Copertina
Autore Théodore Monod
Titolo L'avventura umana
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Varianti , pag. 156, cop.fle., dim. 135x220x11 mm , Isbn 978-88-339-1549-4
OriginaleEt si l'aventure humaine devait échouer
EdizioneGrasset & Fasquelle, Paris, 2000
TraduttoreGiovanna Antongini
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe natura , filosofia , ecologia , religione
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Indice

  9     Parigi, 13 settembre 1999
 11     Théodore Monod, la sentinella
 15     Chi ti ha fatto re?

        Parte prima  L'uomo e la natura

 21  1. Dentro o fuori?
 25  2. Dall'amigdala alla bomba

        Parte seconda  L'ominazione

 37  3. Natura e libertà
 51  4. Acquisizioni: promessa o possibilità
 57  5. Pleonasmo

        Parte terza  Umanità e biosfera

 65  6. Accertamento d'urgenza
 69  7. Alla ricerca di una nuova moralità

        Parte quarta  Unità e diversità

 85  8. L'uno e il multiplo
 89  9. Elogio della diversità
 95 10. L'Africa attraverso un prisma

        Parte quinta  Natura vivente e fede cristiana

105 11. L'animale nel pensiero e nella morale cristiani
127 12. Una fede da ripensare

149     Conclusione
        E se l'avventura umana dovesse fallire
 

 

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Senza paura...

Senza paura, lasciando dell'uovo la tiepida cella,
Larva bizzarra e insignificante,
Inconscio abbozzo, fuori dalla matrice gettato,
Hai dovuto, giocando d'azzardo,
    Nascere senza paura

Senza paura, nelle mattine dorate e i mezzogiorni,
In pieno sole o sotto l'uragano
si deve, nel frastuono dei tuoni maledetti,
Di fronte ai gridi dei demoni, le nebbie, il miraggio
    Vivere senza paura.

Senza paura, venuta la sera dall'ombra violetta
- Oh vecchio cuore infine consolato -
Dovrai, mollando gli ormeggi alla cieca
Per offrire al riflusso il tuo scafo abbandonato
    Morire senza paura.

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Chi ti ha fatto re?


Ormai chiunque lo ammette - persino gli apprendisti stregoni del nucleare, l'EDF (Electricité de France), le grandi industrie Péchiney et Rhòne-Poulenc, e anche i cantori dell'autostrada urbana, persino gli enracineurs che confondono piantagioni d'alberi e foreste, i «riaccorpatori / lottizzatori» che conducono un'allegra crociata contro le siepi, le scarpate, i boschetti o le paludi, persino gli industriali degli sport invernali, degli arginamenti, della «marina-piedi in acqua», degli eleganti mega-termitai in cemento tipo Baia des Anges, Grande Motte o Leucate, persino i nostri «grandi capi militari» peraltro sempre più malati di bulimia territoriale, e anche i nostri tecnocrati in preda a una tecnomania galoppante - tutti, sì, oggi lo sanno: ormai non si potrà più fare impunemente qualsiasi cosa in qualunque posto, il solo profitto e ancor meno il solo «prestigio» non basteranno a giustificare un'operazione, e nemmeno la redditività a breve termine costituirà una circostanza attenuante. A partire da ora, si deve pensare seriamente all'avvenire del nostro piccolo pianeta e vegliare affinché la vita sotto tutte le sue forme, vegetale, animale, umana, non corra più il rischio di sparire a causa dello sforzo congiunto degli inquinatori, dei massacratori, dei pirotecnici dell'atomo o dei cementificatori.

Ciò significa, per spiegarmi meglio, che un ciclo si conclude, che finisce un'era e un'altra comincia: finalmente...

Si dovrà comunque cambiare atteggiamento, quando ci viene annunciato che tra novecento anni - domattina per il biologo o il geologo - al tasso attuale di crescita demografica, vi saranno sessanta miliardi di uomini sulla terra.

Mirabeau, rivolgendosi ai promotori dei grandi edifici e dei grattacieli, l'aveva peraltro già detto: «Gli uomini sono come le mele: quando le si ammucchia, marciscono...»


