilantes mentre fai la spesa in un grande magazzino, vedersi consegnate le chiavi dell'auto da una coppia di bianchi mentre aspetti tu il valletto fuori del ristorante, o essere fermati dall'auto della polizia senza alcuna ragione». Esperienze anche della vita di Barack Obama che pure «non è certamente quella tipica di un africano-americano». Ma bastano per dire che non c'è stato alcun progresso, negli ultimi decenni, nell'evoluzione della condizione dei neri americani? La risposta di Obama è un rotondo no: c'è stato, invece, «un profondo spostamento in avanti nelle relazioni razziali nel corso della mia vita. Θ come avvertire un cambiamento di temperatura. Quando sento qualcuno nella comunità nera negare questi cambiamenti, penso che non solo disonori coloro che hanno lottato per noi, ma anche ci derubi del nostro dovere di completare il lavoro che hanno iniziato. Ma proprio mentre insisto che le cose sono migliorate, sono consapevole anche di questa verità: meglio non è abbastanza bene».

Nel complicato e scivoloso scenario di cui si trova a essere obiettivamente protagonista - lo scenario delle relazioni interrazziali - Barack Obama tenta di disegnare un suo percorso che gli consenta di superare gli schemi consolidati e le rigide contrapposizioni ideologiche. Con la preoccupazione costante di non apparire troppo «post» e, soprattutto, di non figurare come una sorta di «negazionista» del problema razziale.

Quando alla convention di Boston aveva declamato con grande ispirazione che «non c'è un'America nera e un'America bianca e un'America latina e un'America asiatica, ma ci sono gli Stati Uniti d'America», più d'un commentatore lesse in quelle parole «l'approdo a una "politica post-razziale"» o l'ammissione di «vivere già in una società daltonica». Quei commenti l'hanno messo in guardia. Obama sa di doversi tener stretto il blocco sociale africano-americano e, al tempo stesso, sa di rivolgersi a una platea molto più ampia, a maggioranza bianca: ai primi deve parlare un linguaggio in sintonia con i loro problemi e i loro vissuti, senza alcuna complicità, tuttavia, verso certe forme di autoindulgenza e certi eccessi di vittimismo; ai secondi, deve comunicare un messaggio di superamento delle vecchie divisioni, sollevandoli da sensi di colpa che appartengono ai loro padri, senza per questo liberarli dall'evidenza di una società ancora attraversata da profonde disparità e ingiustizie, molte delle quali coincidono con le divisioni razziali ed etniche.

A rendergli più facile il compito di districarsi tra queste istanze contrastanti è lo straordinario mutamento demografico che è in corso in America da un paio di decenni a questa parte e che scompagina in profondità il vecchio mix etnico-culturale, mettendo in discussione politiche legislative immaginate per una società dominata dal bianco e nero e oggi inadeguate alla nuova composizione multicolore. Dove anche l'antica componente africano-americana, legata alla storia dello schiavismo e successivamente alle vicende della lotta per i diritti civili, deve misurarsi con l'ondata migratoria nera proveniente dall'Africa e dai Caraibi, culturalmente, socialmente, linguisticamente distinta e distante.

Θ un terreno talmente sdrucciolevole che perfino i termini e le definizioni si caricano di implicazioni rilevanti. Quando, nel 1988, il reverendo Jesse L. Jackson convocò una conferenza stampa per invitare gli americani, da quel momento in poi, a riferirsi ai neri con il termine African-American, spiegò che la denominazione proposta corrispondeva alla loro collocazione «nel proprio contesto storico». «Ogni gruppo etnico in questo paese – ragionava l'erede di Martin Luther King – ha un riferimento a una qualche base territoriale, a una qualche base storico-culturale. Gli africano-americani hanno raggiunto quel livello di maturità culturale!».

Prima di quella svolta, i discendenti degli schiavi erano stati designati con termini che indicavano il colore o la quantità di sangue africano nelle vene, secondo il «one-drop rule», la regola secondo cui anche una sola goccia di sangue africano ti fa uscire dalla comunità bianca. Il censimento del 1890 chiedeva ai neri di qualificarsi, scegliendo tra quattro etichette: Black, Mulatto, Quadroon (un quarto di sangue nero), Octoroon (un ottavo di sangue nero). Nel secolo scorso si passò a Negro, poi a Black, quindi ad Afro-American (con l'accento sul look «afro», lo stile e la capigliatura del Black Power e di militanti come Angela Davis), e infine ad African-American, nel senso spiegato da Jesse Jackson.