Bisogna umilmente riconoscerlo: i tre grandi monoteismi, le genti del Libro, Ahel al-Kitab, come dicono i musulmani, si sono trincerati nella concezione trionfalistica di un uomo preposto alla dominazione del mondo, avente specificamente ricevuto dal Creatore il diritto di vita e di morte su ogni altra creatura, poco incline ad accettare la solidarietà che dovrebbe unire tutti i viventi, e meno ancora la pietà e la misericordia.

Questo mito arrogante di «re della creazione» è, va detto, assolutamente scritturale, e non ci si meraviglierà dunque di vederlo collocato a titolo di postulato al centro della teologia cristiana, dove vi resta barricato da secoli senza manifestare la minima intenzione di uscirne. Aggiungiamo inoltre che questa potente corrente antropocentrica, che sostiene un cosmo creato per un'unica specie animale, l' Homo sapiens, è stata fortemente rafforzata dall'insensibilità del cartesianismo nei riguardi dell'animale: la cagna del mite e pio Malebranche meritava dunque il suo calcio.

Le implicazioni di tale postulato saranno incalcolabili nell'ambito del pensiero ma anche, cosa molto più grave, in quello dell'etica poiché la teologia cristiana oserà ignorare, serenamente e senza rimorsi, il terribile e doloroso problema della sofferenza animale; la Chiesa continua a tacere di fronte a tante manifestazioni della nostra crudeltà, la corrida, la caccia a cavallo con i cani, la caccia in genere, la troppo incompleta applicazione del decreto del 1964 sulle procedure d'abbattimento, le condizioni scandalose di tanti allevamenti in batteria, la vivisezione insufficientemente controllata ecc.

Ma è necessario risalire alle origini e aprire il libro della Genesi. Già dal primo capitolo l'uomo è destinato a dominare gli animali e ad assoggettare la terra, ma dopo il Diluvio, all'uscita dall'arca, le prerogative regie dell'uomo verranno espresse ancora più brutalmente: «Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere». Sappiamo bene con quale obbedienza questo comandamento è stato osservato, al punto che oggi si contano a centinaia le specie viventi sterminate, cancellate per sempre dalla terra per la stupidità o l'avidità umana.

Gli esiti della pretesa «regalità» dell'uomo sono visibili ovunque. In qualche modo la creazione esiste per lui solo; egli godrà dunque di un diritto senza limiti, quello di sottometterla a suo uso e di costringerla, se necessario con estrema violenza, a servirlo.

Da un lato un proprietario sovrano, titolare del jus uti et abutandi, dall'altro la proprietà, animata o inerte, ma ugualmente sottomessa al piacere del padrone, vittima destinata allo sfruttamento. L'uomo da una parte, la natura dall'altra, ambedue creati, certo, ma senza che l'uomo abbia il minimo senso della sua responsabilità morale, dell'interdipendenza degli esseri, della profonda unità del mondo vivente, della simpatia che al suo interno gli elementi psichicamente più avanzati sono tenuti a manifestare. Di questa arrogante filosofia che vede nell'animale null'altro che una preda e nel cosmo tutt'intero solo una «risorsa», di questo trionfalismo elementare, i segni, purtroppo, abbondano. Nel corso dei secoli, qualche bella massima ha scusato tutto: lo sterminio delle specie, ogni massacro, ogni caccia, anche la più spietata, ogni crudeltà, compresi i divertimenti cruenti, disonore di pretese «civiltà» che troppo spesso sono soltanto barbarie mal camuffate.

Mi è dunque parso necessario contribuire qui con alcune riflessioni personali, un po' scucite forse, senza dubbio non abbastanza didattiche o accademiche a giudizio di qualcuno, su di un tema che non dovrebbe lasciare indifferente un primate adulto e pensante e ancor meno colui che si è auto-battezzato, un po' prematuramente a giudicare dal suo comportamento, sapiens.

Sulla questione generale dell'atteggiamento dell'uomo di fronte alla natura o, se si preferisce, del cosmo, vorrei tentare di esaminare, di accennare, di volta in volta, i punti seguenti:

- che cos'è l'uomo in rapporto alla natura;

- a che punto è l' ominazione;

- le tappe della situazione umana all'interno della biosfera;

- l'unità e la diversità;

- natura vivente e fede cristiana.

E se, forse con qualche imprudenza, oso abbordare un tema la cui ampiezza incommensurabile, riflettendoci, dovrebbe scoraggiare chiunque, è perché perdura al mio fianco l'ombra familiare di due incomparabili amici che hanno arricchito, ognuno a suo modo, il mio spirito e il mio cuore. L'uno fu un ardente profeta della speranza, il cui temperamento ottimista dissimulava talvolta alcuni aspetti dolorosi della realtà, l'altro è stato l'eroico paladino delle cause giuste e impopolari - scuserete il pleonasmo -, l'amico di tutte le vittime della violenza, di tutti i maltrattati, di tutti i diseredati. Io devo molto a entrambi questi uomini tanto diversi ma che avanzavano su cammini convergenti verso una stessa luce, il padre Teilhard de Chardin e Louis Massignon.

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3. Natura e libertà


Ben inteso, mi guarderò bene di azzardare una definizione - qui superflua - di due termini che hanno, ambedue e da secoli, ampiamente impegnato il pensiero umano. Il mio intento, più modestamente, si allinea al tema che Edouard Leroy si era prefissato nel suo Les Origines humaines de l'évolution de l'intelligence (1908), opera già fortemente impregnata di influenze teilhardiane: definire le radici biologiche della libertà. È dunque all'interno del quadro dell'evoluzione del mondo vivente, forse anche del mondo tout court, che le mie modeste riflessioni si inscriveranno.


Oggi tutti sanno che è ormai impossibile e, d'altra parte, impensabile, considerare l'universo e la sua storia (poiché ne ha una) al di fuori del concetto di evoluzione, dunque di trasformazione e di divenire. Il cosmo aristotelico, stabile, immutabile, eternamente immobile, ha fatto posto a un universo non compiuto, ma in un continuo farsi, come diceva Bergson e a cui faceva eco il biologo Vandel: «Il cambiamento non è un accidente, è la legge stessa del mondo. Conviene sostituire la filosofia dell'immutabile con quella del cambiamento».

Di conseguenza, all'interno del cosmo tutto si tiene. Potranno esservi transizioni, soglie, livelli d'evoluzione, stasi, ma la catena resta, da un capo all'altro, senza soluzioni di continuità. Attraverso un unico filo passerà una formidabile corrente ascendente d'energia, di coscienza, il vitalismo della materia e l'ominazione della vita.

Nessuno ha descritto, si potrebbe dire cantato, con più eloquenza e fervore di Teilhard de Chardin questa lenta epopea della diversificazione all'interno del continuum dell'universo. Per Teilhard, l'unità delle cose e degli esseri è assiomatica: «Il seme di vita poi il seme di pensiero succederanno al seme di materia», essendo quest'ultima sin dall'origine in stato di genesi, con un movimento ascensionale verso uno stato superiore e, giunto il momento, verso lo spirituale. Il cosmo tutt'intero ha una storia in cui, afferma Teilhard, «materia e spirito sarebbero inglobati in una stessa spiegazione coerente e omogenea del mondo». «Per ogni spirito moderno - aggiunge - la coscienza è sempre risultata da un movimento universale, assolutamente specifico, in virtù del quale la totalità delle cose, dall'alto in basso, si sposta solidalmente e senza discontinuità, non solo nello spazio e nel tempo, ma in uno spazio-tempo la cui particolare curvatura renderà ciò che vi si muove sempre più organizzato».

Materia e spirito dunque non sarebbero altro che le due facce di uno stesso oggetto. Non esistono due compartimenti stagni: il dominio della materia e quello della vita, il mondo atomico delle molecole e il mondo cellulare delle piante e degli animali, bensì una realtà unica, tanto che Teilhard si spingerà a ipotizzare che la materia stessa possa contenere già un germe di coscienza.

Analogamente, secondo Vandel, è inconcepibile mettere in dubbio l'origine comune della materia inanimata e della sostanza vivente. La vita ha due volti, i cui limiti restano impossibili da precisare.

Ciò ammesso, la gigantesca traiettoria dell'evoluzione si svolgerà senza grandi fratture, e attraverso crescenti stadi di complessità, dagli aggregati di materia alla cellula vivente, dai reticoli dei cristalli ai mammiferi, ai primati e all'uomo, testimoniando così la lenta ascensione di una coscienza, di uno spirito e, di conseguenza, di un'autonomia e infine di una libertà morale.