«Ho dovuto riempire diverse caselle nella mia vita», racconta Donna Brazile, 44 anni, stratega elettorale della campagna di Al Gore nel 2000. «Nel mio certificato di nascita sono identificata come Negro. Quindi Black. Adesso mi qualifico senza esitazioni come African-American. Anche se con un gruppo di amiche ci chiamiamo le colored girls, come a ricordare a noi stesse che non siamo tanto lontane neppure da quello».

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Capitolo settimo
IL PRISMA DELLA CITTΐ VENTOSA



La chiamano «The Second City». In realtà, con una popolazione di oltre 9.4 milioni di abitanti, è la terza città metropolitana in America, dopo New York e Los Angeles. La chiamano anche «The Windy City», ma ce ne sono tante altre, di città ventose, nel nord degli Stati Uniti. Θ la città che ha visto Barack Obama maturare e affermarsi politicamente. Chicago. Metropoli multi-culturale, con una rilevante componente africano-americana e con una miscela etnica in costante e rapido cambiamento. Cuore economico nel centro del Midwest, che ha attraversato le diverse ere dello sviluppo, dall'agricoltura e dall'allevamento alla grande industria conserviera e manifatturiera, fino all'economia finanziaria e immateriale. Città-chiave del Partito Democratico, forte di un'organizzazione locale per molti versi simile a quella dei partiti di massa europei, degenerazioni clientelari comprese. Città di cultura, sia «alta» sia popolare, centro universitario d'eccellenza e culla del blues e della musica nera. Non ultimo, città carica di valenze simboliche: epicentro del Sessantotto studentesco e poi, negli anni Ottanta, della rivincita reaganiana, grazie al motore ideologico dei Chicago Boys. Θ una città dalle tante sfaccettature, Chicago, un prisma in cui si rispecchia bene la complessa biografia di Barack Obama, politica e non solo.

Nella metropoli dell'Illinois era stato per la prima volta a undici anni, un'estate, poco dopo la breve, ultima, visita di suo padre a Honolulu. Era arrivato il momento di conoscere il continente, aveva decretato la nonna Toot, forse anche nel tentativo di aiutare Barack a elaborare il dolore del nuovo, definitivo distacco dal papà. Seattle, Disneyland, il Gran Canyon, le Great Plains fino a Kansas City, poi lo Yellowstone Park. Un mese in giro sugli autobus Greyhound e nei motel della catena Howard Johnson. Ci fu anche un tappa, tre giorni, a Chicago, nel South Loop. Nella metropoli lungo il lago Michigan sarebbe tornato quattordici anni dopo, un'altra estate, fresco di specializzazione alla Columbia. Sarebbe diventata la sua città. E la sua attività di community organizer si sarebbe via via trasformata in impegno politico professionale.

Nella metropoli in cui si mangia pane e politica e dove vigono ancora regole e rituali molto locali, l'affermazione di un personaggio venuto da fuori ed estraneo a quei meccanismi di cooptazione ha qualcosa di notevole.

«Ho imparato a fare politica a Chicago», ripete spesso, con il piglio di chi mette bene in chiaro che, dietro il suo aspetto affabile, c'è una scuola ruvida, che non consente debolezze e cedimenti. La sua città, avverte, «non è certo conosciuta per essere un posto che produce imbelli. Se ci danno addosso, rispondiamo».

La politica, a Chicago, si chiama ancora Daley. Da oltre mezzo secolo, quel nome, non solo per i chicagoans, è sinonimo di un modo peculiare, e discutibile, di gestire il potere. Prima che Richard J. Daley, Dick per gli amici, fosse eletto sindaco, nel 1955, vigeva un sistema politico frammentato e inefficiente, condizionato dagli interessi dei quartieri e dei clan, a detrimento dell'interesse generale della città, una metropoli che riuniva e riunisce in sé diverse comunità.

In epoche diverse è stata la più grande città lituana al mondo, la seconda più grande città ceca, la terza ebraica, svedese, polacca e irlandese. Senza contare le forti presenze italiana e africano-americana, e adesso quella dirompente dei latinos.

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D'altra parte, anche un candidato come John Kerry, attentissimo a condurre una campagna all'insegna del moderatismo, ha finito per polarizzare lo scontro elettorale, nel 2004, sugli anni del Vietnam, alimentando così la mobilitazione della sinistra altrimenti riluttante intorno alla sua candidatura, ma contemporaneamente sollecitando anche l'elettorato conservatore più apatico, abilmente stimolato dagli strateghi repubblicani, anche loro con un'offensiva propagandistica basata sulla rievocazione della guerra vietnamita.

Andare al di là di quella polarizzazione è l'obiettivo di Barack Obama, che, per età anagrafica e per biografia, incarna «the next generation», la nuova generazione, la prima libera dall'esperienza e dal retaggio degli anni Sessanta.