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Ma il flusso dell'evoluzione organica ammette pulsazioni, livelli successivi che non interessano soltanto le trasformazioni morfologiche. Analogamente, i grandi temi della storia biologica passano, nel corso del loro sviluppo, attraverso stadi di crescente complessità. La sessualità, per esempio, ancora gametica tra gli unicellulari, diverrà somatica, psichica, sino talvolta a sfociare, per una sorta di sublimazione, nelle religioni.

Si è creduto a lungo che l'evoluzione fosse una specie di asse unico, che saliva verticalmente sviluppandosi gradualmente; in seguito, ci si è resi conto, e Teilhard de Chardin vi ha molto contribuito, che nella realtà ciò avviene per avvicendamenti. Non con un movimento lineare, bensì tramite un'espansione paragonabile a quella di cespugli che sbocciano l'uno dopo l'altro diramando in diverse direzioni i loro virgulti, molti dei quali non attecchiranno.

Mi accade spesso di paragonare l'evoluzione a una muraglia formata da mattoni e giunti. La si vede rimanere più o meno stabile o dotarsi di elementi accessori che influiscono modestamente sulla struttura del phylum in questione, e poi di colpo qualcosa riesce a infilarsi tra due mattoni per raggiungere il livello superiore. Così, una tappa viene superata. Poi le fioriture riprendono, sino al momento in cui un altro pezzo di phylum trova il modo di attraversare una seconda fessura e risalire di una tacca. Questa ascensione per occasioni successive è davvero un fenomeno molto singolare.

Un gran numero di «tentativi» viene abbandonato, e pur non essendo condannati a sparire restano inalterati; conosciamo infatti nell'attuale natura animali immutati dal cambriano come alcuni brachiopodi, dal siluriano come gli scorpioni o dal carbonifero come gli scarafaggi. Per converso, assistiamo a molte innovazioni. Nuove forme appaiono poiché l'insieme si è mosso. Le varietà che oggi vediamo sono spesso assai specializzate, esistono da molto tempo e hanno dietro di sé un considerevole retaggio.

Se ancora abbiamo tanta difficoltà ad accettare e concepire questa realtà dell'evoluzione, dipende dal fatto che siamo impreparati ad acquisire la coscienza della durata. Lo spessore del tempo è prodigioso. Già Lamarque affermava: «Con il tempo, tutto diviene possibile». Aggiungendo: «E alla natura il tempo non manca mai». Va detto che quando ci si destreggia con miliardi d'anni, durata totalmente aliena alla nostra vita normale, molte cose che ci apparivano impossibili o difficili da credere diventano invece possibili, probabili o addirittura reali.

Non si è mai visto, e non lo si vedrà mai, un pesce uscire dall'acqua e trasformarsi in batrace, ma bisogna credere che ciò è avvenuto. Così come non si è mai visto un batrace diventare rettile, né un rettile mutarsi in uccello o in mammifero. E tuttavia è successo; disponiamo di fasi fossili intermedie come l' Archaeopterix, organismo metà rettile e metà uccello, che ci consentono di accertare l'oggettività dei processi di trasformazione.

Non si ricorderà mai abbastanza che la storia naturale, termine oggi troppo denigrato, ignorato e considerato sorpassato dai sostenitori delle scienze alla moda, resta fondamentalmente una storia, con la sua cronologia, i suoi molti fallimenti, i suoi tentativi mancati, i suoi successi incompleti, le sue false partenze, ma anche con la tendenza a un ordine gerarchizzato indice di una direzione, di una traiettoria che il solo ricorso al caso non potrebbe mai spiegare.

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Dopo la morfologia, molti altri caratteri definiranno l'umanità nascente. La sua diffusione geografica che, partendo dai focolai africani, coprirà l'intero pianeta, l'uso dell'utensile, fabbricato ed esterno al corpo, la crescita in complessità di connessioni sui generis tra membri di una stessa collettività. Abbiamo dunque raggiunto la soglia dove l'uomo potrà passare da un'evoluzione subita a un'evoluzione pensata e diretta, con la comparsa, attorno alla biosfera, di un involucro concentrico: la noosfera teilhardiana. Franz Leenhardt lo spiega chiaramente: attraverso la facoltà di scelta e le possibilità di analisi e riflessione che l'accompagnano e ne sono le condizioni psicologiche, la creatura che dice «io» diventa il fattore di un nuovo ordine nella creazione.

È un fatto certo, almeno in teoria, ma è anche il momento di stabilire in quale misura l'ascesa e la traiettoria umana abbiano corrisposto all'ottimistica magia delle parole, alla poetica illuminazione del visionario. Leenhardt, meno sensibile di Teilhard agli incantesimi delle formule (potremo dire più lucido?) lo riconosce: «L'uomo non è ciò che vorrebbe o dovrebbe essere, l'uomo può essere padrone della natura senza esserlo di se stesso. L'uomo non sembra, in molti campi, aver superato lo stadio dell'animalità».

«Osservando vivere l'umanità attuale - è sempre Leenhardt che parla - vedendo le follie della guerra, i disastri della dissolutezza, dell'odio e della crudeltà, i cancri dell'avarizia e della venalità, guardando la scia di sangue, di fango e di lacrime che lascia dietro di sé, ci si può domandare se la maggior parte dell'umanità, se non addirittura l'umanità tutt'intera, non abbia fatto il più funesto uso del meraviglioso strumento che dovrebbe servire al dominio di sé»: la libertà. E il geologo filosofo parla di discordanze, vicoli ciechi, regressioni, deviazioni e, nel senso teologico del termine, qui inevitabile, di caduta.

Per concludere la riflessione che ci conduce sino alla soglia dell'uomo attuale, l'uomo moderno, restano da evocare le grandi tappe della nostra multimillenaria avventura.

Mentre l'uomo preistorico nasce nella natura, vi abita, l'uomo storico entra in conflitto con essa. Una prima fase sarà dunque quella della biocenosi di cui l'ominide farà parte a lungo, senza dubbio per molte migliaia d'anni. All'epoca, egli è solo un mammifero raccoglitore, poi, sempre più, parallelamente al progredire delle sue capacità tecniche, un predatore, ma senza maggior impatto sull'ambiente di quanta non ne avessero gli altri grandi animali della savana. Il perfezionamento degli strumenti è in evidente rapporto con il progresso dello psichismo e dunque di una libertà di scelta diventata più efficace. A lungo, i mezzi, e di conseguenza, i danni resteranno tuttavia limitati. Ma, con l'avvento di ciò che è stata giustamente chiamata rivoluzione neolitica, si raggiunge un nuovo stadio. Con la ceramica, la coltivazione dei cereali, la domesticazione degli animali, la vita sedentaria diventa possibile e, con la città, si affermerà l'accostamento tra il tempio, il palazzo, la scuola, la prigione, la caserma, il mattatoio e il lupanare, cristallizzando così un'immagine di civiltà destinata infine a essere la nostra. Da quel momento si apre una fase nuova che ancora perdura, quella del divorzio e dell'aggressione. L'uomo non è più un elemento relativamente inoffensivo della catena ecologica. Egli ormai interverrà, per così dire dall'esterno, con un'efficacia continuamente accresciuta e nella direzione che si può immaginare, quella di un'attività distruttrice e devastante, non cercando altra giustificazione per i suoi metodi che il criterio di efficacia e di profitto, con il risultato che abbiamo oggi davanti agli occhi e probabilmente mettendo anche in pericolo la vita sulla terra; un saccheggio insensato delle risorse naturali e ancor più, purtroppo, un'accumulazione mostruosa, indegna di un Homo sedicente sapiens, di macchinari bellici di distruzione.

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Pagina 149

Conclusione

E se l'avventura umana dovesse fallire


Ipotesi forse assurda per molti, e anche un tantino sacrilega per altri; pensateci, l'uomo non occupa forse, per definizione, l'apice dell'intera evoluzione biologica? Ed è vero che sotto molti aspetti, la specie umana ha perseguito un'ascesa che gli ha permesso di distanziare i suoi fratelli inferiori essendo il solo animale la cui tana s'illumina la notte; il solo capace anche di possedere una storia e di scriverla. L'antico Serpente l'aveva promesso: «Voi sarete come degli dei...» La potenza l'abbiamo ottenuta, quanto meno quella materiale, ma avremo un giorno la saggezza per addomesticarla e umanizzarla? In ogni caso, lo stato del mondo, duemila anni dopo il primo Natale, non giustifica in alcun modo il nostro orgoglio né rassicura le nostre coscienze. Chi di noi non arrossisce di vergogna alla lettura del giornale quotidiano? Che sia alimentato da elevate speranze umane, dall'amore di giustizia o dall'ideale evangelico, ogni giorno fornirà nuovi motivi per interrogarsi sull'avvenire di un uomo che continua con ostinazione a non voler uscire dalla preistoria.