In un'intervista al «New York Times» poco prima delle elezioni di midterm, aveva, appunto, descritto se stesso come il rappresentante di una nuova leva di dirigenti politici. Alla domanda se avvertiva un vuoto da riempire nel campo democratico, la risposta era stata un interrogativo. L'interrogativo che serpeggia da tempo nell'elettorato democratico: «Vogliamo o no andare oltre la politica della terra bruciata, la politica fortemente ideologica in cui ci siamo insabbiati negli ultimi decenni?». Proseguì, affermando di ammirare il presidente Bill Clinton per il suo sforzo teso a costruire una terza via centrista tra i democratici e i repubblicani. Un tentativo, tuttavia, in qualche modo compromesso dal suo punto debole: Clinton, ragionava Obama, è uno che viene dall'epoca degli anni Sessanta, con tutto quel che ne consegue: il Vietnam, la droga, la libertà sessuale. Un retaggio che condivide con Hillary. «Anche se il suo istinto centrava il bersaglio e, secondo me, capiva pragmaticamente e intellettualmente che l'America voleva andare oltre queste categorie, era in un certo senso intrappolato nella sua biografia». Lui, no, invece. «Quel che penso e quanto vado dicendo mi viene facile per il fatto che sono meno radicato in certe questioni di allora».

Barack non si sente certo estraneo alla cultura della contestazione. «Ho sempre sentito un curioso rapporto con gli anni Sessanta – confessa in The Audacity of Hope –. In un certo senso sono un prodotto puro di quell'epoca. In quanto figlio di un matrimonio misto, la mia vita sarebbe stata impossibile, le opportunità totalmente precluse, senza le rivolte sociali che ebbero luogo allora». Ma pagato il tributo alle conquiste di quell'era, Obama non fa che indicarne i limiti, specie quando quel retaggio diventa il volano delle dinamiche conflittuali odierne. «La nostra politica – si sfoga con Jonathan Alter – è molto ancorata agli anni Sessanta. Ci sono gli anni Sessanta, la reazione agli anni Sessanta, la contro-reazione nel Partito Democratico agli anni Sessanta. Del Vietnam, della rivoluzione sessuale, del movimento per i diritti civili, abbiamo parlato, e con dei risultati, per oltre una generazione, ma tutto questo non descrive adeguatamente le sfide che abbiamo di fronte oggi. La gente della mia età, io credo, trova improduttive molte di quelle divisioni. Vediamo molti di quei problemi diversamente, temi come razza, fede, economia, politica estera e il ruolo delle forze armate». «La ragione per cui la nuova generazione è in grado di vedere le cose in modo diverso – concede il senatore – è in parte per merito delle battaglie combattute dalla precedente generazione. Ma la nuova si sente in una certa misura liberata da quelle che io definisco le dispute dell' aut-aut intorno a questi temi».

Certo, per parlare ai suoi coetanei e alle generazioni successive, non può permettersi il lusso di indispettire l'elettorato dei baby-boomers. Così, anche sul terreno dei «due elettorati» progressisti, il senatore dell'Illinois è chiamato a sfoderare la sua consumata abilità dialettica. Anche per due ragioni evidenti. La prima è che molti dei temi che dividono la società sono gli stessi di trenta, quarant'anni fa, anche se declinati in modo diverso. Le guerre culturali continuano a riguardare sesso, religione, libertà, disuguaglianze sociali e culturali. «Semplificando al massimo – osserva Paul Waldman – l'America è divisa tra le persone che pensano che il sesso sia una parte naturale della vita, per cui dovresti più o meno poterlo fare con chi ti va a genio, e le persone che pensano che il sesso sia una cosa sporca e peccaminosa e dovrebbero dirti loro con chi e come farlo (senza contare il fatto che abbiamo anche il Vietnam dei nostri giorni – e ancora una volta i liberal avevano ragione e i conservatori torto)».

La seconda ragione è più prosaica. Ha a che fare con i numeri. Ancora per molte consultazioni a venire, gli elettori della baby-boom generation saranno tanti. Secondo l'U.S. Census Bureau, nel 2004 erano 113 milioni gli elettori americani tra i 18 e i 44 anni – nati dopo il 1960 – al confronto dei 107 milioni nati prima del 1960. Morale: i post-baby boomers sono oggi la maggioranza, ma i loro fratelli più grandi staranno in giro ancora per un po'.

Il messaggio di Barack Obama dovrà tenerne conto. Anche perché i baby boomers continuano a essere i più attivi politicamente e dispongono di più soldi per finanziare le cause in cui credono e chi le sostiene. L'emblema del potere e dell'influenza della generazione sessantottina è la Hollywood progressista, ancora capace di pesare sulle coscienze di sinistra nelle guerre culturali che attraversano l'America.

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