Si obietterà: sì, d'accordo, lo spettacolo di questi uomini tanto fieri delle loro prodezze tecniche, che però praticano la tortura, accettano la violenza, non odiano sinceramente la guerra e l'organizzano senza rimorsi, non è edificante, ma ci vuole tempo. Emergere dalla barbarie ancestrale è un lungo processo e dato che l'uomo, geologicamente parlando, è ancora molto giovane, ha l'avvenire di fronte a sé; lasciategli il tempo di diventare adulto e di scoprire il suo vero destino.

Belle parole, l'argomentazione non è sciocca, benché la rassegnazione alla lentezza del progresso morale non tenga in alcun conto il sangue e le lacrime delle vittime. Ma se, al limite, quest'ottica è stata sinora difendibile, gli eventi hanno oggi una diversa, terrificante, dimensione. L'uomo è diventato - materialmente - onnipotente, ed è in grado, al bisogno, di far esplodere il pianeta, e trasformare i continenti in scorie e vetrificazioni, e poiché è perfettamente capace di condursi in modo insensato e demenziale, si può temere di tutto, compreso l'annientamento della razza umana.

Alcuni ottimisti continueranno probabilmente ad aver fiducia nell'uomo, a credere nella possibilità che egli prosegua nell'evoluzione gradualmente e per molti anni ancora. Ma, con le minacce estreme che oggi gravano sul suo futuro, avrà il tempo necessario per raggiungere la piena maturità? Nulla è meno certo, è gioco forza ammetterlo.

E, dopo tutto, perché escludere che un giorno l'evoluzione, ostinata, non lanci in avanti come avanguardia un altro gruppo a rilevare quello che potrebbe essere scomparso? Amputato della sua freccia terminale, l'albero non produrrebbe una nuova gemma per sostituirla?

Anche i dinosauri si sono ritenuti, e a giusto titolo, «re della creazione»; e poi hanno dovuto cedere il posto, per scomparire sino all'ultimo esemplare. Già da oggi ci si può porre la domanda: nel caso in cui gli uomini, o i primati, sparissero, chi verrà a rimpiazzarli?

Nulla impedisce di sognare, non è vero? Gli insetti? Meravigliosi piccoli meccanismi, ma com'è venuto loro in mente di avere lo scheletro all'esterno? Allora gli uccelli? Abbastanza ben riusciti, certo, ma cervelli piccoli. Cerchiamo ancora... Credo di avere un candidato: i cefalopodi, ossia, piovre, seppie, polpi e calamari. Questi molluschi acquatici, esclusivamente marini, presentano notevoli perfezionamenti anatomici. La testa è prolungata da una capsula cartilaginosa, che ha il ruolo di cranio, e gli occhi possono sostenere il paragone con quelli dei vertebrati. Sono dotati di uno psichismo altamente sviluppato e, ad alcuni di loro, sono state attribuite due memorie, quando voi e io non ne abbiamo che una.

Sono di taglia considerevole: i famosi calamari giganti delle regioni boreali, i leggendari krakens, potevano raggiungere in lunghezza una ventina di metri. Peraltro, ne conosciamo solo dei frammenti, pezzi di braccia trovati a galla sul mare e l'impronta delle loro ventose sulla pelle dei capidogli.

Ovviamente, nulla prova che i cefalopodi prevedano di tentare l'avventura di uno sbarco continentale. Dovrebbero prima rinunciare alla respirazione branchiale e inventare, di nuovo, il polmone; evoluzione che richiederebbe almeno qualche milione d'anni. Ci si può dunque rassicurare, l'arrivo dei krakens sulle nostre spiagge non è per domani...

Dobbiamo scegliere: accettare la vera ominazione, cioè la simpatia e la pietà per tutti gli esseri, il rispetto della vita, il rifiuto della violenza, sia essa istituzionale o fisica, la pratica di una reale giustizia, la dissacrazione del militarismo o, pagando infine il giusto prezzo delle nostre follie e delle nostre crudeltà, lasciare il posto ai calamari. Scegliamo l'Uomo - con la maiuscola questa volta - ma affrettiamoci; il tempo stringe...

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